I principi che hanno sostanziato l’ethos repubblicano, quel sistema di regole che ha orientato i rapporti di autorità e le modalità della loro legittimazione, i valori condivisi e la loro gerarchia, fino ad arrivare al nostro comportamento e ai nostri stili di vita, devono essere ripensati alla radice perché non sembrano più adatti all’esperienza e alla comprensione di un mondo che ha subìto la più travolgente dilatazione spaziale e al contempo l’inedita connessione globale.
Siamo sospesi tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’, il nostro è il tempo indecifrabile dell’interregno.
Viviamo in mare aperto, sotto l’onda continua, senza un punto fermo e uno strumento che misuri il peso e la distanza delle cose. Nulla sembra stare più al suo posto, molto sembra non avere più un suo posto. Non vediamo la direzione di marcia, così solchiamo un territorio sconosciuto, in ordine sparso.
Dati
Autori: Zygmunt Bauman, Ezio Mauro
Titolo: Babel
Traduzione. di Z. Bauman, a cura di M. Sampaolo
Disponibile: anche in ebook
Edizione: 2015
Collana: i Robinson / Letture
ISBN: 9788858119655
Ecco un estratto di Babel
dialogo appassionato tra Zygmunt Bauman, uno dei più noti e influenti pensatori al mondo, e il direttore di “Repubblica” Ezio Mauro, su questa nostra epoca disarmata.
Ezio Mauro: Come un esercito invasore in un regno addormentato, la crisi sta attraversando con una facilità sorprendente tutta l’impalcatura materiale, istituzionale, intellettuale della costruzione democratica che l’Occidente si è dato nella tregua del dopoguerra. Governi, parlamenti, corpi intermedi, soggetti sociali, antagonismi, welfare state, partiti e movimenti nazionali, internazionali, continentali. Come a dire, tutto ciò che avevamo creato al fine di sviluppare e articolare il meccanismo della democrazia per proteggerci nel nostro vivere insieme.
Oggi sappiamo che quel meccanismo da solo non ci difende, che la crisi lo penetra e lo deforma attraversandolo, e così facendo lo svuota.
Zygmunt Bauman: È così. La crisi attuale tocca tutti gli aspetti della nostra condizione. D’improvviso, ci sentiamo vulnerabili: a livello individuale, singolarmente, e tutti insieme in quanto nazione, anzi in quanto specie umana. Ma come ricordava Thomas Paine «quando soffriamo o sopportiamo ad opera di un governo quelle stesse sventure che ci aspetteremmo di patire in un paese privo di governo, la nostra disgrazia è acuita dalla considerazione che siamo noi stessi a fornire gli strumenti della nostra sofferenza.»
La terribile sventura da cui confidavamo che i governi ci liberassero […] è in sostanza il senso di insicurezza della nostra vita.
È proprio dal sistema democratico in quanto tale, cioè da quella fitta rete di istituzioni inventate con genialità e costruite con fatica dai nostri padri, che un numero sempre maggiore di loro figli e nostri contemporanei si sentono traditi e delusi.
La manifestazione più terribile di questa frustrazione è la crescente distanza tra quelli che votano e quelli che dal loro voto vengono insediati nel potere. Sempre più spesso gli elettori scelgono fra le varie proposte guidati più dalle vecchie abitudini che dalla speranza che il loro voto produca un cambiamento delle cose. Nella migliore delle ipotesi, si recano alle urne per scegliere il male minore. Per una grande maggioranza di cittadini, l’idea di contribuire a indirizzare il corso degli eventi nella giusta direzione (una possibilità che in passato aveva reso di solito la democrazia cosi attraente e aveva dato vigore all’attiva partecipazione alle procedure democratiche) raramente, o forse mai, è ora considerata credibile e a portata di mano.
Stiamo assistendo ai nostri giorni, come annotava J.M. Coetzee nel suo Diario di un anno difficile, al progressivo affievolirsi della scelta tradizionale tra «una serena servitù da un lato e una rivolta contro la servitù dall’altro», mentre non viene colto il nuovo atteggiamento che si sta configurando presso la maggior parte dell’elettorato nei confronti di quelli che elegge al governo; un terzo atteggiamento infatti va prendendo sempre più piede ed è scelto attualmente «da migliaia di milioni di persone ogni giorno»: una posizione che Coetzee descrive come segnata da «quietismo, voluta oscurità». Siamo al crollo della comunicazione fra la élite politica e il resto della popolazione?
