Colloquio con Gilles Kepel e Olivier Royh
 
L’Isis è in ritirata a Raqqa e accerchiato a Mosul. Siamo vicini alla sua fine in Medio Oriente? Come cambieranno i suoi militanti? L’eventuale collasso della sua dimensione territoriale lo porterà a diventare simile ad Al Qaeda prima del 2014? Che cosa succederà dopo?
 
GILLES KEPEL — L’Isis è attualmente in una situazione complicata innanzitutto perché la Turchia — che aveva lasciato transitare lungo la propria frontiera decine di migliaia di combattenti stranieri che hanno raggiunto il territorio del «califfato» e dove i camion-cisterna vendevano a prezzi stracciati il petrolio estratto nei campi di idrocarburi siriani sotto il controllo dell’Isis — oggi ha cambiato politica. L’ossessione di Erdogan non è più prioritariamente diventare il leader di uno spazio neo-ottomano nel Medio Oriente sunnita, ma far fronte ai rischi interni che una politica regionale troppo ambiziosa ha generato: il riemergere di un pericolo curdo che minaccia la coesione territoriale turca, in particolare nell’Est del Paese, costituisce ormai una sfida rilevante per Ankara, perché i curdi della Siria, che sono stati gli avversari più efficaci dell’Isis, hanno beneficiato di un grande appoggio occidentale e sono molto legati al Pkk curdo della Turchia, al quale hanno trasferito armi di nuova generazione fornite dagli americani per la lotta contro l’Isis, che il Pkk utilizza contro l’esercito turco.
Così, la permanenza dell’Isis ha fornito una grande legittimità internazionale alla causa curda che combatte il jihadismo — di fronte a tale sfida Erdogan è pronto ad abbandonare i propri risentimenti contro Assad, se questi può domare i curdi siriani. Per farlo, occorre che l’Isis sia eliminato, o perlomeno indebolito in maniera significativa. Del resto Assad, che aveva bisogno dell’Isis per dividere i ribelli, oggi non ne ha più tanto bisogno: questi sono molto indeboliti dalla potenza distruttiva delle armi degli alleati di Damasco — Russia, Iran e Hezbollah libanese — che hanno consentito di capovolgere la situazione sul terreno a vantaggio del regime siriano. Quindi l’Isis ha perso i propri appoggi regionali, e si può pensare che sia divenuto anche controproducente per le petro-monarchie sunnite della penisola arabica, che in esso vedevano un avversario efficace del loro nemico sciita di Teheran o Bagdad.
Tuttavia, è ancora troppo presto per seppellire definitivamente l’Isis: in Iraq, esso è diventato l’espressione politica privilegiata dei sunniti che si ritengono discriminati dal potere sciita di Bagdad; ed è dalla soluzione politica di integrazione dei sunniti che dipende la disfatta dell’Isis, non meno che dall’offensiva militare.
A Raqqa la situazione può durare ancora soprattutto perché l’Isis prende i civili in ostaggio e li utilizza come scudi umani. Non bisogna dunque vendere la pelle dell’orso-Isis prima di averlo ucciso, come si usa dire: ma il principale problema che si profila, per i Paesi europei come Francia, Germania o Belgio, è il ritorno in patria dei connazionali che erano andati a combattere nel jihad, e che cosa fare di loro, bambini compresi…
