Non passano inosservate, in Vaticano, le restrizioni imposte da vari governi alle celebrazioni delle messe nelle chiese, durante la pandemia di coronavirus. Se papa Francesco appare remissivo, non così la segreteria di Stato. Il 16 novembre l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, ha preso la parola al “Ministerial to Advance Freedom of Religion or Belief”, che riunisce ogni anno i rappresentanti di numerosi governi di tutto il mondo, per denunciare allarmato che tali restrizioni “mettono in pericolo la libertà di religione”.
Sta di fatto che i divieti delle messe e le chiusure delle chiese sono l’ultimo atto – giustificabile solo in rari casi d’emergenza – di un’ondata di restrizioni alla libertà religiosa che su scala mondiale è da anni in aumento costante.
Riprendiamo un estratto dall’articolo di Sandro Magister su L’espresso del 24 novembre 2020, nella rubrica “Settimo cielo”. 
 
Una indagine sulla libertà religiosa
Pochi giorni fa il Pew Research Center di Washington ha pubblicato un dettagliato aggiornamento in materia:
> In 2018, Government Restrictions on Religion Reach Highest Level Globally in More Than a Decade
L’indagine misura anzitutto le restrizioni alla libertà religiosa imposte dai governi, che vedono in testa la Cina, seguita – tra i paesi più popolosi –  da Iran, Russia, Indonesia, Egitto, Vietnam, Turchia.
Ma misura anche l’ostilità all’una o all’altra religione che si manifesta nei comportamenti diffusi. E qui in testa c’è l’India, seguita da Nigeria, Pakistan, Egitto, Bangladesh, Indonesia.
Della Cina colpisce il contrasto tra la forte ostilità del governo e la benevolenza della popolazione verso le religioni, mentre in India avviene l’inverso, con l’aggressività spontanea della popolazione che è ancor più forte delle pur pesanti restrizioni imposte dal governo.
L’Asia, il Medio Oriente e il Nordafrica sono le aree in cui si registrano le maggiori restrizioni alla libertà religiosa. Ma anche l’Europa entra in classifica, sia pure a livelli più bassi. Qui le restrizioni governative fanno la loro parte, ma più ancora l’ostilità sociale. Danimarca, Germania, Olanda, Svizzera, Regno Unito, Francia sono particolarmente connotati da atti d’aggressione antireligiosa. Il paese, invece, più “pacifico” in entrambi i sensi risulta essere il Giappone.
A essere più di tutti presi di mira, in tutto il mondo, sono i cristiani [come documenta anche un rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre], seguiti a breve distanza dai musulmani e poco più sotto dagli ebrei, nonostante questi ultimi siano solo lo 0,2 per cento della popolazione mondiale. Induisti e buddisti seguono a distanza.
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Ma è solo nella quantità che le restrizioni e le aggressioni alle religioni sono in crescita da anni? O a mutare è anche la loro qualità?
A questa domanda dà risposta l’altro documento della Commissione Teologica Internazionale, quello sulla libertà religiosa, reso pubblico nel 2019 anch’esso con la formale approvazione del papa, e opportunamente rilanciato da “La Civiltà Cattolica” nel suo ultimo numero, con un commento del teologo gesuita Felix Körner, docente alla Pontificia Università Gregoriana:
> La libertà religiosa per il bene di tutti
La genesi di questo documento è già di per sé istruttiva. Prende le mosse dalla dichiarazione “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa del 1965, che è anche uno degli insegnamenti conciliari contro cui i tradizionalisti si sono scagliati di più, fino a rompere con la Chiesa come hanno fatto i seguaci di Marcel Lefebvre e oggi sembra sul punto di fare l’arcivescovo Carlo Maria Viganò.
Nel solco dell’esegesi di Benedetto XVI, il documento ribadisce che la “Dignitatis humanae” va letta nel quadro della “riforma nella continuità”, in sintonia con la novità dei tempi e insieme in perfetta aderenza alla Chiesa dei primi martiri.
Ma va oltre, perché oggi – fa notare il documento – il contesto storico è molto mutato rispetto agli anni del Concilio Vaticano II. Körner riassume così le mutazioni avvenute:
“Un primo cambiamento rilevato è l’evidente crescita della pluralità religiosa (cfr n. 9). Se negli anni Sessanta questo era a malapena visibile, oggi la maggior parte dell’umanità vive in contesti multietnici e multireligiosi”.
“Un secondo è che la religione viene sempre più considerata una questione privata, che va esclusa o emarginata dalla sfera pubblica”.
