La vittoria agli Oscar di Parasite – il primo film non in inglese a vincere il premio più importante – è stata raccontata come un punto di svolta per il cinema mondiale e come il meritato successo di un regista tra i più capaci e inventivi al mondo, Bong Joon-ho. Le sue qualità e quelle del suo film sono state ampiamente riconosciute, ma Parasite non è saltato fuori dal nulla: esiste per ragioni storiche, sociali, politiche e culturali ed è, nonostante il suo successo internazionale, un film molto legato alla cinematografia della Corea del Sud, in cui è stato pensato, prodotto e girato.

Negli ultimi due decenni il cinema sudcoreano ha saputo farsi strada prima dentro i confini nazionali, poi in Asia e infine nel mondo. Fino agli anni Novanta, il cinema sudcoreano era in genere poco apprezzato e conosciuto, e quando si pensava a registi e titoli asiatici si pensava normalmente a quelli del cinema di Hong Kong, oppure a quello giapponese. Il cinema sudcoreano del nuovo millennio è invece riuscito a farsi apprezzare come «audace e vivace», in gran parte grazie alla sua capacità di presentare una «tagliente critica sociale», spesso ottenuta incastrando, mischiando, sovrapponendo e rielaborando tra loro generi diversi. Parlando spesso dei tanti problemi della Corea del Sud, ma in termini e con approcci che risultano comprensibili e accessibili anche a chi di quel paese sa poco o niente.

La Corea del Sud – un paese con 50 milioni di abitanti e una superficie che è un terzo di quella italiana – è da un po’ di tempo il quinto mercato cinematografico mondiale dietro a Stati Uniti, Cina, Giappone e Regno Unito. Ormai da qualche anno per le oltre tremila sale cinematografiche del paese vengono venduti più di 200 milioni di biglietti, circa la metà dei quali comprati da spettatori che guardano film sudcoreani. In Italia, dove ci sono alcune centinaia di cinema in più, nel 2019 gli spettatori sono stati la metà e i biglietti comprati per vedere film italiani meno di uno su quattro.
Oltre a Bong Joon-ho, i nuovi registi del cinema coreano i cui film sono usciti dai confini del loro paese sono stati principalmente Park Chan-wook, Kim Ki-duk, Na Hong-jin, Kim Jee-woon e Lee Chang-dong. Se i loro nomi possono dire poco, i titoli dei loro film sono forse più familiari: OldboyThe Handmaiden, Pietà e Burning – L’Amore Brucia o, tornando a Bong, Memories of Murder e The Host. Non sono certo film che conoscono tutti, ma sono comunque usciti dalle rassegne e dai festival, arrivando in un po’ di cinema e negli schermi di molti salotti.
Sebbene possa sembrare strano a chi consce almeno un po’ entrambe le cose, questo cinema ha anche alcuni punti di contatto con il principale prodotto di esportazione della cultura sudcoreana degli ultimi anni: il k-pop, il genere musicale dei BTS, una delle boy-band più popolari al mondo. Il cinema di cui Parasite è il più noto prodotto, la musica dei BTS e i kdrama televisivi sono infatti tutti parte di una corrente culturale nota come hallyu. È un neologismo dall’origine incerta di fine anni Novanta, ma prima di arrivarci è utile un po’ di contesto su tutto quello che c’era prima.
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Il primo film coreano vero e proprio – un film nazionalista, descritto come «metà cinema e metà teatro» – fu prodotto nel 1919, dopo che già da un paio di decenni nel paese erano stati aperti i primi cinema. In quell’anno il paese era già sotto l’occupazione giapponese e ci sarebbe rimasto fino alla Seconda guerra mondiale, in seguito alla quale ci fu la Guerra di Corea, che finì nel 1953 lasciando il paese diviso tra Nord e Sud lungo il 38º parallelo.
Negli anni Sessanta, la Corea del Sud ebbe una notevole crescita economica, diventando uno dei quattro paesi (gli altri sono Taiwan, Singapore e Hong Kong) che sarebbero poi stati definiti per questo le “tigri asiatiche“. Nella prima metà degli anni Sessanta anche il cinema sudcoreano ebbe il suo periodo d’oro, in parte frutto della maggiore libertà politica e della minore censura. Fu un periodo di libertà e sperimentazione che qualcuno ha messo in relazione con il neorealismo italiano o con il cinema polacco seguito alla fine del comunismo: il film più noto di questo periodo è Hanyo, spesso citato da Bong Joon-ho.