OLIVIER ROY — L’Isis prima o poi sparirà perché il suo successo si basa su due dinamiche contraddittorie. Da una parte, la creazione di un emirato arabo sunnita violentemente anti-sciita e anti-occidentale rappresenta la rivincita degli arabi sunniti nella «mezzaluna fertile» (le antiche province ottomane arabe che francesi e inglesi avevano spartito dopo la Prima guerra mondiale). Pur essendo maggioritari in questo spazio, gli arabi sunniti hanno perso il potere in Libano, in Palestina, in Siria e di fatto, dopo l’intervento militare americano del 2003, in Iraq; mentre gli sciiti, minoritari (salvo in Iraq) e sostenuti dall’Iran, sono ormai la forza dominante in Libano, in Siria e in Iraq. Sappiamo che il nocciolo duro dell’Isis è costituito da ex ufficiali baathisti che hanno cambiato software ideologico passando dal baathismo (nazionalismo panarabo, ndr ) all’islamismo. In questo, non hanno fatto che seguire il grande movimento di islamizzazione che ha attraversato il mondo arabo a partire dagli anni Ottanta.
Fin qui, rimaniamo in una logica regionale. La seconda dinamica è quella del jihad globale definito e sistematizzato da Al Qaeda: sviluppata prima ai margini del mondo arabo (Afghanistan, Cecenia, Bosnia, Pakistan), questa dinamica ha sùbito coinvolto migliaia di volontari arabi (ma anche curdi), che sono poi tornati nei loro Paesi d’origine, e musulmani (figli di immigrati o convertiti) venuti dai Paesi occidentali. La combinazione dei due fatti costituisce la forza e la debolezza dell’Isis: da un lato, esso ha beneficiato di una mobilitazione locale di tutti i perdenti e i delusi, compresi quelli delle tribù in genere abbastanza impermeabili all’ideologia; dall’altro, ha avuto accesso al serbatoio dei volontari stranieri arruolati nel jihad globale (decine di migliaia di persone). Serbatoio notevolmente cresciuto, in qualche anno, per varie ragioni:
1) il jihad ha infine un vero territorio: non c’è più bisogno di rimanere nella clandestinità, si vive la grande avventura apertamente. La creazione di una legione islamica internazionale consente di arruolare assai più militanti delle reti clandestine di Al Qaeda;
2) il colpo di genio dell’Isis è stato mettere in piedi una costruzione narrativa imperniata sulla figura dell’eroe solitario, ed espressa attraverso un’estetica della violenza in armonia con una certa «cultura giovanile», quella di internet e dei videogiochi. L’Isis fornisce una meta ai giovani occidentali che, per ragioni diverse, provano un sentimento di rivolta e di umiliazione.
La sintesi fra rivincita degli arabi sunniti e jihad globale si è incarnata nel concetto di califfato: concetto certamente territoriale, che quindi risponde alla domanda di una entità territoriale per gli arabi sunniti. D’altra parte, però, questo califfato non mira a diventare uno Stato fra tanti. Viene subito presentato come in permanente espansione, poiché deve estendersi dall’Atlantico all’Indo e ritrovare lo spazio che aveva ai tempi dei successori del Profeta, e questo non può che entusiasmare i sostenitori del jihad globale, scottati dai fallimenti dei jihad regionali (Palestina, Afghanistan, Cecenia, Bosnia). Solo che, rifiutando qualsiasi negoziato sulle frontiere, il Califfato ha condannato se stesso a una fuga in avanti e a una lotta indiscriminata contro tutti i protagonisti locali. La sua espansione è stata ben presto bloccata: dai curdi, dagli sciiti iracheni, dal regime di Damasco appoggiato da Mosca. Non è riuscito a sfondare in Giordania e in Libano. Insomma, la dinamica si è rotta e se il califfato resiste è solo perché i suoi nemici sono divisi e hanno paura che la sconfitta dell’Isis avvantaggi prima di tutto i loro rivali. L’Isis non può creare uno Stato per gli arabi sunniti e al tempo stesso predicare il jihad globale. Ma, dopo il suo prevedibile fallimento, sarà difficile per l’Isis tornare al modello Al Qaeda: una organizzazione agile, deterritorializzata, nomade e clandestina. Questo non significa che il jihad globale sia morto: troverà probabilmente altre forme.
 
