Relazione tenuta al convegno del 2 dicembre 2017 a Roma “Ma viene un tempo”. La svolta di papa Francesco conclude il secondo millennio cristiano superando le cadute culturali ed evangeliche che avevano sinistrato i rapporti interni alla Chiesa ed il suo rapporto col mondo
1. Gli interventi di papa Francesco propongono, fin dall’inizio del pontificato, un riorientamento di atteggiamenti ed indirizzi che si sono sedimentati nella Chiesa cattolica nel corso di una storia bimillenaria. Si tratta di una sollecitazione a misurare comportamenti individuali e collettivi ereditati dal passato alla luce del principio fondamentale della misericordia che viene individuato come il nucleo portante del messaggio evangelico. E’ evidente che tale ottica comporta un riesame complessivo cui ben pochi aspetti della vita del credente possono sottrarsi. Risulta perciò inevitabilmente arbitrario scegliere nella lunga vicenda della Chiesa cattolica qualche elemento rispetto al quale l’insegnamento papale marca una presa di distanza o una differenziazione o una cesura. Proverò tuttavia ad identificare nel secondo millennio della storia cristiana – vale a dire nell’ambito cronologico che ho frequentato negli studi – alcuni momenti che mi pare abbiano determinato nella comunità ecclesiale effetti significativi e duraturi sui quali le indicazioni di Francesco implicano una trasformazione tale da prospettare l’avvio di un nuovo cammino.
Prima di tutto: la libertà della ricerca
Prima di addentrarmi in questo argomento mi sembra però opportuno ricordare un dato che, apparentemente secondario, credo sia invece decisivo per apprezzare la novità di papa Francesco. All’inizio del ventesimo secolo la condanna del modernismo da parte di Pio X aveva comportato, all’interno della Chiesa cattolica, la rigida subordinazione della ricerca in campo esegetico, teologico e storico-religioso all’autorità ecclesiastica. Di fatto la libertà dell’indagine scientifica – vale a dire uno dei presupposti fondamentali della ricerca – era stata sottoposta al controllo di chi nella Chiesa deteneva, anche senza averla mai praticata, la responsabilità di governo. Al di là delle delazioni e delle repressioni che avvelenarono il clima ecclesiale dell’epoca, la censura e l’autocensura ne furono l’ovvia conseguenza. I ritardi culturali e pastorali provocati da questa situazione erano ben presenti ai padri del Concilio Vaticano II che cercarono nella costituzione Gaudium et spes di trovare un qualche rimedio. Riconobbero infatti che occorreva abbandonare le posizioni di quanti in passato non avevano accettato la legittima autonomia della scienza. Si trattava, come spesso accade nei documenti conciliari, di un cambiamento significativo, ma pur sempre parziale e limitato: l’accostamento dell’aggettivo “legittima” al sostantivo “autonomia” lasciava aperta la strada ad un controllo ecclesiastico sulle attività scientifiche.
Credo sia a tutti ben noto che, soprattutto dopo il pontificato di Paolo VI, tale strada è stata largamente percorsa dai dicasteri vaticani, in particolare dalla Congregazione per la dottrina della fede ed è stata messa in pratica anche mediante interventi episcopali che, per essere spesso informali, non incidevano meno pesantemente sulla vita delle comunità ecclesiali. Esse venivano infatti private del confronto con gli sviluppi della moderna cultura religiosa. Con l’avvento al soglio pontificio di Francesco si è registrato un mutamento non solo nelle pratiche di governo ecclesiastico, ma anche negli indirizzi proposti alla comunità ecclesiale. La libertà della ricerca è stata riconosciuta come un fattore positivo, anzi decisivo, per l’individuazione delle modalità con cui le Chiese possono leggere, nella specificità dei contesti in cui vivono, il significato del messaggio evangelico e trasmetterlo ai contemporanei.
In particolare per quanto riguarda la ricerca storica Bergoglio ha colto l’occasione della rievocazione dell’atteggiamento cattolico sulla Shoah per proclamarne la piena autonomia. Non solo. In quella stessa circostanza ha sciolto un equivoco, ereditato dalla contraddittoria stagione ecclesiale guidata da papa Wojtyla. Giovanni Paolo II non aveva mancato di ricordare che la Chiesa riconosceva piena libertà all’indagine sul passato, ma aveva anche aggiunto che all’autorità ecclesiastica spettava comunque un finale giudizio morale sugli accadimenti dagli studi accertati. Nella visione di Francesco giudizio morale e giudizio storico hanno i loro propri ambiti, frutto del riconoscimento della rispettiva indipendenza di percorsi.
