Ubbidire, coercizione: Ubbidire è un verbo importante, significa adempiere la parola che mi è stata detta. L’ubbidienza richiede l’ascolto – udienza – e la fede (ho fiducia nel giusto che mi dici); non è la mera risposta a un ordine impartito. La tua parola per attuarsi ha bisogno di me: l’ubbidienza sigilla un legame. Eppure, ubbidire stabilisce un non equivocabile sistema di potere: una parola vale di per sé, non chiede dialogo ma atto. Mi è detto di fare una cosa, non di discutere se quella cosa sia più o meno buona. Per questo, l’ubbidienza si porge a un capo carismatico (che di me riassuma tutto e di più) o a un’idea, un valore, una necessità più vasta di chi ubbidisce e di chi pretende ubbidienza. Perché dovrei ubbidire ai limiti imposti per decreto dal Presidente del Consiglio dei Ministri? Egli non ha alcun carisma in grado di sopraffarmi. Però, credo che il sacrificio per la patria martoriata o il culto della salvaguardia della vita siano ragioni sufficienti per ubbidire.

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Gesù pone un problema. “Non crediate che sia venuto ad abrogare la legge o i profeti, non sono venuto ad abrogare ma a compiere” (Mt 5, 17), dice, eppure rompe le norme, comprese le restrizioni legate alla sacralità del sabato. Gesù ubbidisce alla Legge disubbidendo al legalismo, ‘compie’ la Legge disubbidendo alle norme. Trascende la legge, svilita in norma, mera ripetizione del consueto, per esaltarla.
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In garanzia d’ubbidienza, s’invoca la coercizione, misure più restrittive, coercitive, appunto. La coercizione è l’al di là dell’ubbidienza: visto che non ubbidisci – cioè, non mi ascolti – ti costringo a ubbidire. Coercizione significa, letteralmente, “l’obbligare altri a fare o non fare una cosa, usando la forza o minacciando d’usarla; coazione, costrizione, limitazione della libera volontà”. Il “commissario all’emergenza Coronavirus” della Regione Emilia-Romagna si è espresso ieri in questo modo: “rischiamo che questo servizio sanitario non riesca a fare fronte alle esigenze delle prossime settimane se voi non rimanete a casa vostra. E se non volete rimanere, credo che saremo costretti a prendere provvedimenti ancora più coercitivi. Non è più il tempo delle passeggiate di ‘cazzeggio’ perché nei prossimi 10 giorni ci stiamo giocando il futuro della salute di questo Paese”.
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Ambire a provvedimenti più coercitivi – azione che potrebbe avere, come effetto contrario, la disubbidienza di massa, perché l’uomo, per sua natura, costretto, esplode, anche a rischio di morte – mi manda a un libro meraviglioso e terribile. È stato forgiato in Cina – guarda un po’ – nel IV secolo prima di Cristo, da uno stratega, politico e militare passato al vaglio della dannazione (“parlare di lui insozza la bocca e la lingua”, scriverà il poeta Su Tung-p’o un millennio dopo). Eppure, pare che grazie ai precetti inclusi nel Libro del Signore di Shang il piccolo stato di Ch’in riuscì a primeggiare tra gli altri, con proficuo esercizio di ferocia.
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Il fatidico Signore di Shang è figura di spicco della corrente filosofica dei legisti che “nella loro teoria politica dissociano potere e moralità” e ritengono l’esercizio del potere “non più legato al valore personale del sovrano ma all’efficacia delle istituzioni, che fanno rispettare la legge e la posizione di forza” (Anne Cheng, Storia del pensiero cinese, 2000). L’antropologia di legisti è riassunta da un aforisma del Signore di Shang: “è nella natura degli uomini inseguire il profitto, così come l’acqua segue la linea di maggior pendenza; sono gli interessi egoistici a muovere gli uomini”.
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La regola del Signore di Shang per rendere efficace uno Stato è rapace: i sudditi devono ubbidire – anzi, inchinarsi senza incunearsi nell’ascolto –, ogni cittadino deve “fare la sua parte” (cioè, fare ciò che gli è imposto), la cultura è bandita (“Se lo studio si diffonde nel volgo la gente si darà ai dibattiti, alle parole altisonanti e alle discussioni fondate su false premesse… così il popolo si allontanerà dal sovrano e vi saranno folle di sudditi sleali”), la tradizione sterminata (“Aver cura della vecchiaia, vivere alle spalle degli altri, bellezza, amore, ambizione e condotta virtuosa: se questi sei parassiti riescono a far presa vi sarà smembramento”), in virtù di uno stato permanente di guerra, raffinando la dinamica della punizione (“Se si rendono pesanti le pene e lievi le ricompense il sovrano ama il suo popolo ed esso è disposto a morire per lui”).
