L’assemblea che l’associazione Viandanti ha tenuto a Parma lo scorso 22 settembre è una buona occasione per cogliere alcuni aspetti dello stato di salute del cattolicesimo italiano. Certo, i Viandanti è un punto di osservazione molto parziale, ma non irrilevante.
Chi sono i Viandanti? Per cominciare, è una rete, che ha come base Parma. E’ nata nel 2010 con l’intento di offrire ai molti gruppi di base e realtà comunitarie sparsi nella penisola una struttura agile, leggera, che potesse promuovere relazioni e conoscenza reciproca, mettere in comune esperienze e idee. Nel corso degli anni hanno aderito 31 gruppi (una piccola parte dei tanti esistenti, ma significativa), la maggior parte dei quali nati negli anni ’70 e ’80 quando, all’indomani del concilio Vaticano II, le grandi associazioni cattoliche sono entrate in crisi e sono andate nascendo una molteplicità di nuove iniziative dal basso. Ma alcuni gruppi sono più antichi: Il Gallo, ad esempio, è stato fondato negli anni ’40, a Genova, e fin da allora pubblica un mensile ricco di temi di spiritualità; anche il gruppo che ha dato vita alla rivista Dialoghi, a Lugano, nella Svizzera italiana, ha origini negli anni ’50 e ’60; e la rivista Il Tetto, di Napoli, è del ’63. Altri gruppi sono invece sorti negli ultimi due decenni, come la rete dei gruppi torinesi del Chicco di senape, sorta nel 2007 per riattualizzare il messaggio della lettera pastorale “Camminare insieme” del vescovo Michele Pellegrino (dei primi anni ’70), o il gruppo di Bologna “Sostenere, non sopportare”, detto anche “EsseNonEsse”, che dal 2009 promuove la partecipazione ecclesiale e civile e ha una sua Newsletter, o ancora il Gruppo Davide, di Parma, che dal 2015 dà aiuto e accoglienza a persone con orientamento omosessuale.
Alcuni di questi gruppi sono nati da particolari esperienze ecclesiali, ai margini della chiesa- istituzione, come la Comunità di base del Cenacolo a Merano o il gruppo di preti operai che, insieme ad alcune comunità di base veneziane, hanno dato vita alla rivista Esodo, a Mestre; altri sono custodi delle testimonianze di figure ecclesiali esemplari: ad esempio l’associazione “Amici di don Germano”, cioè don Germano Pattaro, che è stata figura di rilievo del dialogo ecumenico e della promozione laicale a Venezia; altri ancora sono per lo più interessati allo studio della Parola. Sono una decina i gruppi legati ad una rivista, e alcune le abbiamo già citate; sono: Dialoghi, di Lugano; Esodo, di Mestre; Koinonia, di Pistoia; Il Gallo, di Genova; Il tetto, di Napoli; l’altrapagina, di Città di Castello; Matrimonio, di Padova; Nota-M, di Milano; Oreundici, di Civitella San Paolo (vicino Roma); Tempi di Fraternità, di Torino.
Quando Viandanti è nata, nel 2010, si era quasi al termine del pontificato di Benedetto XVI. Era un periodo di profondo disagio, ha detto nella relazione introduttiva dell’Assemblea Franco Ferrari, che della rete è stato il promotore e ne è tuttora il presidente. Motivi del disagio erano, in particolare, secondo Ferrari, il ridimensionamento in atto del Vaticano II attraverso il riannodare di molti dei fili di continuità con il passato, e poi il continuo sostituirsi della gerarchia ai laici nel compito di animare e governare non solo la comunità ecclesiale ma anche la città e il bene comune.