Naturalmente non voglio con questo dire che Francesco abbia compiuto il miracolo di emancipare la storia della Chiesa dai condizionamenti apologetici o polemici che l’hanno accompagnata fin dalla sua istituzionalizzazione professionale all’interno dei quadri formali del sapere storico nei decenni finali dell’Ottocento. Mi sembra però che un clima secolare, derivante dalla repressione modernista di inizio Novecento, sia cambiato. Ora tocca ai cultori della disciplina, e solo ad essi, liberandosi, nella misura in cui ne sono capaci, dal gravame dei loro pregiudizi, ricostruire il passato per quel che è effettivamente stato. E tale risultato può venire proposto alla libera discussione di tutti, ed in particolare della comunità ecclesiale, senza la preoccupazione per l’intervento repressivo di una autorità estranea ai criteri del lavoro scientifico.
Fatta questa premessa, credo non inutile a mostrare una prima e rilevante discontinuità, vorrei soffermarmi su tre momenti significativi del passato ecclesiale rispetto ai quali il papato di Bergoglio segna un palese mutamento di indirizzo.
Il papa non è il signore della Chiesa
2. Il primo momento su cui mi soffermo riguarda la riforma gregoriana dell’undicesimo secolo ed in particolare il suo documento più noto, il Dictatus papae, presente nella raccolta ufficiale delle carte di papa Ildebrando sotto il titolo: “Quale sia il potere del romano pontefice”. Naturalmente non è qui il caso di riprendere le discussioni che da decenni ne accompagnano lo studio relative all’autore, alla datazione, alla tipologia documentaria del testo, alle intenzioni che hanno presieduto alla sua redazione. In questa sede mi limito solamente ad una notazione. Delle ventisette proposizioni che lo compongono solo quattro – o anche cinque, se si vuole dare una lettura estensiva della diciannovesima – riguardano le relazioni del papato con i poteri temporali, mentre tutte le rimanenti sono di natura ecclesiologica. Si tratta insomma di un testo che, pur facendo riferimento al tema che ha prevalentemente attirato attenzione – vale a dire la proclamazione della supremazia papale sulle autorità civili – intende in primo luogo affermare, articolando la questione in maniera analitica e sotto una pluralità di profili, la monarchia papale su tutte le espressioni della comunità ecclesiale, ed in particolare sui vescovi.
Come è stato opportunamente notato, ciascuna delle singole proposizioni del Dictatus papae può trovare riscontro in passi della letteratura cristiana ad esso precedente, a partire dalla Scrittura e dai Padri fino ai canoni delle Decretali; ma, considerato nel suo insieme, il documento esprime attraverso una sintesi coerente e sistematica una configurazione del tutto nuova del potere del papa sulla Chiesa. Segna così una cesura netta con la storia precedente, avviando una stagione ecclesiale completamente diversa rispetto al primo millennio. In maniera sintetica si può dire che esso presenta il papa come signore della Chiesa su cui esercita un potere personale, assoluto, illimitato e universale. La motivazione sta nella tesi che l’autorità conferita da Cristo a Pietro passa da questi, in virtù di un principio divino e di un diritto ereditario, a tutti coloro che gli succedono sulla cattedra romana fino alla fine del mondo. Ora, godendo Pietro di una preminenza su tutti gli altri apostoli, i pontefici successori di Pietro, godono di una autorità piena e personale su tutti i vescovi, anche se riuniti in collegio. Inoltre, siccome Cristo ha promesso a Pietro l’assistenza divina, ogni atto del pontefice è dettato dallo Spirito santo, sicché egli non erra e non potrà mai errare, giudica tutti e da nessuno può essere giudicato, le sue decisioni sono irreformabili e insindacabili.