Che impatto sta avendo tutto questo sui simpatizzanti dell’Isis in Europa, che siano lupi solitari radicalizzati sui social media oppure cellule attive?
 
OLIVIER ROY — Una sconfitta dell’Isis avrà un impatto sui giovani affascinati da questo modello. Innanzitutto, essa li priva del loro terreno di gioco e di esercitazione, in secondo luogo mette fine al mito dell’onnipotenza dell’Isis. È delicato fare predizioni, ma si possono prevedere diversi atteggiamenti da parte dei simpatizzanti dell’Isis in Europa, nel caso il califfato fallisse:
1) una fuga in avanti apocalittica: è quel che si augura l’Isis. Si attacca su tutti i fronti qualsiasi obiettivo con qualsiasi mezzo (bomba, coltello, camion, prodotti chimici…). Ma penso che questo modello perderà il suo potere di fascinazione perché non si appoggia più sull’immaginario eroico del califfato trionfante;
2) la ricerca di un’altra organizzazione; ma dubito che Al Qaeda recuperi prestigio poiché la sua attuale leadership (Zawahiri) non ha nulla di carismatico;
3) una più grande «politicizzazione», come quella che si è verificata in Egitto alla fine degli anni Novanta: dopo un parossismo di violenza, l’organizzazione radicale Gama’a Islamiyya ha rinunciato agli attentati e si è lanciata nell’azione politica. Ma ciò riguarderà soltanto i militanti già coinvolti, non i giovani simpatizzanti;
4) un declino della mobilitazione, se non della radicalizzazione, come in Italia dopo gli anni di piombo.
GILLES KEPEL — Il funzionamento dell’Isis in Francia ha subìto le conseguenze dei bombardamenti in Siria. Il principale organizzatore degli attentati del 2016, Rachid Qassem — nato a Roanne nella Loira, ma di origine algerina — è stato ucciso da un drone il mese scorso; e non ci sono stati omicidi sul territorio francese dal 26 luglio 2016, cioè per più di sette mesi, cosa che non succedeva dall’attacco contro «Charlie Hebdo» nel gennaio 2015, quando la pressione terrorista era incessante. Questo è dovuto anche a un miglior funzionamento del contro-terrorismo francese, che ha arrestato «in anticipo» i referenti di Qassem sul sito Telegram, che avevano giurato fedeltà al «califfo» di Mosul e si accingevano a passare all’azione. Mentre gli attentati sono continuati in Germania, dove i servizi di sicurezza hanno meno esperienza; e l’eliminazione, a Milano, dell’assassino che a Berlino aveva attaccato il mercatino di Natale, Anis Amri, porta a chiedersi se l’Isis abbia la volontà — e la capacità — di colpire l’Italia per vendicarsi.
Ma il modello Isis, che si costruiva sul legame fra il terrorismo in Europa, nato dal basso, online, e l’utopia del «califfato» nel Levante, e sulla circolazione fra questi due spazi, subisce sul piano operativo gli effetti della repressione. Tuttavia, nei processi che si svolgono in Francia, si constata che la volontà di passare alla violenza resta molto elevata, e il pericolo sempre presente.
 
Che cosa deve fare l’Europa, oggi più sola in Medio Oriente di fronte alle svolte di Donald Trump? Con il rafforzarsi dell’elemento sciita a scapito dei sunniti, dobbiamo allinearci alla Russia che sostiene Bashar Assad, nonostante i suoi crimini contro la popolazione siriana? E dobbiamo stare zitti anche di fronte alle azioni delle brigate sciite, sostenute da Teheran in Iraq, contro i sunniti di Mosul?
 