Di quel disagio era stato testimone, già prima, nel 2009, il primo dei convegni del gruppo riunitosi attorno al nome “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”, a Firenze. “Con molti che nella chiesa oggi stentano ad avere voce – scrissero quell’anno i promotori del convegno fiorentino – avvertiamo la sofferenza di non vedere al centro della comune attenzione il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri, ai peccatori, a quanti giacciono sotto il dominio del male, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge. E invece noi vogliamo non una chiesa della condanna, ma una chiesa che manifesta la misericordia del Padre, che vive nella libertà dello Spirito, che sa soffrire e gioire con ogni donna e con ogni uomo che le è dato di incontrare”. A quel convegno ne seguirono altri cinque (ancora a Firenze, poi a Napoli, a Roma, a Brescia e ancora a Napoli), fino al 2014 e al “congedo” di quell’esperienza, dopo l’arrivo di papa Francesco, che sembrava rispondere a tante attese e inquietudini. E un’altra esperienza analoga a questa era sorta nel 2012, quella del gruppo “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” (con ben 700 persone, riunite a Roma, nel primo dei quattro incontri nazionali, con circa 120 realtà presenti). E’, dunque, in questo stesso alveo che si è inserita la rete dei Viandanti, convinta, all’indomani della venuta di papa Bergoglio, che la sua ventata innovativa non dovesse dissolvere le preoccupazioni che avevano motivato il disagio degli anni precedenti.
Uno dei primi atti della Rete è stata la stesura di una “Lettera alla Chiesa che è in Italia”[1], nel febbraio 2013, in cui si sottolineava, in particolare, la difficoltà di realizzare un positivo confronto tra pastori e fedeli, di praticare ascolto, sinodalità e corresponsabilità come il concilio Vaticano II aveva, invece, fatto sperare. E si indicavano alcune priorità: dialogo col mondo, senza contrapposizioni; ripresa decisa del cammino ecumenico, con la volontà a convergere nel primato della Parola; rilancio della riforma liturgica; affermazione della centralità ecclesiale dell’eucaristia;
riconsiderazione di discipline rigoristiche come quella per i divorziati risposati e le coppie di fatto; reale attuazione dell’ecclesiologia di comunione del Vaticano II e dunque costruzione di una chiesa sinodale, mettendo in evidenza la comune dignità e responsabilità di tutti i cristiani fondata sul battesimo; riflessione sul ruolo dei presbiteri, sulla loro formazione e sulla disciplina celibataria; riflessione su come valorizzare veramente la ministerialità femminile nella Chiesa; valorizzazione di un laicato adulto, con chiare responsabilità all’interno della comunità ecclesiale; infine, in vista di una chiesa povera e dei poveri. radicale ripensamento sull’uso e la gestione dei beni, sull’opzione per i poveri e, e sulla laicità dello Stato.
La Lettera non ha avuto grande eco (del resto, solo un mese dopo è avvenuta l’elezione di papa Francesco, che ha davvero molto rimescolato le carte); ma Viandanti, che, pure essendo una libera associazione di fedeli attiva più fuori che dentro l’articolazione istituzionale della Chiesa, ha la consapevolezza, e il desiderio, di essere partecipe della vita della Chiesa italiana, sente come irrinunciabile il rapporto con i Pastori e lo ricerca con pazienza, senza scoraggiarsi, forte anche di quanto il Concilio ha detto nella costituzione Lumen gentium, là dove si parla della relazione dei laici con la gerarchia: e cioè che i laici “hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa”. Fino ad oggi la Rete ha potuto incontrare i vescovi di Parma, di Bologna e di Novara.