Il Dictatus papae rappresentava un progetto di trasformazione accentratrice della struttura ecclesiastica che, benché legittimato da un indiscutibile prestigio morale – rappresentava infatti lo strumento per la realizzazione di una riforma che consentisse al cattolicesimo di ritornare all’ecclesiae primitivae forma – Gregorio VII non riuscì mai a portare a concreto compimento. Tuttavia esso resterà come obiettivo programmatico tenacemente perseguito dalla Santa Sede,
nonostante stagioni, come quella conciliarista, in cui la crisi del papato sembrava portare a connettere l’istanza di una riforma evangelica della Chiesa con l’introduzione di una struttura sinodale di governo per ogni livello di articolazione della comunità ecclesiale. Infine, in età contemporanea, la convinzione della necessità di una guida unitaria per poter dare una risposta adeguata all’apostasia del mondo moderno porterà alle deliberazioni del Concilio Vaticano I, che, attraverso la proclamazione dell’infallibilità e del primato del papa, facevano di istanze nate all’epoca di Ildebrando un tassello costitutivo dell’ortodossia dottrinale cattolica. La delineazione della figura papale nel Codex juris canonici del 1917 sanciva, anche sul piano giuridico, che essere cattolici significava accettare la monarchia papale sulla Chiesa.
Al di là della sua formalizzazione, in fondo recente, si tratta comunque di una concezione ecclesiologica profondamente sedimentata nella prassi organizzativa come nella mentalità del mondo cattolico che non è stato esente dal tradurla in forme di vera e propria papolatria. La difficoltà di accantonarla è ben testimoniata dalla vicenda dell’introduzione della Nota praevia explicativa alla Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa del Vaticano II: l’apposizione di un preliminare chiarimento interpretativo al documento votato dall’assemblea conciliare voleva rendere ben evidente che la collegialità episcopale come forma di governo della Chiesa universale si esercita solo in via straordinaria e, in ogni caso, esclusivamente sub Petro. Tuttavia è anche palese che alcuni tratti del governo di papa Francesco cominciano ad erodere questa impostazione. Mi limito a ricordare due aspetti.
Verso un’ecclesiologia di comunione
Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, con cui delineava nel 2013 le linee programmatiche del suo governo, il papa, nel quadro della costatazione che la centralizzazione romana nel governo della Chiesa universale costituiva un ostacolo alla dinamica missionaria della Chiesa, notava che la necessaria conversione delle strutture centrali della Chiesa doveva andare nel senso di quella collegialità episcopale che il Vaticano II aveva indicato, ma che non era stata realizzata. Ed a questo proposito indicava una meta che non era certo presente nei documenti conciliari: l’attribuzione alle conferenze episcopali di una “autentica autorità dottrinale”. E’ poi vero che dall’enunciazione di questa prospettiva, nel 2013, ad oggi la sua traduzione concreta nella vita della comunità ecclesiale non ha mostrato particolari sviluppi; ma è anche vero che su un tema particolarmente sensibile per la pratica religiosa del popolo cristiano, come quello della liturgia, Begoglio ha a più riprese asserito la competenza degli episcopati ad adeguare i testi alle concrete situazioni delle loro popolazioni. Nello scorso settembre il motu proprio Magnum principium, pur riservando a Roma la confirmatio finale delle traduzioni di tali testi, ha di fatto sancito questo orientamento.
Ma c’è anche un secondo aspetto che vale la pena richiamare. Credo non sia necessario insistere sull’effettivo significato che nella Chiesa post-conciliare ha assunto l’istituto del sinodo dei vescovi voluto da Paolo VI nel 1965. Si è trattato della creazione di un organo che, ridotto a meri compiti consultivi e controllato nel suo funzionamento dalla curia, riaffermava il supremo potere della Santa Sede nel governo della Chiesa universale attraverso una parvenza di realizzazione dell’istanza di collegialità emersa dal Vaticano II. Le modalità dei due sinodi sulla famiglia convocati da Francesco – quello straordinario del 2014 e quello ordinario del 2015 – non hanno registrato rilevanti modificazioni in questo quadro, tranne che su un punto, peraltro di grande portata: il coinvolgimento dei fedeli attraverso un questionario inviato a tutte le parrocchie. Le problematiche modalità di trasformazione di questo processo in una effettiva forma di partecipazione alle decisioni e le prudenze con cui la Segreteria generale del sinodo ha avviato una riflessione sulla stabilizzazione di questa esperienza, non possono far dimenticare il segno che esso rappresenta: l’avvio di un processo in cui l’ecclesiologia verticistica scaturita dalla riforma gregoriana cede il posto ad una ecclesiologia di comunione in cui tutte le componenti del popolo di Dio, compresi i laici, partecipano ai processi decisionali.
