Nel saggio di Giovanni Fornero che accompagna il libro di Luca Lo Sapio, viene ricordato il Manifesto di Bioetica Laica, del 9 giugno del 1996,  per l’enfasi che metteva sul principio di autonomia secondo cui «ogni individuo ha pari dignità e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui in tutte quelle questioni che riguardano la sua vita e la sua salute». Il dibattito che scaturì ebbe due effetti. Da un lato portò a una discussione che si polarizzò sui connotati, le compatibilità e le incompatibilità tra bioetica laica e bioetica cattolica. Il principale illustratore della divaricazione filosofica tra due approcci alla bioetica è stato proprio Giovanni Fornero di cui proponiamo un estratto del saggio, dove spiega cosa si debba intendere per bioetica laica.
 
Presentazione del libro
«Tutti, credenti e non credenti, siamo alla ricerca della verità, e non possiamo dare nulla per scontato.» Le parole di papa Francesco sembrano segnare un’apertura al mondo laico-secolare e l’inizio di un confronto inclusivo, assai diverso in forma e sostanza dal rigore dottrinale di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Se infatti il pontificato di Giovanni XXIII aveva prodotto una tendenziale “apertura al mondo”, proprio in ambito bioetico sotto i papati successivi si era lentamente consumato un distacco fra la prospettiva cattolica ufficiale e quella laico-secolare.
Si tratta, come spiega Giovanni Fornero nel saggio che apre questo volume, di due “paradigmi”, ossia di due differenti maniere, da parte del magistero cattolico e del pensiero secolare, di rapportarsi alle varie questioni della bioetica, in particolare ai temi cruciali di inizio e fine vita.
Ma che cosa rimane oggi di questa storica contrapposizione, che ha segnato in profondità il dibattito bioetico contemporaneo e ha avuto delle ripercussioni nella cronaca e nella politica del nostro Paese (dal referendum sulla fecondazione assistita alle polemiche sui casi Welby ed Englaro sino alle accese discussioni sul disegno di legge Calabrò circa il testamento biologico)? In altri termini, quale forma assume il dibattito su bioetica cattolica e laica negli anni del papa riformatore che viene dalla fine del mondo?
Luca Lo Sapio ci guida all’interno di alcuni dei percorsi aperti dal papa argentino, mostrando la possibilità di convergenze che non siano solo di facciata tra il mondo laico e il mondo cattolico. E ciò alla luce dell’ipotesi che la centralità delle persone nella loro concreta dimensione di vita e la teologia dell’amore e della misericordia promosse da Bergoglio potrebbero condurre al superamento di alcuni tradizionali steccati bioetici, segnando la via di una nuova stagione di dialogo.
 
Descrizione
Titolo: Bioetica cattolica e bioetica laica nell’era di papa Francesco
Autore: Luca Lo Sapio
Editore: UTET
Data: 26 gennaio 2017
ISBN-10: 8851148457
ISBN-13: 978-8851148454
Prezzo: 13,860 Euro
 
 
Le idee-guida della laicità
di Giovanni Fornero
Per bioetica laica in senso stretto intendo uno specifico movimento storico-teorico qualificato da un insieme di principi antropologici ed etici maturati in ambito secolare, ossia all’interno di un orizzonte generale di pensiero che, a monte, presuppone un umanesimo autosufficiente di matrice agnostica o atea. Tale orizzonte di pensiero si concretizza in un paradigma incarnato da una serie di idee-guida che rappresentano il cardine e lo sfondo delle prese di posizione della bioetica laica standard.