Fare rete non è per nulla facile. Ogni gruppo, ogni realtà, ha la sua storia, il suo stile, anche il suo affaticamento. E il limite dell’autoreferenzialità è un ostacolo sempre molto duro da superare. La Rete funziona soprattutto attraverso incontri a cadenza biennale tra i rappresentanti dei gruppi, con la regia attenta e paziente di Franco Ferrari. Se ne sono tenuti a Roma, Firenze, Milano, Torino e Verona. Ci si confronta sulla situazione ecclesiale, si ragiona di possibili iniziative comuni. Ci sono poi riunioni tra le riviste che in qualche caso hanno portato a trovare l’accordo per pubblicare in contemporanea, su temi ritenuti di particolare rilievo, gli stessi articoli: ad esempio nel 2016 per la ricorrenza dei 70 anni dalla morte di Ernesto Buonaiuti, e per l’intervista a don Pino Ruggieri sulla sinodalità. Uno dei gruppi, “Finesettimana”, di Verbania, gestisce da molto tempo una apprezzatissima rassegna stampa ecclesiale (di cui anche la rete c3dem spesso si serve, e che qui ringraziamo). C’è anche naturalmente un sito, che è molto ben curato (www.viandanti.org). I momenti di maggior rilievo pubblico della vita della Rete sono i convegni nazionali, a cadenza biennale. Con essi la rete intende adempiere al compito di essere una presenza “pensante”, che elabora proposte, che esprime le sue ragioni “sine ira” e che prende il coraggio di intervenire pubblicamente sulle questioni aperte. Il primo convegno è stato a Bologna, nel 2014: “Separati, divorziati, risposati. Fallibilità dell’amore umano nello sguardo di Dio”. Il secondo, di nuovo a Bologna: “Chiesa, di che genere sei? Carismi, ministeri, servizi per un popolo di donne e uomini”, nel 2016. I temi oggi sentiti più urgenti, e che potranno essere al centro del prossimo convegno nazionale, sono la figura e il ruolo del presbitero, l’esigenza di una reinterpretazione del nesso tra fede, Tradizione e dottrina, il rapporto sacro/profano in relazione soprattutto alla ricerca di senso dei giovani.
L’assemblea tenutasi a Parma nei giorni scorsi ha avuto tre momenti centrali: la relazione introduttiva di Franco Ferrari (“Viandanti: guardare al futuro da una periferia”), su cui sono intervenuti alcuni dei gruppi presenti, la relazione di Fulvio De Giorgi, docente di Storia dell’educazione all’Università di Modena e di Reggio, sul tema “Quale futuro per la Chiesa?”, e l’approvazione di una mozione finale, con le linee di sviluppo del prossimo quinquennio[2] (l’assemblea dei soci si terrà d’ora in poi ogni cinque anni, segno che i Viandanti guardano davvero con fiducia al futuro).
Franco Ferrari ha dato molto rilievo alla Lettera al popolo di Dio che papa Francesco aveva scritto appena un mese prima dell’assemblea, il 20 agosto, nel pieno della nuova ondata di attenzione dell’opinione pubblica alla grave questione degli abusi sessuali nella chiesa. Aveva colpito, in quella lettera, la forte critica al clericalismo e il deciso appello a tutto il popolo di Dio, a tutti i cristiani, a farsi carico dei problemi in cui la chiesa era immersa: “la dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria”, aveva scritto Francesco. Il papa partiva certamente dalla assoluta gravità di quei fatti, ma sembrava cogliere l’occasione di questo difficile momento della vita della chiesa per avanzare un’istanza più generale: “è necessario – scriveva – che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno”, perché “è impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del popolo di Dio”; e quando così non si è fatto – aveva aggiunto – “abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita”. E tutto ciò, spiegava Francesco, era avvenuto, e avviene tutt’oggi, per quel “modo anomalo di intendere l’autorità nella chiesa” che è il clericalismo, cioè il non riconoscimento della personalità dei cristiani, della grazia battesimale che è in loro.
