le molte ipotesi sulla vita dopo la morte
Con il prolungamento della vita media e il corrispondente aumento degli anziani e dei vecchi crescono anche le testimonianze sulla esperienza della morte o meglio della sua attesa.
A questo proposito, osserva Edoardo Boncinelli: «noi aspiriamo ad avere punti di riferimento fissi a cui appigliarci, sia di natura conoscitiva sia di natura normativa.
Come i bambini. Non importa che i riferimenti cognitivi siano veri, ma devono essere fissi e ‘certificati’. Così non importa che le convinzioni e le norme siano ragionevoli, basta che siano ripetute e ribadite» (Io e Lei. [=La morte] Oltre la vita, Ugo Guanda editore, Milano 2017 p. 63). Ammonito da questa convinzione dello scienziato vorrei esaminare un solo aspetto del problema. Mi chiedo in quale misura il risultato della crescita personale e la eventuale continuità della vita dipenda dalle scelte compiute nella storia terrena e se quindi la morte rappresenti per alcuni il passaggio ad un’altra modalità di esistenza come sviluppo della dimensione spirituale mentre per altri possa anche rappresentare la fine definitiva dell’avventura personale.
Premessa
Il 15 febbraio 2013 una giovane signora mi ha interpellato via E-mail sulla condizione attuale della madre, morta una settimana prima a 52 anni. Poneva numerose domande: «cosa ne è dei defunti per la nostra religione? veramente un giorno ci rincontreremo? e la mamma come sta? può essere già in Paradiso o è possibile si trovi in Purgatorio? a cosa possono aiutarla le nostre preghiere? veramente ci si incontra con i propri cari già morti? e io quando la rincontrerò? nel giorno della mia morte o nel giorno del Giudizio Universale? dove si parla di queste cose nel vangelo? mi aiuti a cercare risposte in modo che io possa confortare oltre che me stessa i miei cari».
Riassumo brevemente la mia risposta: «Tutte le nostre idee e le parole corrispondenti nascono dall’esperienza. Ora noi non abbiamo alcuna esperienza della condizione umana dopo la morte». Per chiarire meglio l’affermazione portavo un esempio. «I suoi due figli quando crescevano nel suo utero e hanno cominciato a percepire una presenza, il battito del suo cuore, il flusso del sangue, il respiro, che idea potevano avere della loro madre? Come potevano immaginare il suo volto? Come potevano percepire il cielo, le nubi, il sole, le altre persone? Anche quando li separavano solo pochi centimetri non potevano rendersi conto della realtà. Così anche tutti noi nell’attuale condizione non possiamo immaginare né avere una minima idea della condizione futura nostra e dei nostri cari.
Se poi siamo credenti possiamo pensare che l’amore di Dio creatore non ci abbia chiamato alla vita solo per poco tempo ma per sempre. Secondo il Vangelo Gesù a chi lo seguiva prometteva «nel futuro la vita eterna » (Mc. 10, 30), con l’invito «venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt. 25, 34). Per questo secondo il Vangelo di Giovanni Gesù diceva che era venuto per «darci la vita in pienezza » (Gv. 10,10) e alla sorella dell’amico Lazzaro assicurava: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv. 11, 25).
Come il feto nell’utero materno sviluppa gli organi (cuore, polmoni ecc.) che non servono in quel momento, ma solo dopo la nascita, così anche noi ora sviluppiamo gli organi spirituali che servono per la vita futura.
Questo significa crescere come figli di Dio.
In quanto cristiani crediamo che «colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a Lui» (2a lettera di Paolo ai Corinti 4, 14). Risorgere non significa che il nostro corpo andrà altrove, ma che la nostra dimensione interiore cresce e si sviluppa in modo da attraversare la scomparsa per entrare in una modalità spirituale di esistenza. In questa prospettiva è anche comprensibile quello che scrive l’apostolo Paolo quando dice: «per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.
Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne» (2 Cor. 4, 16-18).
Autorevoli biblisti
Ora sarei in grado di rispondere con citazioni di autori più autorevoli delle mie. In particolare voglio ricordare due libri recenti.
Il primo del biblista cattolico Romano Penna Quale immortalità. Tipologie di Sopravvivenza e origini cristiane (S. Paolo, Cinisello Balsamo 2017) e il secondo dello storico valdese Paolo Ricca Dell’al di là e dall’al di là. Che cosa accade quando si muore? (Claudiana, Torino 2018). Trattano temi diversi, ma sul dopo morte di fatto ambedue dichiarano di non avere risposte assolute se non nel richiamo ad un attuale amore di Dio e del prossimo coinvolgente e generoso, come garanzia di una continuità dell’esistenza.
