Profughi e migranti: nessuno declini la propria responsabilità. Il Papa pone il tema, rimarcando ancora una volta l’importanza di questa grande e dolorosa vicenda umana, e lo fa con una scelta assolutamente inedita che traduce in un atto senza precedenti nell’attribuzione di servizi che la Curia romana è chiamata a rendere alla Chiesa universale. Perciò Francesco si interesserà per primo di profughi e migranti, direttamente, nei modi che ritiene opportuni. È così stabilito nello statuto del nuovo dicastero vaticano per il Servizio dello sviluppo umano integrale, del quale ha assegnato la guida al cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turkson.
L’articolo 1, punto 4, dello statuto specifica infatti che questa sezione «è posta ad tempus sotto la guida del Sommo Pontefice » e che egli «la esercita nei modi che ritiene opportuni». Fino a quando lo riterrà necessario il Vescovo di Roma ha perciò avocato a sé questa competenza e responsabilità. Papa Francesco agirà attraverso due vice, che risponderanno direttamente a lui. Pertanto anche se l’accorpamento prevede che l’attuale Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti – che fino a oggi è stato governato dal cardinale Antonio Maria Vegliò – diventi una delle sezioni del nuovo dicastero, la sua importanza con la decisione odierna sarà in realtà ancora più evidenziata. Avendo come commissario speciale lo stesso Vescovo di Roma.
Questa decisione inedita, che affonda le radici nella riforma della Curia romana voluta dal beato Paolo VI, quando il Papa manteneva per sé le prefetture del Sant’Uffizio, è un modo certamente incisivo per sottolinearne la stringente necessità umana e sociale, e spiega l’impegno di papa Francesco in prima persona, seguendo i segni dei tempi, perché «non può esserci oggi un servizio allo sviluppo umano integrale senza una particolare attenzione al fenomeno migratorio».
Con questo atto Francesco vuole essere d’esempio ‘ad intra’ e ‘ad extra’, in un tempo in cui la chiusura e l’indifferenza rifiutano di riconoscere che chi fugge dalla guerra o per un’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta «è un fratello con cui dividere il pane, la casa, la vita», un tempo in cui l’egoismo incancrenito dal consumismo delle nostre società teme il cambiamento di vita e di mentalità che la loro presenza richiede. E quelli che si dicono cristiani non li riconoscono come «carne di Cristo». E «trattando i migranti come un peso, un problema, un costo» non li considerano invece «un dono» e perciò una risorsa, una possibilità di arricchimento, come ha ripetuto papa Bergoglio anche nell’ultima visita al Centro Astalli a Roma, incoraggiando un percorso che si fa sempre più necessario, «unica via per una convivenza riconciliata». Non sono forse i rifugiati che «conoscono le vie che portano alla pace perché conoscono l’odore acre della guerra»?
Con questo nuovo atto statuario Francesco sigla così anche il suo pontificato, contraddistinto dalle iniziative di prossimità prese come leit-motiv di questi anni. Fin dall’inizio. Da quel primo blitz a Lampedusa nel luglio 2013, da dove – in mezzo alle vittime dei barconi – ha lanciato il suo grido per scuotere l’indifferenza dal mondo. In quella porta di confine e d’ingresso, punto di frattura dove s’infrange la frontiera tra disperazione e speranza, dove con la dignità e la vita trova morte la fiducia nel domani, non solo dei più poveri, ma di noi tutti. Da quello che è stato fin da allora un passaggio chiave nella rotta della riforma che Francesco sta seguendo sull’onda del Povero frate di Assisi, dal quale ha preso il nome e con il quale condivide l’amore senza esitazioni per la povertà. E così di nuovo all’inizio di quest’anno levando alta la voce sulla frontiera del Messico con gli Stati Uniti, a Ciudad Juárez nella ‘città delle ossa’, dove s’infrangono i sogni degli ultimi. E poi con il crescere del conflitto in Siria, chiedendo a ogni parrocchia di ospitare una famiglia di rifugiati. Così il 16 aprile scorso, insieme anche al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo e all’arcivescovo ortodosso di Atene Hyeronimos, in un’unica voce al campo rifigiati di Mòria dell’isola greca di Lesbo.
E a sorpresa, nel viaggio di ritorno a Roma, portando con sé sull’aereo dodici profughi musulmani, perché è scritto nel Vangelo che ci si deve fare prossimi a tutti, senza distinzione di fedi, razza e classi sociali.
«In tutto il suo essere e il suo agire la Chiesa è chiamata a promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo alla luce del Vangelo », recita il motu proprio, approvato da papa Francesco – insieme allo Statuto, ad experimentum – il 17 agosto scorso, su proposta del C9. Uno sviluppo che si attua – è scritto nel documento – mediante la cura per «i beni incommensurabili della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato» e che vede «la sollecitudine della Santa Sede nei suddetti ambiti, come pure in quelli che riguardano la salute e le opere di carità». Per questo il nuovo dicastero sarà particolarmente competente nelle questioni che riguardano le migrazioni, i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati, i colpiti da catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime dei conflitti armati e di qualunque forma di schiavitù e di tortura. Qui è il Vangelo e qui è il senso ultimo e unitario di questa riforma alla luce della dottrina sociale della Chiesa e delle opere di misericordia.