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L’ubbidienza – con premio d’abnegazione – si ottiene assegnando pene severe a lievi mancanze: “se le trasgressioni lievi saranno considerate gravi, non ci saranno più punizioni, gli affari avranno successo”. Il Signore di Shang costruisce un sistema di polizia – le assi sono: esercito e agricoltura; armi di difesa e cibo per sfamarsi – consapevole che solo sotto minaccia è possibile vincere l’individuo. “Se lo Stato richiede poco dal popolo, il popolo sfuggirà anche al poco che gli si richiede”; “Se governi con punizioni, il popolo avrà paura; avendo paura, non commetterà scelleratezze e, non essendovi scelleratezze, la gente sarà felice per ciò di cui gode”.
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Lo Stato coercitivo è lecito, però, paradosso utile all’oggi, soltanto se il governo si avvicina uomini autorevoli, meritevoli. “I re intelligenti stimano importante ricompensare con titoli solo gli uomini di vero merito… Se ottenere titoli è facile, la gente non apprezzerà né i titoli massimi né gli altri; se emolumenti e ricompense non vengono ottenuti attraverso una porta ben precisa, la gente non si impegnerà fino alla morte per avere rango”.
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“La porta che conduce alle ricchezze e all’onore deve consistere nella guerra e in nient’altro”.
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Il Signore di Shang, nella sua truce utopia, è consapevole che l’individuo può non piegarsi. Può intendere la coercizione come prova. L’ubbidienza come pratica interiore, come attesa. “Chiunque faccia assegnamento sull’impero viene rifiutato dall’impero; chiunque faccia assegnamento su se stesso vince l’impero. Colui che vince l’impero è uno che considera suo primo dovere vincere se stesso; colui che ha successo nel conquistare un forte nemico è uno che considera suo primo dovere conquistare se stesso”. Che questo sia uno stato di guerra, è perfino inutile ribadirlo: a un nemico invisibile ne fanno seguito altri. (d.b.)
Pangea, Marzo 17, 2020
 
 
“Andrà tutto bene”: Forse è più opportuno domandarsi – non per vieta filosofia, ma per radicalità del reale – se stiamo tutti andando verso il bene.
Andare è verbo d’origine incerta, d’altronde è incerto anche il suo orientamento, la sua postura. Dove stiamo andando? Intanto, si va, chi vivrà vedrà. Con quale andamento andiamo, qual è l’andazzoUn andare senza direzione non è il vagabondaggio del folle di Dio – il suo zenit non riguarda l’orizzonte degli eventi, la sua sola ‘meta’ è lassù, è Dio; ciò che ai nostri occhi è un vagare in lui si chiama provvidenza – è semplicemente – disperatamente –, vagare nella vaghezza. 
Ad esempio. Ci è chiesto, anzi, ci è imposto un sacrificio, a causa di una emergenza – l’emersione dell’imprevisto. A un sacrificio, però, non si obbedisce: un sacrificio si compie. Senza parole accurate, adatte – e si è parlato, finora, di norme, restrizioni, punizioni, coercizioni – al sacrificio manca il sacro. Cioè, è inutile. Certo, la vita è sacra, ma la vita si può anche sacrificare – chiusi nel tabernacolo delle nostre case siamo ostie o una lacerazione in acido, simulacri, meridiane frustrazioni?

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Non andrà tutto bene perché per alcuni è andata male. Il bene non è mai per tutti, non è dappertutto – non ha a che fare con il tutto. E poi, così è il bene? Il sommo bene, il benessere, il benestare, il perbenismo? L’avverbio connesso all’aggettivo buono – ma… siamo tutti buoni? – significa, appunto, “in modo buono, retto, giusto, o conveniente, opportuno, vantaggioso, in modo insomma da dare soddisfazione piena”. Perché dovrebbe andare tutto bene? Piuttosto, siamo certi che tutto non deve andare come prima, come se niente fosse. Anzi, nulla sarà come prima. Siamo in grado di maneggiare parole che ustionano come bene e bontà“Esisteva un uomo buono? E se esisteva, come doveva essere? Era qualcuno che se ne stava in disparte oppure poteva muoversi liberamente in mezzo agli altri, reagire alle loro sfide ed essere ugualmente buono?”, si domandavano Elias Canetti ed Hermann Broch. Come si sa, i due riconoscono il prototipo del buono nel fatidico “dottor Sonne”. Costui, sapiente elettrizzato e pudico, poeta in oscurità di fama, “aveva riguardo verso tutto ciò che gli fosse vicino… il suo rispetto verso i limiti altrui era assoluto”. Sonne non parla del tutto, non specula sul bene, non ha dove andare: resta. Immutabile, in sé. Il suo andare nel bene, in relazione con il tutto, è verticale, in picchiata.
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Lucilio Santoni mi scrive una lettera sul perché non andrà tutto bene.
Everything is gonna be ok è la frase ricorrente nei filmacci americani. E noi l’abbiamo ripresa pari pari come fedeli sudditi di quella cultura: “andrà tutto bene”. Non ci siamo sforzati neppure di esprimere qualcosa in parole nostre. Tutti luoghi comuni e frasi fatte che ci piacciono molto. Con un lieto fine anticipato che ci rassicura. Invece, probabilmente, nothing is gonna be ok. Ci sono e ci saranno lacrime e sangue. Rimarranno ferite nella nostra anima e nella nostra mente.