Per i Viandanti, che nella mancata valorizzazione dei laici hanno visto una delle radici profonde del loro disagio e la ragione prima del loro impegno, queste parole di papa Francesco hanno trovato un consenso molto alto. Così Ferrari ha dato alla sua relazione il senso di uno sforzo teso a corrispondere direttamente all’invito venuto dal papa. Ha presentato i Viandanti come una “periferia della chiesa”. Periferia, perché la Rete è una piccola realtà che opera senza alcun mandato o riconoscimento della gerarchia, un universo un po’ bordeline – ha detto – che opera più sul sagrato che in sagrestia (ma così facendo – ha aggiunto – le persone si garantiscono una libertà di azione e vivono appieno la propria responsabilità di laici adulti). Periferia, perché questo sono, in realtà, oggi i laici all’interno della Chiesa. Poi Ferrari ha parlato del futuro della Chiesa, così come lo vedono i Viandanti. Aderendo al punto di vista di papa Francesco che ha parlato di un cambiamento d’epoca nella vita della Chiesa, egli ha posto alcune questioni: l’esigenza di operare una reinterpretazione della dottrina e della Tradizione, secondo la stessa logica che ha portato il papa ad avviare una conversione della pastorale; l’esigenza di affrontare il rinnovamento del linguaggio della fede (le parole e i concetti) perché si renda di nuovo possibile la trasmissione della fede alle giovani generazioni; la necessità di rivedere la figura del sacerdote, i criteri della selezione con cui viene ammesso, i modi della formazione, il regime del celibato, l’opportunità di valorizzare i “viri probati”, il ripensamento dei ministeri in particolare femminili.
Raccogliendo una provocazione di Francesco contenuta in un suo discorso ai vescovi responsabili del Celam, a Rio de Janeiro nel luglio 2013 (“nella maggioranza dei casi, si tratta di una complicità peccatrice: il parroco clericalizza e il laico gli chiede per favore che lo clericalizzi perché in fondo gli risulta più comodo” ), Ferrari ha dedicato uno spazio significativo della sua relazione a come “combattere il clericalismo in noi”, e non solo nell’istituzione. Dobbiamo imparare a non rinunciare ad esprimerci, ha detto; dobbiamo imparare a trattare questioni di carattere generale in modo pubblico e non accettare sempre di affrontarle solo in via riservata. Infine, ha provato a dire come si possa acquisire una cultura e una mentalità autenticamente sinodali. Ha detto che bisognerebbe che i luoghi e gli strumenti di partecipazione (consigli pastorali diocesani e parrocchiali in primis) fossero rafforzati in sede di codice di diritto canonico, ma che comunque è necessario coscientizzare i laici perché essi per primi diano valore alla libertà di parola e promuovano con coraggio spazi e forme di dibattito, magari sul sagrato se dentro le mura ecclesiali non è possibile.
Delle diverse voci venute dai gruppi non è possibile dare conto qui. Un ruolo importante, nell’assemblea, l’ha svolto Fulvio De Giorgi, nella sua relazione sul futuro della chiesa, con le sue tesi ispirate a un “ottimismo tragico”, come l’ha chiamato lui stesso. Riprendendo, anche lui, la considerazione di papa Francesco che siamo di fronte a un cambiamento d’epoca, più che non a un’epoca di cambiamenti, tanto per la società quanto per la Chiesa, ha individuato alcuni crinali decisivi di tale cambiamento: a livello antropologico, per la messa fuori gioco definitiva di due elementi che sono stati per millenni dei capisaldi antropologici, come la sacralizzazione della sessualità procreativa e il potere dei maschi sulle femmine; a livello cognitivo, per la perdita di comprensibilità di concetti come dogma ed eresia; a livello socio-ecclesiale, per la insostenibilità del modello tridentino, incentrato sulla netta separazione tra clero e laicato e il conseguente formarsi di caste e del tanto vituperato, oggi da Francesco, clericalismo (per superare realmente il quale – secondo De Giorgi – non basterebbe forse un concilio).