Ezio Mauro: Tu usi un termine che da solo potrebbe definire tutta la fase che stiamo vivendo, e non sappiamo per quanto. Vulnerabili: noi, individui disorientati, ma anche la struttura sociale, indebolita, e infine la democrazia, esausta. Non è un concetto politico ma materiale, fisico e psicologico insieme. Ci indica fin dove può scavare la crisi, toccando la carne e lo spirito infragiliti delle nostre società. E hai ragione a dilatare la nozione di crisi, perché il disordine economico-finanziario ha potuto allargarsi a dismisura in quanto ha trovato i cancelli della democrazia aperti e scardinati, quindi si è insinuato comodamente nelle debolezze del meccanismo democratico, come ruggine. Il cortocircuito è evidente: la percezione della propria vulnerabilità genera un sentimento di paura; ma se il compito dei governi è di garantire innanzitutto sicurezza, i governi diventano i primi imputati davanti alla nuova insicurezza crescente. Anzi, la politica finisce per essere il campione di un mondo che non funziona, il suo totem rovesciato.
Ma noi avevamo consegnato allo Stato il monopolio della forza appunto perché ci difendesse come individui e come insieme, e attraverso il libero gioco della politica avevamo costruito un percorso di legittimazione di quel potere statuale e dei ruoli che ne derivavano, per tutti. Se il meccanismo si blocca, lo Stato si arrende alla crisi, l’economia finanziaria si dimostra una variabile indipendente, il lavoro diventa un bene precario e non uno strumento di costruzione di sé in rapporto con gli altri; se la globalizzazione dilata la scena a dismisura, allora salta anche il mio ruolo di cittadino, il vincolo di interdipendenza tra il singolo e il potere pubblico.
Tu indichi il punto di rottura nella distanza crescente tra elettori ed eletti, cioè nella crisi evidente della rappresentanza. Non si va più a votare, lo si fa con indifferenza e senza passione o almeno senza convinzione, non si crede più al suffragio come arma suprema per premiare e punire, dunque scegliere. È vero che il malessere della rappresentanza e antico e periodico. Già nel 1925 Walter Lippmann diceva che il cittadino «oggi si trova nelle condizioni di uno spettatore sordo nell’ultima fila, che dovrebbe concentrare la sua attenzione sullo spettacolo ma non riesce più di tanto a tenersi sveglio».
Ma quella sordità assonnata e disorientata, stanca, oggi è paradossalmente diventata politica al contrario, quasi che il disincanto avesse fatto un giro completo e il rifiuto della politica avesse dato forma all’antipolitica realizzata.
Jacques Julliard lo teorizza cosi: quando il sistema rappresentativo diventa «cattivo conduttore della volontà generale», a un livello più profondo «il rifiuto della politica tradisce una sorda aspirazione all’autonomia degli individui, una sorta di allergia alla nozione stessa di governo».
Ma oggi, proprio oggi, siamo un passo oltre: l’allergia al governo per il cittadino deluso mescola e confonde i concetti cardine della filosofia politica moderna e dai governi e dai partiti l’allergia si trasmette alle istituzioni, allo Stato. Fino all’ultimo gradino su cui abbiamo già posato il piede, il disincanto della democrazia. D’altra parte, quel bisogno elementare di sicurezza deluso, che cos’è oggi? Fondamentalmente, un timore che la governance democratica non garantisca più alcun controllo, perché la crisi e i suoi fenomeni collaterali non sono governati. Dunque siamo di fronte ad una insicurezza politica, prima di tutto una solitudine politica, a una incomunicabilità politica.
Parlo di nuova solitudine, nuova incomunicabilità. Ecco la nuova coppia malata della post-democrazia – lo Stato e il cittadino – costretta a vivere insieme senza più riconoscerne le ragioni, con ogni reciproca passione spenta. Al cittadino che, come dici tu, si sente tradito e frustrato dalle promesse democratiche non mantenute dalle reti istituzionali e culturali costruite dai nostri padri, a quel cittadino lo Stato non interessa più, e tantomeno gli interessa la partita tradizionale per il potere, così lontano da non essere contendibile.
Non si sente deluso, piuttosto ribelle protagonista di una sorta di secessione repubblicana, quasi nuovo soggetto politico di una contro-politica del rifiuto. Non si accorge che anche lui non interessa più allo Stato, se non come numero da rilevare, senza volto e senza storia, nei sondaggi. Non si accorge, cioè, che nel momento in cui la sua libertà è soltanto singola, privata, e il suo esercizio dei diritti è esclusivamente individuale, incapace di combinarsi in qualsiasi progetto con gli altri, per il potere diventa irrilevante perché non può mettere in movimento nulla. Lo Stato sa statisticamente che io ci sono, ma sa anche che conto solo per uno, e non riesco più a sommarmi con gli altri.
Viene meno il concetto di pubblico, ed è una lacuna democratica nuovissima, la cui portata non riusciamo ancora a calcolare. Manca quindi l’elemento in cui si forma e cresce un’opinione. Forse resistono i sentimenti: ma più ancora, a ben guardare, i risentimenti, vero rumore di fondo di un’epoca disarmata.