Questo per dire che sono arcistufo di chi mette bandierine arcobaleno sui balconi, cioè di chi guarda la vita solo da lontano. Certo, se la guardi solo da lontano, la vita, con i suoi strepiti e le sue risate, è una commedia. Ma, se la guardi da vicino, ti accorgi che è una tragedia: di questo bisognerà cominciare a farsene una ragione, e nella tragedia quasi mai ‘va tutto bene’.
Tragedia è lo spaesamento di trovarsi al mondo, gettati sulla terra senza uno straccio di fondamento. Allora il deserto, la cancellazione, la cenere, il silenzio, diventano compagni di viaggio. Si preferisce rimanere zitti e in disparte. All’ubriacatura da immagini si sostituisce la sete di domande con le quali interrogare in primo luogo se stessi. E poi rifiutare il senso offerto bello e pronto; diffidare di tutto ciò che viene dato per certo; essere precari per stare più vicini agli altri. Inquietudine che diventa dialogo, accoglimento e comunità. Occupare uno spazio vuoto che, proprio in quanto tale, l’universo dell’uomo e l’infinito della sua anima vi trovino posto.
Se si è tragici, si può camminare nei cimiteri costituiti dai nostri cuori senza essere lugubri, anzi, si può danzare leggeri ai margini della sofferenza e del lutto, stando spensierati sull’uscio della casa segreta della morte prima che essa ci raggiunga.
Qualsiasi progetto di vita, per essere autentico, deve contemplare gli anfratti, le crepe, i terreni sconnessi. Non potendo più contare sulla solidità del sociale e sull’emancipazione, dobbiamo cercare lingue diverse, rudi, dialetti incomprensibili; dobbiamo accogliere gli indisciplinati, i claudicanti, coloro che camminano a un metro dal baratro e dalla poesia. In mancanza di governi stabili e di amministrazioni intelligenti, vanno coltivati i viandanti, i furibondi, i contemplativi. Guardare e divagare; abbandonando ogni riparo sicuro per abitare, invece, case dalle finestre rotte, con porte fuori dai gangheri, in un tempo che è fuori dai gangheri, come diceva il tragico Amleto.
In definitiva, quando la vita è davvero una questione aperta, fanno sorridere le incurie della politica, gli imbrogli delle istituzioni, le furbizie dei vicini di casa; quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate. Non importa se intorno ci sarà poca gente, ci saranno erbacce e tuguri, animali randagi e negozi chiusi; scuole cadenti e spiagge deserte. È lì che potremo frugare per cercare il nostro vitalizio di dignità. Nella disperazione cercheremo la speranza, nella solitudine una promessa di vita.
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Priva di cinismo e di istinto predatorio da provocazione, questa lettera dice, con sgargiante limpidezza, che c’è una regalità nel soffrire, che la vita va ammirata senza finzioni, come ciò che dilania e ama. Annientare la verità della vita con lo slogan spiccio non fa bene.
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Nelle strade vuote di uomini gli alberi sembrano camminare – per scavalcare il sonnifero del soffocamento dobbiamo guardare le stelle, che fiammano. Ricomporne le storie, austere, che come nodi legano le nostre caviglie all’indifferenza cosmica. Nel Mathnawi il grande poeta persiano Jalal-alDin-Rumi – cito la traduzione di Gabriele Mandel per Bompiani, 2006 – scrive:
Tranne l’amore del Signore generoso, tutto è in realtà tortura dello spirito, anche se sembra delizioso come zucchero.
Che cos’è la tortura dello spirito? È avanzare verso la morte e non riuscire a prendere l’Acqua della Vita.
Le persone fissano il loro sguardo sulla terra e sulla morte: hanno cento dubbi sull’Acqua e sulla Vita.
Fa sì che quei cento dubbi diventino novanta. Va’ nella notte, poiché così, se dormi, la notte si allontanerà da te.
Nella notte nera, cerca il Giorno; segui la Ragione che dissipa l’oscurità.
Nella notte dal colore sgradevole c’è un bene grande: l’Acqua della Vita si trova nelle tenebre.
Leggo frammenti di Rumi frantumandoli all’aria, sventolandoli dal balcone, perforando l’anonimo della sera. Le luci nelle case mi sembrano lettere di fuoco: qualcuno, nel garage, costruisce una sedia.
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Per andare a fare la spesa passo da un parco, nel gorgo di Riccione. Ora è chiuso. Pare un pezzo di giungla. Gli aironi stendono vasti nidi sugli alberi. Gridano. Il loro grido fa sanguinare il cielo – appena l’airone grida accade il tramonto. Un airone vola, con l’eleganza di una pittura. Ecco, la vita, il tutto, qualcosa che ha l’indecente parvenza del bene. (d.b.)
Pangea, Marzo 23, 2020