GILLES KEPEL — Gli Stati Uniti di Donald Trump considerano sempre di più il Medio Oriente e il Nord Africa come una questione di politica estera, quindi secondaria nell’agenda politica di Washington. In effetti, l’equilibrio dei prezzi sul mercato degli idrocarburi che consente la produzione di gas e petrolio di scisto assicura l’autonomia energetica all’America e diminuisce l’impatto del Medio Oriente sulla sua politica interna. Quanto a Israele, assiste senza prendere parte allo scontro sunniti-sciiti, che permette allo Stato ebraico — per il momento — di non essere più il problema principale della regione, e i suoi sostenitori oltre Atlantico non sono più in grado di spingerlo in primo piano sotto i riflettori, per queste stesse ragioni.
Così, il disimpegno progressivo dell’America espone in prima linea l’Europa, per la quale il Medio Oriente e il Nord Africa pongono problemi di vicinato, di immigrazione, di rifugiati, di terrorismo, che incidono fortemente sulla politica interna. Le diplomazie europee — e quella francese in primo luogo — si sono sbagliate nel pensare che Assad sarebbe stato facilmente eliminato e nel credere che «la Siria sarebbe stata la nostra guerra di Spagna». Oggi si ritrovano senza influenza nella regione, e le azioni in favore dei diritti dell’uomo, quando non si ha più influenza, sono purtroppo vane. Se l’Isis detiene il primato delle atrocità mediatizzate, delle decapitazioni di prigionieri, della riduzione in schiavitù delle donne, il regime siriano e le milizie sciite sono responsabili di bombardamenti indiscriminati e di violenze di massa meno visibili, ma molto cruente. La prossima fase sarà certamente quella di fare ricorso al Tribunale penale internazionale e indagare sui crimini contro l’umanità commessi dalle due parti. In caso contrario, la regione non potrà mai riconciliarsi con se stessa.
OLIVIER ROY — Come prima cosa, non bisogna esagerare la forza o l’influenza dell’Europa. Quanto a Bashar, egli fa parte del problema, non della soluzione. Ha ucciso molti più siriani di quanto abbia fatto l’Isis: è il capo di una minoranza e non di uno Stato. Il suo regime resiste solo con la guerra, come ai tempi di suo padre, sia essa una guerra esterna (Israele, Libano) o una guerra civile. Non ha mai negoziato con una opposizione e non ha mai esitato ad assassinare gente del proprio campo. La pacificazione del Paese non è imminente. Quanto alla Russia, per negoziare con Mosca bisognerebbe capire quale sia la sua strategia. Esiste una grande strategia, una visione che noi potremmo condividere? Non ne sono sicuro. La Russia è animata innanzitutto dalla volontà di ridiventare una grande potenza mondiale. Si è alleata con l’Iran perché ha perso i propri tradizionali alleati arabi (Libia, Iraq, e anche la Siria, che non è più un attore regionale). La Russia si è dunque alleata con l’Iran, che però è a capo di un asse sciita minoritario nel mondo arabo. E le minoranze possono sopravvivere solo mantenendo una crisi permanente che indebolisca la maggioranza. Per venirne fuori, ci vorrebbe una Yalta regionale, ma messa in atto dai protagonisti regionali, non dalle grandi potenze. Per il momento, non vedo possibilità di negoziato fra Arabia Saudita e Iran. Non credo in una pace imposta dalle grandi potenze perché: primo, non sono più né grandi né potenti; secondo, non hanno strategia, come si vede bene con la presidenza Trump. Occorrerebbe in primo luogo rispondere alla «crisi sunnita», tanto più che l’unico campione di questa causa è l’Arabia Saudita che tenta di riprendere l’iniziativa in modo catastrofico: con un interventismo militare inedito e confuso (Yemen); con una escalation religiosa per contrastare meglio lo sciismo, il che si manifesta con un appoggio a tutte le forme di salafismo e di conservatorismo sunnita, che non solo rendono più fragili gli equilibri regionali in Medio Oriente, ma pongono un problema nelle società occidentali.
La curiosa alleanza fra Israele e Arabia Saudita (per entrambi l’Iran è il nemico numero uno) rende difficile qualsiasi mediazione europea. Occorrerebbe abbandonare ogni visione ideologica e tornare a un certo realismo politico, tenendo conto dei rapporti di forza regionali, ma anche delle forze sociali in gioco (sunniti, minoranze, opposizioni politiche…). Fare delle dittature esistenti la chiave della stabilità significa fronteggiare una nuova instabilità.
 
Noi parliamo di Europa, ma sappiamo bene che non esiste una politica estera europea, neppure di fronte alle questioni vitali che ci investono in Medio Oriente. Per esempio, l’Italia ha scelto di preferire Sarraj in Libia, mentre la Francia sta con Haftar: crede sia necessario un accordo tra Roma e Parigi? È possibile?
 
OLIVIER ROY — La scelta di Haftar è una scelta tattica, né strategica né veramente politica: si cerca un uomo forte e lui si presenta come l’uomo forte che può regolare il problema dei rifugiati e del terrorismo. Ma non regolerà proprio niente, mentre intanto avrà contribuito ad aumentare il caos nel Paese. Il problema è quando la visione securitaria prevale sulla visione strategica. Anche da un punto di vista securitario , è certamente un errore appoggiarlo, poiché Haftar non può mantenere quel che promette, cioè la stabilità in Libia.
L’idea che le dittature siano il miglior baluardo contro il radicalismo islamico si è dimostrata ovunque sbagliata (in Tunisia la democrazia frena il terrorismo meglio delle dittature in Siria e in Egitto): esse peggiorano le cose impedendo qualsiasi coalizione anti-jihadista, eliminando gli islamisti (cioè i Fratelli musulmani) che non sono mai passati al terrorismo e che, quando li si lascia entrare nel gioco democratico, si rivelano elementi di stabilità come in Giordania, Tunisia, Marocco.
GILLES KEPEL — La Libia è un buon esempio di incoerenza delle politiche europee, tanto più increscioso in quanto i grandi flussi di immigrazione clandestina provenienti dall’Africa transitano in quello Stato ormai fallito, in direzione delle coste italiane, da dove i flussi salgono poi verso gli Stati più settentrionali. In assenza di una politica estera europea degna di questo nome, ciascuno ragiona in funzione degli interessi a breve termine della propria agenda interna.
 