Non più l’anatema
3. Il secondo momento su cui avanzare qualche riflessione è un aspetto della Chiesa cattolica scaturito, nella seconda metà del Cinquecento, dal Concilio di Trento e dal fermo ancoraggio alle sue decisioni dei papi che si succedettero nella lunga stagione controriformistica. Si tratta di una delle vicende dell’età moderna che, a partire dal secondo dopoguerra ad oggi, hanno maggiormente attratto l’attenzione degli studiosi. Essi hanno ampiamente mostrato come fino al Vaticano II l’assetto ecclesiale sia stato in larga misura determinato dalle scelte allora compiute. Per fare qualche esempio, si può ricordare l’accentuazione delle opere – in particolare le pratiche sacramentali e il culto delle immagini – come vie per la salvezza; la liturgia in lingua latina; le forme individualistiche della pietà; la separatezza della formazione sacerdotale dal mondo circostante; il clericalismo della pastorale; una gestione dei beni ecclesiastici diretta alla promozione dello sfarzo esteriore; gli ostacoli frapposti all’accesso diretto dei fedeli alla Scrittura. Quest’insieme di elementi – e gli altri che si potrebbero aggiungere – venivano emblematicamente rappresentati come tratti costitutivi dell’identità cattolica attraverso la formula con cui si chiudevano i decreti del Tridentino: anathema sit per chi non aderiva alle concezioni in essi espresse.
In tal modo si sanciva una rottura radicale: coloro che interpretavano la fede cristiana in modo diverso da quanto stabilito da Roma non solo venivano esclusi dalla comunione ecclesiale, ma erano anche considerati portatori di una alterità religiosa ritenuta pericolosa, in quanto capace di disgregare le basi dell’unica vera Chiesa. In questa prospettiva la relazione che con essi si intratteneva non poteva che essere conflittuale. La differenza doveva essere riassorbita e le strade non erano molte: o la conversione o la cancellazione. Dopo secoli di scontro, anche armato, è solo con la seconda guerra mondiale che all’interno del cattolicesimo romano comincia a trovare spazio la prospettiva di sostituire al conflitto la ricerca dell’unità attraverso il dialogo ecumenico tra i cristiani. Come è noto, il decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II riconosce formalmente tale prospettiva e avvia la stagione degli incontri, dei congressi e degli accordi teologici bilaterali o multilaterali.
Alla base del documento conciliare stava l’indicazione che occorreva rimuovere i pregiudizi negativi nei confronti delle Chiese separate, riconoscendo lealmente che in esse si trovavano valori autenticamente cristiani. Era il punto di partenza per un dialogo che doveva portare ad una migliore e corretta conoscenza delle rispettive concezioni. Nelle deliberazioni del Vaticano II si affacciava in realtà anche una linea diversa: l’affermazione che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica apostolica romana lasciava aperta la porta ad evitare una piena e totale identificazione tra la comunità ecclesiale voluta da Cristo e le Chiese cristiane storicamente esistenti. Tuttavia tale interpretazione venne respinta dal papato post-conciliare che di fatto ritenne il verbo “sussistere” come una modalità del verbo “essere”: la Chiesa istituita da Cristo, come vuole il documento Dominus Iesus della Congregazione per la dottrina della fede pubblicato nel 2000, esiste pienamente solo nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui.
Mi pare che papa Francesco, senza entrare direttamente nel dibattito ecclesiologico che si è aperto su questi temi, riapra in nuovi termini la questione del rapporto con le differenze tra cristiani ereditato dalla Controriforma e lasciato irrisolto dal processo ecumenico. Da un lato infatti sottolinea che la diversità non è un limite, ma una ricchezza: ciascuna cultura umana, perseguendo una sua specifica via di approccio al divino, può dire su Dio qualcosa che sfugge alle altre e così contribuire ad una sua migliore conoscenza. Dall’altro lato osserva che tutte le Chiese sono chiamate ad un continuo processo di riforma, al fine di cercare di adeguare la loro configurazione al messaggio di Cristo di cui nessuna può arrogarsi di possedere una intelligenza piena, ma che ognuna può contribuire a meglio capire. In questa prospettiva le relazioni tra cristiani mutano: al passato conflittuale si sostituisce la comune ricerca di una verità di cui nessuno può dirsi esclusivo depositario, ma alla cui individuazione ciascuno, con la sua stessa specificità, può concorrere attraverso la disponibilità alla riforma della Chiesa di appartenenza.