Cambiamento anche a livello pastorale: per De Giorgi la chiesa ha assunto da oltre due secoli un modello pastorale fondato su una sorta di totalitarismo, su un’idea di cristianità, che tra ‘700 e ‘800 si è giustificata per la paura della chiesa di essere vittima di un complotto da parte vuoi dei massoni, vuoi degli ebrei, dei socialisti o dei liberali; e che nel ‘900 è stata sostenuta per far fronte al totalitarismo fascista e a quello comunista, come pure al materialismo teorico. E l’evento conciliare, se ha recuperato l’attenzione critica al materialismo pratico più che non a quello teorico (cioè agli aspetti concreti del vivere, al di là del dirsi cattolico senza che poi si viva il vangelo), non è riuscito a superare fino in fondo l’atteggiamento insito nell’idea di cristianità, e questo perché era ancora sulla breccia il comunismo. In seguito, con il crollo del comunismo alla fine degli anni ’80, e con il trionfo della globalizzazione neoliberale e del materialismo pratico, la chiesa – secondo De Giorgi
– si mostra incapace di comprendere il cambiamento in corso (al di là dell’ultimo Montini della Evangelii nuntiandi) e di nuovo ritiene di dover mettere in campo un accentramento totalizzante, un rafforzamento del potere del clero, una contrapposizione dottrinale e culturale (il progetto culturale della chiesa italiana, i valori non negoziabili…). Una visione sbagliata, dice De Giorgi, che interpreta la globalizzazione neo-liberale come una ideologia mentre si tratta di individualismo, di una nuova forma di scetticismo, di un materialismo dei comportamenti più che delle idee. Una visione e una reazione sbagliate che hanno avuto effetti devastanti, perché intere generazioni si sono allontanate dalla chiesa. De Giorgi ritiene che Ratzinger abbia tentato di dare una risposta diversa, più moderna (nello spirito di Newman e di Rosmini, che egli ha beatificato) al neo-scetticismo, ma senza riuscirci. Ed ora è Francesco che, da questo punto di vista, si pone in continuità con Ratzinger, perseguendo l’intenzione di riformare la chiesa attraverso l’uscita missionaria. Dicendo che non contano le radici ma i frutti. E che i frutti sono l’amore verso tutti e il servizio ai poveri.
De Giorgi ha indicato, per tutti noi, tre prospettive a cui guardare e per le quali agire. La prima: orientarsi, con san Paolo della Lettera agli Efesini, alla “veritas in caritate”, cioè alla pastorale della misericordia, al cercare di entrare nelle dinamiche esistenziali e di senso delle persone e all’interno di essere cercare di far brillare il vangelo; è il primato kerigmatico su cui è orientato papa Francesco, un annuncio non dottrinale dell’evangelo. La seconda: orientarsi alla promozione umana, alla opposizione al neoliberismo che è tuttora egemone, secondo il percorso della Laudato si’. La terza: orientarsi ad una ecclesia semper reformanda, cioè disporsi a un permanente esame di coscienza, alla critica al clericalismo, a vitalizzare la ministerialità della chiesa, ad una visione escatologica per la quale è il Regno di Dio a giudicare la chiesa stessa.
Ma perché De Giorgi ha parlato, in ultima analisi, di un suo (mouneriano) ottimismo tragico nel guardare al futuro della chiesa? Perché egli ritiene che è assai probabile, quasi certa, una sorta di crollo della chiesa, di una sua esplosione (possibile già in questo o nel prossimo pontificato, ha detto); paragonabile a quella dell’Unione sovietica di alcuni decenni fa. Un crollo dovuto al rifiuto radicale, da parte della cultura moderna, di quanto (e non è poco) di totalitarismo resta ancora nella chiesa cattolica, e che il Vaticano II non è bastato a dissolvere. E però, come già Dossetti aveva sostenuto (lui che la crisi del modello totalizzante della chiesa aveva evidenziato fin dagli anni ’40) – e De Giorgi lo ha ricordato – non è affatto scritto nella Parola di Dio che la chiesa sia come un impero destinato ad allargarsi sempre di più. E, anzi, la kenosi ecclesiale, una sorta di svuotamento di sé, può essere in realtà l’annuncio, nella storia del XXI secolo, del Signore Gesù.
Fin qui Fulvio De Giorgi. I Viandanti, come tanti altri cristiani, nelle parrocchie e fuori, proseguono a interrogarsi su come affrontare le sfide del tempo presente.
Il futuro della chiesa. L’assemblea dei “Viandanti”, di Giampiero Forcesi, in “c3dem” – www.c3dem.it – del 5 ottobre 2018