Dunque: che fare con i flussi migratori in arrivo dal mondo islamico? Concorda con la creazione di canali umanitari organizzati dalla Libia verso le coste italiane? Il rischio è che, difendendo i principi umanitari, noi potremmo affossare l’unità europea. La Brexit è anche figlia della mancanza di una politica comune di controllo e freno dell’immigrazione. In Francia Marine Le Pen potrebbe vincere e in Germania crescono i movimenti xenofobi. Dunque, che fare?
 
GILLES KEPEL — Senza dimenticare Geert Wilders nei Paesi Bassi e l’estrema destra in Austria. La pusillanimità delle nostre élite politiche si è tradotta in una reazione identitaria di una parte dell’elettorato, che oscilla fra il 25 e il 50% a seconda dei Paesi e che incolpa, per i flussi migratori, l’identità sovranazionale dell’Europa, nella quale quest’elettorato vede il fattore determinante dell’esclusione sociale, politica e culturale di coloro che non trovano più lavoro a causa della globalizzazione. Lo si vede attraverso la sorprendente campagna per le presidenziali in Francia (come si era visto con la Brexit): la contrapposizione destra-sinistra non è più pertinente. Da un lato ci sono gli «inclusi» e dall’altro gli «esclusi», o coloro che si credono tali. Fra questi ultimi vi sono sia gli elettori della Le Pen, sia quelli di Mélenchon — estrema destra ed estrema sinistra — sia i salafiti e altri islamisti il cui impatto nelle banlieue e tra i figli di immigrati è aumentato notevolmente negli ultimi dieci anni.
OLIVIER ROY — È un problema senza soluzione a breve termine. Infatti la questione dei rifugiati si confonde nell’opinione pubblica europea con quella dell’immigrazione musulmana in generale. Si assimilano i rifugiati siriani ai flussi migratori degli anni Sessanta, mentre allora si trattava di lavoratori non qualificati che ebbero difficoltà a integrarsi; i rifugiati siriani che arrivano in Europa appartengono alle classi medie istruite (i poveri sono rimasti in Turchia, Libano e Giordania): sono più utili e al tempo stesso più integrabili.
La questione dei flussi provenienti dall’Africa nera è più problematica e l’integrazione si annuncia più difficile. Quindi occorre gestire in modo diverso i diversi flussi. Ma l’opinione pubblica non fa distinzioni.
 
Guardiamo a Trump, ai populismi, ai nuovi nazionalismi, al ritorno delle vecchie frontiere: siamo di fronte a una nuova grande crisi dell’Occidente? L’Europa invecchiata, in piena frenata demografica, impaurita dalle guerre che la circondano e dagli attentati in casa propria, è destinata a soccombere?
 