“In terzo luogo, e in misura ben maggiore rispetto a 55 anni fa, oggi la religione viene percepita come un problema (cfr n. 2)”.
Ed è quest’ultimo il punto su cui più ragiona il documento della Commissione Teologica Internazionale. “Gli autori del documento – scrive Körner – riconoscono che nelle società attuali la religione è spesso più temuta che gradita. Le persone sono profondamente consapevoli dei crimini commessi in nome della religione (cfr nn. 4; 25; 82). E ovviamente ciò alimenta l’idea che anche la libertà religiosa sia un pericolo per l’umanità. Per cui, se non interviene lo Stato ad addomesticare e civilizzare questo fattore estremamente pericoloso, ossia la religione, non lo potrà fare nessun altro”.
I “fondamentalismi” sono l’elemento più vistoso del “problema”. Il documento li distingue da un semplice “ritorno alla pietà tradizionale”. Insiste piuttosto sul fatto che possono svilupparsi come reazione allo Stato liberale, o perché questo rinuncia a dare un orientamento, sposando il “relativismo”, o perché si arroga un potere eccessivo di orientare, spingendo la religione fuori dalla sfera pubblica, in una sorta di “totalitarismo morbido” (cfr n. 4).
Il fanatismo, infatti, può essere sia religioso sia antireligioso (cfr n. 5). Può assumere sia la forma della teocrazia sia quella dell’ateismo di Stato. Il documento bolla come “monofisismo politico” (cfr n. 61) i modelli in cui il potere di Dio e il potere dello Stato si sostituiscono l’uno all’altro.
Il documento dedica una preminente attenzione a ciò che accade nelle società occidentali, rimandando alle analisi di Charles Taylor in “The Secular Age”. Si è affermata un’idea di “neutralità egualitaria e a-valutativa” secondo cui l’appartenenza religiosa è equiparata all’appartenenza a un circolo ricreativo e “l’intero mondo della moralità umana e del sapere sociale deve essere ‘democratizzato’”. Ma non si può ricorrere al voto di maggioranza quando sono coinvolti valori fondamentali, perché in tal modo lo Stato diventa “eticamente autoritario”. E così, “nel suo rapportarsi originario alla verità, l’esercizio della libertà di coscienza finisce per trovarsi in costante pericolo. In nome di questa ‘etica di Stato’ viene indebitamente messa in questione, al di là del criterio del giusto ordine pubblico, la libertà delle comunità religiose a organizzarsi secondo i loro principi”  (cfr n. 62).
(In una nota, la n. 69, il documento aggiunge che questa “etica di Stato” si riscontra anche in Asia, dove “il limite alla libertà religiosa in molte costituzioni si esprime attraverso la clausola ‘ammesso che non sia contrario ai doveri civili o all’ordine pubblico o alla retta morale’, ma dove “il bene comune e l’ordine pubblico vengono tuttavia definiti dalla cerchia di potere”. E il pensiero va irresistibilmente alla Cina).
La via d’uscita che il documento propone ai teorici della neutralità e alle comunità religiose è uno sforzo per trovare un terreno comune. Le culture liberali, che tendono a considerare le religioni fondamentalmente irrazionali e ideologiche, dovrebbero superare tale pregiudizio e guardarle più da vicino. D’altra parte, anche le religioni dovrebbero imparare “a elaborare in un linguaggio umanisticamente comprensibile la visione della realtà e della convivenza che le ispira” (cfr n. 7). Un’elaborazione in cui il cristianesimo, per la sua “razionalità”, ha un ruolo facilitato.
Il documento chiede un riconoscimento reciproco tra lo Stato e le comunità religiose. Ogni religione “deve accettare di ‘presentarsi’ davanti alle giuste esigenze della ragione ‘degna’ dell’uomo” (cfr n. 70). E tra queste “esigenze” c’è “la reciprocità pacifica dei diritti religiosi”, in primo luogo la libertà di conversione – quella che ad esempio in Arabia Saudita è vietata e punita con la morte –, da garantire universalmente.
Un’altra novità del documento – che Körner fa notare, – è l’insistenza sulla comunità religiosa più che sull’individuo. Mentre la “Dignitatis humanae” aveva presentato una teoria della libertà religiosa che metteva al primo posto la libertà di coscienza personale, il documento sviluppa in modo più marcato il diritto delle comunità religiose ad agire come protagoniste nella sfera pubblica.
 
Sandro Magister, Chiese chiuse. Che cosa è cambiato nella guerra alla libertà religiosa, Settimo Cielo, L’Espresso, 24 novembre 2020