L’uscita dalla Chiesa controriformistica licenzia la violenza bellica
Ma la fuoriuscita dall’età controriformistica investe almeno un altro aspetto che vorrei richiamare. L’obiettivo di cancellare l’alterità religiosa, scaturita dalla rottura protestante, comportava una ripresa del rapporto di tipo costantiniano tra religione e politica. In effetti l’autorità ecclesiastica si appoggiava sulla forza dell’apparato organizzativo costruito dallo Stato moderno al fine di utilizzarne i nuovi strumenti coercitivi per eliminare una differenza percepita come una minaccia letale per la sua stessa esistenza. Dal canto suo l’autorità civile si appoggiava alla Chiesa per conseguire quell’unità religiosa della popolazione che considerava una condizione essenziale del consenso politico allo Stato moderno in costruzione. In questo rinnovato intreccio, che ovviamente veniva messo in opera non solo da parte cattolica, ma anche da parte protestante, trovano la loro radice quelle guerre di religione che hanno insanguinato per alcuni decenni l’Europa. Per quanto la strumentalizzazione del fattore religioso da parte dei governi coinvolti in quei conflitti sia innegabile, è pur sempre vero che la violenza bellica veniva allora pubblicamente giustificata, e talora anche raccomandata, in nome di Dio. Non era certo una novità: l’età delle crociate testimonia che non è stata estranea alla storia cristiana la pratica della guerra santa. Ma ci troviamo qui davanti ad un passaggio ulteriore: la legittimazione religiosa del conflitto armato tra cristiani per risolvere le divergenze dottrinali e le differenze confessionali.
Mi pare che su questo punto si situi un’altra rilevante caratteristica del ripensamento del passato che Francesco opera in ordine all’eredità della Chiesa controriformistica. Netta, ripetuta, persino accorata appare infatti la sua affermazione che non vi può mai essere alcuna violenza compiuta in nome di Dio. A più riprese il papa ha ribadito che nessuna guerra può essere santa, perché essa comporta solo distruzione e morte, elementi che sono in radicale contrasto con l’amore che Dio per l’uomo. Non c’è dubbio che questa asserzione ha un immediato riferimento in un drammatico aspetto del mondo presente: costituisce infatti una denuncia del carattere ideologico del terrorismo islamista il cui proselitismo si basa anche sulla legittimazione divina della morte data agli infedeli e accettata come martirio. Ma, come ben testimoniano i suoi interventi diretti alle Chiese uscite dalla Riforma, è anche evidente che il discorso papale intende promuovere nei loro confronti una riconciliazione, che assume un valore generale, perché parte dal riconoscimento che il passato ricorso alla religione per giustificare la violenza bellica nello scontro interconfessionale rappresenta una deviazione dal messaggio evangelico di cui i cristiani stessi portano la responsabilità.
E’ insomma attraverso la confessione delle proprie colpe passate che i cristiani, ed ovviamente in primo luogo i cattolici, possono oggi, con una qualche credibilità, proporre al mondo contemporaneo la tesi di una insormontabile antitesi tra violenza bellica e fede in Dio. Si può certo osservare che queste posizioni di Bergoglio non costituiscono una assoluta novità, dal momento che hanno radice in orientamenti già promossi durante il pontificato di Giovanni Paolo II: basta pensare al grande giubileo del 2000. Ma, a parte le oscillazioni e le incertezze con cui vennero allora espressi, del tutto nuova è l’indicazione dell’atteggiamento che, in positivo, il credente deve assumere nei confronti della guerra. Come Francesco ha chiaramente indicato nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 2017, la testimonianza cristiana davanti ad un conflitto si esprime nell’adozione del metodo della non-violenza. Ci troviamo qui realmente davanti ad un cambiamento radicale. Il magistero rinuncia al progetto, a lungo perseguito, di esprimere il rifiuto cristiano della guerra restringendo i criteri che la renderebbero giusta. La prospettiva di una possibile moralizzazione della violenza bellica viene ora completamente abbandonata: la rinuncia alla violenza appare come la via concreta per adempiere all’istanza evangelica di essere operatori di pace.