OLIVIER ROY — C’è un evidente ripiegamento dell’Europa: ma ripiegamento su che cosa? L’Europa delle nazioni ha fatto il suo tempo, la chiusura delle frontiere e il ritorno al protezionismo porterebbero a un nuovo impoverimento. A causa dell’invecchiamento demografico c’è bisogno di immigrati, fosse solo perché si occupino degli anziani (i badanti fanno ormai parte della società italiana). Ma piuttosto che affrontare la questione economica e sociale, i populisti, seguiti da una parte sempre più grande della classe politica e da intellettuali mediatici, parlano ormai di difesa dell’identità «cristiana dell’Europa». Il problema è che questa «identità» non è fondata su valori cristiani, come il Papa ricorda ogni giorno, con un discorso che va ben oltre la carità verso i rifugiati. Dopo l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968), i valori difesi dalla Chiesa sono in crescente opposizione ai princìpi secolari dominanti dell’Europa, fondati sulla libertà individuale e il diritto di scegliere (dalla gravidanza all’identità sessuale). Quasi tutti i populisti hanno adottato questa rivoluzione dei valori, al punto che la maggior parte di loro non va più a messa. Il caso tipico è Geert Wilders, in Olanda, che è al tempo stesso il peggior avversario dell’islam (vuole proibirlo come religione) e il miglior difensore del matrimonio omosessuale. Anche Marine Le Pen ha detto che non rimetterebbe in discussione l’aborto o il matrimonio gay. L’identità cristiana che i populisti difendono non ha nulla a che vedere con i valori cristiani, ma, utilizzando il riferimento religioso, i populisti «folclorizzano» il cristianesimo e quindi contribuiscono a secolarizzarlo, il che equivale a un abbraccio mortale.
Occorre quindi una discussione seria sui valori. Soprattutto, al di là del falso dibattito fra identità cristiana e valori europei, bisogna ripensare il ruolo della religione in Europa. Infatti, promuovendo un secolarismo aggressivo per contrastare l’islam, si contribuisce a eliminare tutte le religioni (salvo, ripeto, sotto la forma folcloristica di un cristianesimo ridotto al presepe di Natale), cioè la spiritualità stessa. La laicità è un principio giuridico, ma non una spiritualità. Non c’è da meravigliarsi se la crisi della spiritualità lascia il posto a forme morbose, come l’attentato suicida. Il dibattito sul posto che occupa la dimensione religiosa è schivato al tempo stesso dai laici (che vogliono ridurre la religione a un fatto privato), dai populisti (che vogliono l’identità senza i valori) e… da una parte della Chiesa, che non ha ancora tratto le conseguenze dalla sua condizione di minoranza in un’Europa più secolarizzata che mai.
GILLES KEPEL — Le elezioni francesi e tedesche saranno un test molto importante per l’avvenire dell’Europa che è stata costruita fin dall’inizio sul motore franco-tedesco, naturalmente con l’apporto degli altri Paesi. Se questo motore gira al minimo, come accade oggi, il sistema non funziona più. Da queste elezioni emergeranno dirigenti capaci di pensare davvero il problema, o saranno ostaggio delle politiche identitarie nazionaliste e del ricatto islamista? Al risultato delle urne la risposta…
 
Come legge il risultato elettorale in Olanda?
 
GILLES KEPEL — Nei Paesi Bassi Mark Rutte è riuscito a vincere e a mantenere a distanza Geert Wilders grazie alla propria politica di fermezza degli ultimi giorni di fronte al ricatto di Erdogan. Vietando — come hanno fatto Germania, Svizzera e Danimarca — i comizi elettorali turchi che fanno dell’Europa una zona di espansione dell’Akp di Erdogan, dopo essere stato trattato da «nazista» dal presidente turco, Rutte ha risposto alle inquietudini di un elettorato che, del resto, considererebbe suicidario, per un Paese che ha basato la propria prosperità sul commercio, uscire dalla Ue. Per Marine Le Pen, che sperava in un grande successo di Wilders per vivacizzare la propria corsa nell’elezione presidenziale francese del mese prossimo, è una batosta che dimostra come, al di là dell’emozione, l’elettorato sia attento a non lasciarsi sedurre da soluzioni estremiste.
OLIVIER ROY — Parecchie lezioni arrivano dalla sconfitta di Geert Wilders. Wilders incarna il populista europeo «new age», non ha alcuna genealogia fascista, diversamente dalla Le Pen o da Salvini; non è affatto conservatore sul piano dei costumi e della famiglia, anzi: all’Islam non oppone l’Europa cristiana, ma l’Europa femminista e favorevole ai gay. Al tempo stesso è l’anti- islam più radicale, poiché è l’unico a non accontentarsi di denunciare la radicalizzazione, le derive dell’islam, ma denuncia l’islam in sé, il Corano, la moschea, tutto. In questo senso Wilders è l’europeo di oggi: totalmente secolarizzato, ateo e… liberale sul piano dei costumi; ma radicalmente autoritario nella propria islamofobia. Il cristianesimo vi è del tutto evacuato. Wilders è il rappresentante di un’Europa che non è più cristiana e che dunque non tiene più un discorso di «moderazione», cioè di senso del limite; limite dato dal diritto, dalla compassione o dalla saggezza. In questo, è radicalmente moderno e nel suo radicalismo ritrova l’elemento comune a tutti i fondamentalismi: la negazione della cultura a vantaggio di una identità senza contenuto reale. La questione si pone adesso alla Chiesa, poiché coloro che oppongono l’identità cristiana ed europea all’islam contribuiscono proprio a de-cristianizzare l’Europa; infatti non trasmettono né cultura né valori cristiani.
 