Idee che, con un apposito costrutto idealtipico, possiamo sintetizzare nei seguenti punti:
1. La tesi della disponibilità, da parte dell’individuo della propria vita e del proprio corpo e il connesso principio secondo cui «sulle decisioni di fondo sulla nascita, la salute e la fine della vita, e in generale relative al proprio corpo, ciascun essere umano adulto è sovrano». Convincimento il quale ha fatto sì che la bioetica laico-secolare si sia storicamente presentata come un’etica della «disponibilità» della vita;
2. La tesi che non sia la vita in quanto tale a possedere valore, bensì la «qualità» (o il benessere) della vita, ossia l’idea che «buona non è la “vita in sé”, ma la “vita buona”, cioè la vita che, per chi la vive, presenta contenuti e qualità positive». Tesi che implicando la convinzione secondo cui in certi casi di esistenza deteriorata è meglio una morte voluta che una vita imposta, ha fatto sì che la bioetica laico-secolare si sia storicamente presentata come un’etica della «qualità» della vita;
3. L’idea che in nome dei principi guida della disponibilità e qualità della vita si possano legittimare pratiche come l’aborto, il suicidio assistito, l’eutanasia;
4. L’idea, connessa alle precedenti, di una distinzione tra la vita «biologica» e la vita «biografica». Distinzione che si accompagna alla tesi secondo cui ad avere valore intrinseco non è la vita biologica (cioè il semplice fatto di vivere), bensì la vita biografica, ossia la vita come complesso di scelte, desideri, aspettative, investimenti, relazioni, ecc.;
5. Il convincimento che in bioetica si debba ragionare etsi Deus non daretur, cioè a prescindere da Dio e da un ipotizzato “progetto” divino sulla vita;
6. Il convincimento che la morale sia una costruzione umana e che perciò sia l’uomo – anziché Dio o la legge naturale che ne rispecchia la volontà o «legge eterna» a essere la fonte delle norme etiche. Nell’assenza di una fonte esterna di valore, «soltanto la vita umana produce i valori e giudica se stessa in base ai valori»;
7. il convincimento che nelle questioni bioetiche debba valere, come norma di base, il principio di autonomia, ossia il principio del rispetto delle scelte autonome degli individui: «il primo dei principi che ispira noi laici è quello dell’autonomia. Ogni individuo ha pari dignità e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui in tutte quelle questioni che riguardano la sua vita e la sua salute»;
8. L’idea del primato della libertà nei confronti di ogni realtà precostituita e di ogni (ipotizzata) verità «oggettiva» a cui l’individuo (secondo il teorema agere sequitur esse) dovrebbe conformarsi e la connessa propensione a fare della libertà, non solo l’autentica prerogativa dell’uomo – visto come ente creatore della propria entità (esse sequitur agere) – ma anche il criterio di ogni sostenibile posizione etica;
9. Il rifiuto di fare della «natura» (comunque intesa: cioè non solo in senso biologico, ma anche in senso metafisico e finalistico) un criterio di scelta etica e la conseguente negazione di una presunta legge morale naturale;
10. Il rifiuto di ogni deontologia assolutistica e quindi di divieti che non ammettono eccezioni;
11. La tendenza a ritenere che non esistano principi o ideali (religiosi, filosofici, metafisici, ecc) in nome dei quali si possano infliggere agli altri sofferenze psicofisiche non volute;
12. L’idea della conoscenza come strumento in grado di contribuire al miglioramento delle condizioni di vita e come attività in grado di «ampliare il ventaglio delle scelte umane e di rendere possibili nuovi stili di vita», trasformando in un «campo di scelte possibili» situazioni (come la nascita, la sessualità, la morte) che un tempo apparivano come un destino ineluttabile;
13. L’opzione «pluralistica», cioè il riconoscimento e il rispetto «della diversità dei modi in cui le persone danno un valore e un senso alle loro vita»; opzione che fa tutt’uno con la tutela delle scelte autonome degli individui e con l’idea che ognuno debba essere libero di poter vivere e morire secondo la propria concezione del mondo, purché questo non arrechi danni constatabili («chiaramente e realmente provati») agli altri;
14. La netta distinzione fra morale e diritto e quindi il rifiuto della tendenza a proibire per legge determinati comportamenti etici che non si condividono.
