C’è tanta carne al fuoco nel nuovo film di Anne Fontaine, regista delle donne forti, a volte rivoluzionarie, che sempre lasciano il segno. C’è una storia vera innanzitutto, romanzata ma non caricata di orpelli scenografici e accenti melodrammatici. E’ la storia di Madeleine Pauliac, giovane medico della Croce Rossa francese che nella Polonia devastata dalla guerra e dall’avanzata sovietica aiutò a partorire e a guarire dal senso di vergogna le suore di un convento benedettino impunemente violentate da soldati brutali come lanzichenecchi e feroci come barbari medievali.
Già interessante di per sé e non così lontana dall’esperienza personale della regista – che ha adottato un bambino vietnamita nato da uno stupro e ha due religiose in famiglia – questa dolorosa vicenda diventa, nelle mani dell’autrice di Gemma Bovery, qualcosa di profondo e di universale. Un’indagine sulla condizione umana, innanzitutto, sulla fragilità, sulla trasgressione e perfino sulla fede, fonte ora di pacata serenità, ora di incertezza e dolorosa accettazione. Eppure si tratta di un racconto intimo, perché fin dal principio Agnus Dei appare come la fotografia di una piccola stanza quieta, di un angolo di privato non spiato dal buco della serratura ma osservato con timido pudore e rappresentato nel rispetto di personaggi che non perdono mai la loro dignità.
E’ questo il cinema che preferiamo e che i drogati di spettacolarità e di retorica non capiscono, un cinema magari troppo oggettivo che nel caso di Agnus Dei non dimentica però di essere teso e incalzante. Non ci si annoia mai, infatti, a seguire il cammino verso l’orrore e poi verso una rinnovata speranza della giovane protagonista laica e delle “sorelle” che si trova a soccorrere e curare, e questo perché quasi ogni scena è attraversata da una tenue battaglia, da una dialettica fra un sentimento (o un’idea, o un comportamento) e il suo opposto.
Al corpo di Mathilde – che si muove sicuro nello spazio e risponde a istinti e desideri – si contrappone ad esempio quello tradito o rinnegato delle suore, che nascondono la pancia sotto le vesti o si muovono furtivamente fra le celle. Ancora, alla rigida gerarchia che regola la quotidianità del convento fanno da contraltare la libertà e l’anarchia del mondo esterno, che si autodetermina con testarda prepotenza.
Infine, alla castità come voto irrinunciabile risponde la natura con i suoi cicli e con le sue leggi, e con una condizione (la maternità) di cui Agnus Dei parla con una tenerezza e un incanto infiniti. Nessuno di questi “misteri” viene svelato fino in fondo nel film, così come nessun conflitto si risolve e nessuna ideologia si impone come la migliore. Anne Fontaine, dopotutto, celebra il dubbio, l’accettazione dell’imprevisto, perfino l’incoerenza.
C’è solo una forza che sembra avere la meglio sulle altre: la forza delle donne, vere vittime della guerra perché prede da catturare, bottino da conquistare, trofei da ostentare. Per quanto diverse fra loro, le suore del convento funzionano come una sola armata, un unico poderoso blocco. Per questo la regista insiste sull’uniformità del loro aspetto fisico: su volti senza trucco che inevitabilmente si somigliano e che si confondono con il bianco della neve, sui corpi appena percettibili sotto le stoffe morbide. Certo, se a interpretare le religiose non fossero state attrici di grande talento, avremmo faticato a distinguerle. E invece ognuna acquista pian piano una sua precisa identità e una luce che si irradia dall’inizio alla fine.
E’ importantissima la luce in Agnus Dei, è soffice e dolce, è rinascimentale, è gioiosa a dispetto della sofferenza che il film restituisce perché coincide con la vita, anzi con le vite, le nuove vite che il convento accoglie prima con bambinesca goffaggine poi con orgogliosa fierezza.
Bene interpretato da Lou de Laâge, Agnus Dei è piaciuto al Vaticano, che l’ha definito “un film terapeutico”. Che aiuti a curare le ferite di guerra o la violenza che le suore o più in generale le donne hanno dovuto sopportare nei secoli, poco importa. E’ con il cuore gonfio di speranza che si esce dalla sala, e con il pensiero che nel nostro brutto brutto mondo non tutto sia da buttare via.