Quest’anno è il cinquantesimo anniversario della guerra dei Sei giorni. Nel giugno 1967 la clamorosa sconfitta degli eserciti arabi di fronte a Israele sanciva l’inizio della fine del panarabismo laico e socialista incarnato nella figura del presidente Nasser e vedeva il ritorno dell’islam politico e dei Fratelli musulmani in Egitto. Quel ciclo continua? L’islamizzazione radicale è destinata a farsi più aggressiva?
 
OLIVIER ROY — Un ciclo si è chiuso nel 1967, quello del nazionalismo arabo socialista, un ciclo si chiude nel 2017, quello dell’islamismo. Per islamismo intendo il modello ideologico dei Fratelli musulmani, che si presentavano come un’alternativa di governo nell’ambito dello Stato nazione (non hanno mai invocato il jihad o il califfato) e pretendevano di incarnare una terza via fra socialismo e democrazia occidentale. I Fratelli musulmani hanno fallito o si sono trasformati in partiti «ordinari», partiti di gestione in uno spazio nazionale: hanno integrato il gioco politico nel Maghreb con il partito Ennahda (che ha avuto un ruolo chiave nella transizione democratica in Tunisia) e in Marocco, dove il Partito giustizia e sviluppo è diventato una forza di governo responsabile dopo aver accettato il principio monarchico. In Egitto tale evoluzione è stata annullata dal colpo di Stato militare dell’attuale presidente Al-Sisi che, lungi dal laicizzare il Paese, esagera nel mettere in atto un islam conservatore (processi agli omosessuali e agli apostati). Ma questo miscuglio di integrazione ed emarginazione dei Fratelli musulmani egiziani ha lasciato spazio ai salafiti sul piano religioso e ai jihadisti sul piano politico.
Oggi l’elemento mobilitante nel mondo arabo non è più il conflitto israelo-palestinese, è il jihad globale. Ma il jihad globale non attira le masse arabe: ovunque, è un fenomeno più generazionale che sociale. I jihadisti non sono sul punto di prendere il potere in Tunisia, in Marocco, in Arabia Saudita o in Egitto, e nemmeno in Siria o in Iraq, dove sono sulla difensiva. Nemmeno lo cercano, la loro è un’utopia mortifera, incarnata per ora dall’Isis. Il jihadismo, globalizzandosi, si è distaccato dalle concrete lotte sociali del mondo musulmano, un po’ come l’estrema sinistra europea aveva fatto negli anni Settanta: adottando il terzomondismo, si era tagliata fuori dalle lotte reali del mondo operaio in Occidente.
È quel che accade oggi nel mondo musulmano: le grandi utopie sono ormai marginali in una gioventù che è in crisi, ma non riesce, o non prova nemmeno, ad articolare la propria lotta sulla realtà sociale. Le società reali finiranno per riapparire sulla scena: come tutte le stagioni, la primavera un giorno tornerà.
GILLES KEPEL — In realtà si vede chiaramente che sotto la superficie dell’islamizzazione esistono fortissime divisioni. Oggi è il conflitto fra sunniti e sciiti — quello che in arabo è chiamato fitna , la guerra civile all’interno dell’islam — a essere il principale motore della violenza e a distruggere in profondità le società arabe e musulmane, che sempre più perderanno, se la diminuzione tendenziale dei prezzi degli idrocarburi continuerà, la loro capacità di pesare sugli eventi mondiali.
 
Le polemiche Kepel-Roy sull’interpretazione da dare ai moderni movimenti jihadisti sono note in tutto il mondo. Come Kepel sintetizzerebbe le sue divergenze da Roy? E come Roy sintetizzerebbe le sue da Kepel?
 