Oltre l’intransigentismo, un nuovo rapporto con la modernità e con la storia
4. Il terzo momento che vorrei considerare riguarda l’affermarsi nella Chiesa cattolica di quella cultura intransigente che, nata come risposta allo choc rappresentato dalla Rivoluzione francese, è entrata come elemento costitutivo del magistero papale con Pio IX alla metà dell’Ottocento. Da quel momento è diventata il fondamentale punto di riferimento per il papato romano fino al governo di Pio XII ed è stata poi variamente ripresa in nuove declinazioni dopo gli sforzi di abbandonarla all’inizio della seconda metà del Novecento, che si registrarono nel periodo giovanneo e conciliare. Si tratta di una cultura articolata e complessa, che nel corso dell’età contemporanea ha mantenuto un carattere egemonico nel mondo cattolico, grazie alla capacità di adeguarsi alle diverse circostanze, pur mantenendo saldamente fermi alcuni caposaldi. Tra di questi ha un ruolo centrale la proclamazione di una insanabile contraddizione tra cattolicesimo e un presupposto strutturante il mondo moderno.
Per l’intransigentismo la modernità ha infatti un elemento caratterizzante e costitutivo: la volontà dell’uomo di autodeterminare le forme organizzative della vita collettiva. Da tale premessa gli intransigenti ricavano una conseguenza precisa: per realizzare la sua aspirazione di fondo l’uomo moderno sottrae il consorzio civile alla direzione ecclesiastica. Ai loro occhi solo la subordinazione all’autorità papale aveva assicurato alla convivenza umana pace, ordine, prosperità. Ne appariva incontrovertibile testimonianza storica il periodo della cristianità medievale, che veniva mitizzato come un paradigma ideale senza prendere in considerazione le sue effettive determinazioni storiche. In questa ottica la condanna del mondo moderno diventa la chiave di volta per definire il rapporto della Chiesa nei confronti dello svolgersi di una storia da essa interpretata come una concatenazione di errori sempre più gravi. Gli sforzi degli uomini di costruire, nel corso del tempo, forme via via più accettabili di convivenza civile vengono letti come un’impresa che, in quanto sprovvista del supremo sigillo ecclesiastico, era destinata ad un inevitabile fallimento.
Per quanto il mondo moderno non sia certo stato esente da drammatiche tragedie – in primo luogo il ricorso ad armi, rese sempre più distruttive dai progressi della tecnica, come forma di soluzione dei conflitti tra i popoli – lo scorrere dei decenni aveva tuttavia palesato che l’abisso verso cui avrebbe dovuto correre una storia lasciata nelle mani dell’uomo non si spalancava. Pur senza abbandonare la rivendicazione di autonomia dalla tutela ecclesiastica, anzi estendendola a campi via via più larghi nella strutturazione normativa del consorzio civile, l’uomo moderno ha infatti cercato di imparare dagli errori pagati a caro prezzo. È così pervenuto, pur faticosamente e dolorosamente, a qualche risultato nello stabilimento di istituti in grado di consentire le migliori condizioni di vita per il maggior numero di persone possibile. La presa d’atto di questa realtà ha indotto i più acuti esponenti dell’intransigentismo cattolico ad un ripensamento della tesi che collocava il cattolicesimo in una radicale contrapposizione al mondo moderno.
Nei circoli intransigenti si è infatti diffusa la convinzione che, per inserire con qualche efficacia il messaggio cristiano nella storia, fosse imprescindibile l’apertura ad alcune acquisizioni della modernità. Ne è scaturito un aggiustamento dell’atteggiamento cattolico, che potremmo definire come una modernizzazione: la progettazione della nuova cristianità profana dei movimenti cattolici legati nel secondo dopoguerra alla filosofia politica maritainiana ne è una delle testimonianze più significative. Ma occorre rilevare che tali adeguamenti non hanno mai comportato l’abbandono di un presupposto essenziale della cultura intransigente. Si potevano accettare i mezzi, gli strumenti, le tecniche e persino qualche principio (ad esempio la libertà religiosa) del mondo moderno a condizione che non si abbandonasse il punto giudicato cruciale: solo la sottomissione alla verità politica e sociale detenuta dall’autorità ecclesiastica poteva restituire al consorzio civile quel felice assetto di cui la società aveva fruito quando il papa regolava in via dirimente, come ai bei tempi della ierocrazia medievale, i rapporti tra i singoli e i popoli.