in “Il Sole 24 Ore” del 5 febbraio 2017
 
 
Bioetica per perplessi. Una guida ragionata
Gilberto Corbellini e Chiara Lalli
 
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Il Manifesto di Bioetica Laica, sopra citato apriva uno spazio di confronto plurale sui temi concreti della bioetica il cui connotato era un’accezione della laicità declinata nel senso di un metodo di ricerca, più che di una opposizione filosofica.testo di Gilberto Corbellini e Chiara Lalli («Bioetica per perplessi. Una guida ragionata», Mondadori Education, pagg. XIV + 408, 2016, € 32, ISBN 9788861843523) ha percorso questa strada.  L’estratto dell’introduzione che qui proponiamo spiega perché a loro giudizio non è utile, soprattutto in funzione delle scelte concrete che si devono fare, lasciarsi distrarre da questioni che in definitiva si rivelano poco rilevanti.
 
 
Una morale della concretezza
di Gilberto Corbellini e Chiara Lalli
Buone informazioni e conoscenze scientifiche adeguate, lungi dal diminuire, aumentano la libertà degli individui su temi delicati come l’inizio e la fine della vita
Non esistono modi oggettivi per stabilire che un’etica è più giusta o funzionale di un’altra in assoluto, anche se comprendiamo che è un tratto psicologico-sociale adattativo autoingannarsi, cioè credere che i propri giudizi debbano essere presi in considerazione e rispettati o addirittura che siano universalizzabili. Da questo punto di vista, Immanuel Kant aveva colto un’aspirazione umana più intuitiva che razionale. Purtroppo, ma anche per fortuna, veniamo al mondo con disposizioni sia benevole sia malevole. Possiamo essere più o meno predisposti a farci guidare da sentimenti morali di fondo che sono passati al vaglio della selezione naturale e hanno aiutato i nostri antenati a sopravvivere, cioè a lasciare una discendenza di cui siamo temporaneamente parte.
Ha una valenza solo retorica far riferimento a cadute tragiche dell’etica medica (le idee e le pratiche messe in atto dai medici sotto il regime nazista sono il caso più eclatante) come scenari in qualche modo disumani o da prendere come tipologia di confronto per giudicare l’accettabilità di qualche particolare scelta o intervento medico. «Lo facevano i nazisti e quindi è male», non può essere però un argomento intelligente contro qualche atto medico. Perché i nazisti mangiavano, dormivano, facevano sesso, stringevano amicizie e rapporti affettivi. Quindi i nazisti erano persone del tutto normali e la loro etica era un’etica normale in quanto possibile, e possibile in quanto conteneva elementi molto umani sul piano psicologico. Gli stessi elementi che sono alla base della nostra etica. Così come una persona razzista o omofoba non è diversa da chi non trova rilevanti, sotto nessun punto di vista delle relazioni sociali, il colore della pelle o le preferenze sessuali – con l’eccezione, dei razzisti e degli omofobi psicopatici.
Cosa cambia allora? Semplicemente le esperienze, le conoscenze e le capacità cognitive, si potrebbe anche dire una maturità epistemologica fondata su un pensiero critico, che permettono di rendersi conto che le credenze razziste e omofobe sono sbagliate. La capacità di valutare e usare criticamente i fatti consente di non restare schiavi di opinioni o pregiudizi falsi. Ci sono almeno due esperimenti sull’autorità, quello di Stanley Milgram e quello di Philip Zimbardo, che hanno dimostrato come anche le persone più «normali» possano trasformarsi in carnefici. E quella cosiddetta nazista non era altro che una possibile strategia comportamentale adattativa, in un dato contesto socio-economico e geopolitico, e considerato che la continuità della specie e della vita prevalgono, nella logica dell’evoluzione, sugli interessi individuali. Per favore niente accuse di relativismo, perché si tratta se mai di una posizione riconducibile al nichilismo morale.