GILLES KEPEL — Roy ha una lettura filosofica e decontestualizzata dei movimenti jihadisti. Per lui, il loro contenuto ideologico è solo un epifenomeno: ieri avevamo le brigate rosse, oggi le brigate verdi, domani avremo le brigate blu o chissà che… Ma, come in Italia sapete bene, le Brigate rosse erano un fenomeno ben radicato in un contesto (come la Raf in Germania) non privo di legami con il passato nazista o fascista di una parte della generazione dei genitori sotto Hitler o Mussolini. Non era un fenomeno atemporale, aveva una grammatica politica e un vocabolario ben specifico: un fenomeno della stessa ampiezza non si è constatato in nessuna parte degli altri Paesi d’Europa che erano stati occupati durante la Seconda guerra mondiale.
I movimenti jihadisti sono il prodotto di un particolare contesto sociale, quello di una esclusione post-industriale, sopra menzionata, che favorisce i riflussi identitari di cui il salafismo è l’espressione più estrema, poiché rovescia lo stigma dell’esclusione proclamando una rottura sul piano dei valori con le società «empie» dell’Occidente; e sono il prodotto della maturazione di una ideologia jihadista. Ideologia che attualmente conosce una terza generazione — dopo quella del jihad in Afghanistan e quella di Bin Laden — teorizzata dal 2005 principalmente dall’ingegnere siriano Abu Musab al-Suri, che ha fatto dell’Europa il ventre molle dell’Occidente e il proprio bersaglio prediletto, e del jihad nato dal basso, online, la principale strategia del movimento. Per analizzarla, bisogna fare inchieste sul terreno, nelle banlieue popolari, e leggere l’ideologia, le cui fonti principali si capiscono solo nella loro retorica in arabo, su internet e sui social network in particolare. È quel che faccio da molti anni. Olivier Roy sostiene che «non serve a niente conoscere l’arabo per lavorare nelle banlieue popolari». Ma è sufficiente fare le inchieste sul terreno per rendersi conto che è inesatto.
OLIVIER ROY — Non c’entro nulla con questa polemica di Kepel contro di me: la personalizzazione non ha alcun senso, poiché la maggior parte degli esperti lavorano in équipe, come faccio io nell’ambito del Middle East Direction all’Iue (Istituto universitario europeo) di Firenze. Ma dato che i mass media presentano le cose in un certo modo, devo pur puntualizzare. Esistono due livelli: innanzitutto, la tesi generale sostenuta da Kepel secondo cui una popolazione arabo-musulmana presente in Europa si radicalizza religiosamente sotto l’influenza dei conflitti in Medio Oriente. Qui non c’è nulla di originale, Kepel riprende la tesi dello «scontro di civiltà». Ma per difendere questa idea Kepel tende a islamizzare tutte le forme di rottura, contestazione e mobilitazione dei giovani provenienti dall’immigrazione, come per esempio le sommosse del 2005 o gli attacchi contro la polizia: ora, non c’è nulla di islamico in queste rivolte dei giovani, paragonabili a quelle dei giovani neri americani contro la polizia, come dimostrano i piccoli tumulti cui assistiamo oggi nelle banlieue di Parigi. Egli vede anche nella salafizzazione la causa di radicalizzazione jihadista, senza tener conto dei fatti, cioè delle biografie dei terroristi che mostrano come essi non abbiano una formazione religiosa. Ma soprattutto Kepel fa una ricostruzione immaginaria del legame fra Isis e la Francia.
Aveva attribuito al multiculturalismo anglosassone la responsabilità della radicalizzazione che ha portato agli attentati di Londra nel 2005. Ha quindi grandi difficoltà a spiegare perché la Francia sia oggi al centro della radicalizzazione. Per Kepel, ci sarebbe stato nel 2005, sotto l’influenza degli scritti di Al-Suri, un cambiamento strategico nel jihad, il cui fine sarebbe ormai di suscitare una guerra civile in Europa fra i musulmani e gli altri. Egli chiama tutto questo la terza generazione del jihad. Ebbene, non c’è nessuno scritto di al-Suri che predichi la guerra civile fra le popolazioni di origine musulmana e le altre in Europa (al Suri parla soltanto di «terrore civile», cioè degli attentati precedenti, come quelli dell’11 settembre 2001 a New York o di Madrid nel 2004). Al-Suri non è il teorico dell’Isis (che lo respinge), ma piuttosto di Al Qaeda; e infine Al Qaeda rimprovera giustamente all’Isis di privilegiare la guerra civile fra musulmani (per esempio lanciando l’anatema contro gli sciiti) invece di predicare l’unità dei musulmani.
Tali approssimazioni non avrebbero importanza se fossero discusse razionalmente fra ricercatori, invece di essere oggetto della campagna di scomuniche che Kepel ha lanciato contro coloro che non sono d’accordo con lui (cioè quasi tutti).
 
Gilles Kepel & Olivier Roy, a cura di Lorenzo Cremonesi, in “la Lettura” del 19 marzo 2017, (traduzione di Daniela Maggioni )