É sullo sfondo del quadro storico, qui tracciato molto sommariamente e schematicamente, che mi pare possa trovare una piena comprensione, in tutta la sua portata innovativa, la linea emergente da alcuni interventi di papa Francesco. Indubbiamente nei suoi discorsi si possono anche rinvenire elementi che potremmo far rientrare nella tradizionale prospettiva della modernizzazione. Si può, ad esempio, ricordare la insistita sollecitazione relativa ad una utilizzazione dei mezzi di comunicazione di massa adeguata al livello acquisito dal loro odierno sviluppo tecnico al fine di rendere più efficace la capacità pastorale ed apostolica della Chiesa. Ci troviamo davanti alla ripresa di una linea che, a partire dalla fondazione della radio vaticana da parte di Pio XI, è stata costantemente aggiornata da parte di tutti i pontefici novecenteschi. Si potrebbero anche citare anche altri esempi di rilievo, in particolare la continuità di Francesco con i predecessori nella introduzione di misure di razionalizzazione sia nell’amministrazione dello Stato Città del Vaticano, sia nell’apparato della Santa Sede come organo di governo della Chiesa universale.
Ma non è certo questo il punto decisivo negli orientamenti espressi da Bergoglio. In effetti interventi di razionalizzazione modernizzatrice nella conduzione della Chiesa appartengono a pieno titolo persino al governo di pontefici integristi, come Pio X. Quel che caratterizza l’indirizzo di Francesco sta nell’inquadramento di questi provvedimenti in una ben diversa impostazione complessiva del rapporto tra Chiesa e modernità. In effetti alla persuasione di un possesso esclusivo della verità politica e sociale – prospettata come il solo rimedio ai mali di un mondo che la pretesa di emancipazione dell’uomo dalla tutela ecclesiastica conduce alla sua rovina – il papa argentino sostituisce l’enunciazione una diversa prospettiva. Nell’organizzazione della vita collettiva la Chiesa si mette ora in relazione con gli uomini, non per additare l’unica strada che li conduce, oltre che alla salvezza eterna, anche alla felicità temporale, ma per cercare insieme a loro quelle soluzioni che meglio rispondono alle esigenze dei tempi. Questa indicazione ha come ovvio presupposto che, nella definizione delle regole del consorzio umano, nessuno può pretendere di essere l’unico depositario della verità e suo esclusivo interprete. È, invece, attraverso il libero contributo di tutti che si può giungere ad individuarla.
Certo, in questa ricerca comune, l’apporto della Chiesa ha imprescindibili punti di riferimento. Ma su questo aspetto il richiamo di Francesco comporta un’innovazione decisiva. Nella sua ottica il richiamo non va alla legge naturale di cui la Chiesa si autoproclama unica autentica portavoce, ma al Vangelo. Chiara è inoltre l’indicazione che il significato del messaggio evangelico non può essere adeguatamente colto al di fuori del tempo, dal momento che la sua intelligenza può avvenire solo nella storia e nella lucida consapevolezza delle trasformazioni che il suo divenire comporta. Credo che Francesco si riallacci qui ad una espressione cui è legata nella memoria ecclesiale novecentesca la manifestazione di uno dei momenti più alti – non a caso databile alla fine di un pontificato che aveva nel suo svolgersi maturato orientamenti diversi da quelli inizialmente assunti – dell’aggiornamento promosso da papa Giovanni. Era infatti stato proprio Roncalli a ricordare che leggere il Vangelo nella storia non implica cambiarlo, bensì giungere ad una migliore comprensione del significato.
Il gesuita venuto a Roma dalla fine del mondo a svolgere il ministero petrino ripropone questo criterio come via con cui la Chiesa, nelle difficili condizioni poste alla vita collettiva dall’età della globalizzazione del mercato e della violenza fondamentalista, può sostenere l’uomo nella sua libera ricerca di una miglior forma di vita associata. Alla volontà dei contemporanei di costruire, in piena autonomia, la loro storia, la Chiesa non contrappone ora la richiesta di subordinazione alle corrette regole della convivenza da essa elaborate; offre invece un aiuto ai mali, alle ferite, ai dolori che essi incontrano nel loro libero percorso. Letto alla luce dei segni del tempo presente il Vangelo indica infatti nella misericordia la risposta ai profondi bisogni di ascolto, sostegno, perdono, riconciliazione, affratellamento emergenti dalla società odierna. La presentazione della Chiesa come ospedale da campo immerso nel divenire doloroso della storia si sostituisce così alla immagine della Chiesa come cittadella assediata dalla modernità. Mi pare che nessuna immagine meglio rappresenti il congedo di Francesco dal rapporto tra Chiesa e società ereditato dalla cultura intransigente che per più di due secoli aveva egemonizzato la cultura cattolica.
Dopo quale storia della chiesa, di Daniele Menozzi, in “www-chiesadituttichiesadeipoveri.it” del 12 dicembre 2017