Nelle controversie bioetiche si può arrivare a riconoscere precisamente quali scelte siano da ritenere più legittime e quali meno o per niente, in base alla valutazione dei danni e dei soddisfacimenti che possono derivarne. Questo ovviamente se si prende per valido il sistema di valori morali che governa gli ordinamenti sociali liberal-democratici. Se si assoggettano questi valori a qualche ideologia o credenza religiosa, allora si decide ipso facto di ridimensionare il ruolo e lo spazio decisionale per la propria capacità di autodeterminazione. Una possibilità senz’altro comoda, e anche quella che viene più naturale. Il nostro ragionamento non porta a un maggior controllo e limitazione della libertà (in genere così è inteso il compito della bioetica), ma consiglia di ampliarla, usando informazioni e conoscenze scientifiche come ausili. In altre parole, pensiamo che una maggior libertà nelle decisioni relative a riproduzione, cure e morte non aumenti i danni, ma al contrario produca esiti migliori.
Sappiamo però che si tratta di un risultato non scontato, e che la possibilità che le scelte risultino moralmente migliori, che perseguano cioè soddisfacimenti ragionevoli e non giustificati sulla base di pregiudizi o intuizioni autoingannevoli, dipende dalla qualità cognitiva del processo decisionale. Abbiamo abbondanza di prove che il miglioramento morale umano è stato possibile soprattutto grazie alla diffusione sociale di un’istruzione scientifica che addestra al pensiero astratto e ipotetico, che consente di immaginare scenari sulla base delle informazioni e delle esperienze, e quindi di prendere decisioni criticamente consapevoli, controllando gli impulsi emotivi e cercando di valutare le conseguenze delle proprie scelte. In tal senso, la ricerca scientifica e, soprattutto, il metodo scientifico non dovrebbero proprio essere visti come minacce contro le quali scagliare, come spesso accade, batterie di ragionamenti bioetici in astratto.
Si sarà già capito che abbiamo posizioni abbastanza definite in materia di bioetica. Mirando a dare strumenti per costruire posizioni autonome, vorremmo mettere nelle mani delle persone una procedura per controllare quando la nostra posizione realizza l’obiettivo di aumentare il benessere individuale e di una comunità. Non siamo quindi neutrali recensori di posizioni bioetiche ma proponiamo una «bioetica per perplessi». Una bioetica minima che vuole aiutare a capire quando ci sono buoni e validi motivi per impicciarsi nelle scelte degli altri, e quando l’analisi razionale del contesto decisionale suggerisce di lasciar perdere, cioè di lasciare libere le persone. Non ci interessa elencare una rassegna esaustiva degli argomenti, che possono essere anche molto complessi, per stabilire la liceità o illiceità etica di una specifica scelta. Pensiamo piuttosto che una cornice, dotata di profondità storica e di riferimenti normativi, e che semplifichi i ragionamenti, consenta di riportarli agli elementi sia intuitivi sia controintuitivi che si confrontano nella discussione bioetica, tenendo conto del fatto che in bioetica quel che viene proposto come razionale è molto spesso una razionalizzazione di qualche pregiudizio.
È del tutto legittimo voler mettere un’etichetta al nostro modo di concepire la bioetica, e quindi anticipiamo da subito che si tratta, oltre che di una bioetica minima, anche di una bioetica libertaria e razionale (o argomentativa). Per dirla in un altro modo, rifiutiamo la diffusa distinzione tra bioetica laica e bioetica cattolica (o religiosa): la distinzione rilevante è tra una bioetica logicamente e scientificamente solida, ovvero fondata su buoni argomenti e sulle conoscenze naturalistiche che riguardano il comportamento umano, e una fallace e contraddittoria.
Pensiamo che sia soprattutto attraverso un uso pertinente e controllato delle conoscenze e delle informazioni che le persone diventano meno manipolabili dai contesti e dagli altri. E il punto di vista liberale, in generale e quindi anche l’atteggiamento libertario, per le sue origini e caratteristiche di funzionamento come modello di organizzazione di società umane in condizioni non naturali, è metodo e non ideologia. Il nostro scopo, insomma, non è vendere soluzioni preconfezionate, ma indicare come arrivare più correttamente a un una decisione soddisfacente, e anche difendibile logicamente o razionalmente, in condizioni che sono in continuo e imprevedibile cambiamento, nonché circoscritte e singolari.
in “Il Sole 24 Ore” del 5 febbraio 2017