Romano Penna conclude la sua analisi con le seguenti affermazioni: «L’importante è che il pensiero dell’immortalità futura non sia un motivo onirico per una fuga per la tangente distogliendoci dal realismo di un presente impegnativo e, comunque, dal punto di vista cristiano, anticipatore. Occorre invece coltivare la certezza che tutto comincia qui adesso: l’immortalità parte dalla convivenza con le cose più piccole e le relazioni più disparate di ogni giorno.
L’oraziano carpe diem risuona non solo in un nostro scrittore del passato recente: ‘immortale è chi accetta l’istante… Che cosa è la vita eterna se non questo accettare l’istante che va?’ [egli cita Cesare Pavese Dialoghi con Leucò 101-103 senza ricordare che poi è morto suicida], ma soprattutto nella citata affermazione paolina: ‘Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza’ (2 Cor 6, 2)… Semmai se c’è un’ultima precisazione da fare, è che l’attimo fuggente va colto, non in un subdolo senso egoistico e magari godereccio di timbro falsamente epicureo, ma come quotidiano esercizio gioioso di un amore disinteressato e costruttivo, di cui la fede cristiana costituisce un tipico impulso» (R. Penna, ivi p.
159). In nota il biblista cita le parole di Benedetto XVI del 27 gennaio 2013, giorno in cui annunciava le sue future dimissioni: «Ogni giorno può diventare l’oggi salvifico, perché la salvezza è storia che continua per la Chiesa e per ciascun discepolo di Cristo.
Questo è il senso cristiano del carpe diem: cogli l’oggi in cui Dio ti chiama per donarti la salvezza» (ivi p 159 n. 7).
Paolo Ricca, dopo un lungo esame storico (pp. 29-70) e un capitolo sulla reincarnazione (pp. 71- 102), propone la sua riflessione con il richiamo alle concezioni cristiane e termina con due parabole di Matteo.
La prima dei due figli (Mt. 21, 28-32) «nella quale per un singolare paradosso, quello dei due figli che alla fine fa la volontà del padre e va a lavorare nella vigna è quello che gli aveva detto ‘no’, rifiutando il suo ordine e la sua autorità» (ivi p. 122).
La secondo parabola (Mt. 25, 31-46) è ‘una descrizione assolutamente originale del giudizio finale, dove addirittura i ‘giusti’ non sanno di essere giusti e gli ‘iniqui’ non sanno di essere iniqui» (Id. ivi p. 123). Il giudizio finale avrà come oggetto «un unico doppio comandamento: amare Dio e il prossimo». «Molti, in vita, non si sono accorti che, amando il prossimo, il prossimo sofferente (affamato, assetato, profugo, nudo, malato, carcerato) hanno amato Dio, perché non sapevano che il Figlio di Dio era presente nel prossimo che soffre; lo scoprono alla fine, ma non è troppo tardi, perché comunque hanno amato, ed è questo che, nel giudizio di Dio più di tutto il resto veramente conta e veramente vale: ‘Chi dimora nell’amore dimora in Dio, e Dio dimora in lui’ (I Giovanni, 16)». (Ricca, ivi p. 123).
Quando però deve esprimere i contenuti dottrinali della fede nella vita dopo morte premette che «su questioni di questo genere e di questa portata si possono fare affermazioni, non dare dimostrazioni. Ed è anche per questa ragione che rinunciamo a ‘concludere’» (ivi. p. 125). Ricca osserva che nessuna delle numerose ipotesi esaminate può «proporsi come realmente conclusiva, né autorizza noi a ‘concludere’ in un modo o in un altro» (p. 125). Da parte sua egli risponde «nell’unico modo che gli sembra possibile, cioè con un atto di fede, che è questo: egli crede che con la morte non finisca tutto, ma che la vita della persona continui in un altro modo; la morte non è la fine, ma un passaggio» (ivi pp. 125 s.).
Ricorda infine che l’apostolo Paolo inizia la parte conclusiva del capitolo 15 della Prima lettera ai Corinti dedicato alla risurrezione parlando di «un mistero». Ricca precisa «che si tratta di un mistero rivelato.
C’è una grande differenza tra un mistero e un mistero rivelato: un mistero è un punto oscuro, un mistero rivelato è un punto luminoso. E mentre davanti a un mistero che resta un enigma si può esitare e anche dubitare, davanti a un mistero che diventa rivelazione, cioè luce, si può credere » (p. 127). Ma senza sapere.
di Carlo Molari, in “Rocca” n. 2 del 15 gennaio 2019