Questo breve periodo d’oro non fu notato granché fuori dalla Corea e soprattutto durò giusto un paio di anni, perché nel 1961 iniziò il regime autoritario di Park Chung-hee, che rimise in piedi una severa censura e usò il cinema soprattutto per scopi politici, con pesanti limitazioni all’arrivo nel paese di film stranieri. L’industria cinematografica continuò comunque a crescere, ma i film prodotti erano quasi sempre legati alla propaganda e non c’era alcun interesse nel farli girare fuori dai confini del paese. Il cinema sudcoreano non arrivò mai a produrre film di vera fama internazionale o autori conosciuti in tutto il mondo.
Negli anni Ottanta, dopo la fine del regime di Park Chung-hee, ci fu un progressivo ritorno della democrazia e il cinema sudcoreano tornò quindi ad avere maggiori libertà. Ma la vera svolta arrivò negli anni Novanta: in parte grazie a una perdita di importanza e influenza del cinema di Hong Kong (che nel 1997 passò dal Regno Unito alla Cina), in parte grazie a una serie di politiche che incentivarono il cinema nazionale, in parte perché il cinema sudcoreano seppe proporre qualcosa di nuovo, che metteva insieme in modo non comune il tradizionale e il moderno.
I registi e le registe della Corea del Sud si trovarono quindi in un contesto in cui l’industria cinematografica era sufficientemente moderna e sviluppata e in cui era ancora in vigore una legge che imponeva ai cinema di mostrare film sudcoreani 146 giorni l’anno. Il tutto, però, in un contesto di democratica apertura a quel che arrivava dall’estero, con una serie di incentivi e leggi fatte per favorire la crescita di una nuova cinematografia. I nuovi registi sudcoreani, nati tra gli anni Sessanta e i Settanta, colsero così l’occasione per raccontare un passato turbolento e un presente ancora complicato, dopo aver potuto vedere quel che veniva fatto nel resto del mondo e senza più i vincoli in vigore mentre erano cresciuti.
Non era affatto scontato che a un successo nazionale ne dovesse seguire uno continentale e poi mondiale, ma in quegli anni cominciò a svilupparsi la hallyu: «la nouvelle vague coreana, che rappresentò la potente rinascita artistica del paese» (Wired); «un fenomeno socio-culturale che ha permesso alla Corea del Sud di diventare uno degli epicentri della cultura pop a livello mondiale» (Treccani); «un movimento – chiamiamolo “new wave” – di rinascita economica e culturale che a cavallo dei due millenni dalla penisola coreana ha irradiato verso il resto del mondo usi, costumi e consumi» (Il Tascabile).
Il successo della cultura hallyu non è stato pianificato, è semplicemente qualcosa che è capitato, grazie a una serie di favorevoli condizioni politiche, economiche e tecnologiche che portarono a una crescita interna in Corea del Sud e, grazie a internet, a una facile diffusione di certi suoi prodotti culturali in paesi come il Giappone e la Cina, con cui negli anni Novanta ci fu un parziale riavvicinamento. Non ci fu un solo momento, una sola serie tv o un solo film ad avviare la hallyu e in realtà non è nemmeno facile individuare tanti fattori comuni tra diversi prodotti coreani, perché in effetti Parasite sembra avere molto poco in comune con la musica dei BTS.
La hallyu va quindi intesa come una generale passione per gran parte di ciò che è coreano, e che lo è in quanto capace di unire tante cose tra loro diverse, chiaramente locali ma anche capaci di piacere in altri contesti e in altre culture. La hallyu è una moda che negli anni il governo sudcoreano ha coltivato, favorito e incentivato.
«Il k-pop, i k-drama, la k-beauty e la k-cuisine», ha scritto The Conversation, «sono tutte cose che hanno avuto il loro successo internazionale, prima in Cina, poi in Asia e infine in Occidente». E ancora prima, come ha scritto Emanuele Sacchi sul Tascabile, «l’ascesa della Samsung da un lato e di “Gangnam Style” di Psy dall’altro sono figli della medesima euforia di un popolo oppresso per secoli e infine desideroso di esportare la propria originale way of life».
Il cinema sudcoreano – chiamato talvolta Hallyuwood – è quindi solo una parte di questo fenomeno. Secondo Bong Joon-ho, una parte nemmeno troppo grande, perché dopo aver vinto l’Oscar per Parasite ha detto: «Penso che i BTS siano 300 volte più influenti di me». Ma è molto probabile che la stima di Bong sia eccessivamente al ribasso, specialmente se fatta dopo che il suo film ha vinto l’Oscar. Anche perché il cinema è una parte del tutto che, proprio per le caratteristiche del cinema, è forse più facile da comprendere. Perché per comprendere un film sudcoreano, anche uno dei tanti non doppiati in italiano, è sufficiente, come ha detto Bong Joon-ho, superare «la barriera di pochi centimetri rappresentata dai sottotitoli».
Agata Lulkowska, professoressa di produzione cinematografica ed esperta di cinema asiatico, ha spiegato a GQ che il «primo esempio di film coreano comparabile a un blockbuster di Hollywood fu Swiri, un film che «in Corea del Sud ebbe più successo di Titanic». Un thriller d’azione, in cui il nemico da fermare è un’assassina nordcoreana. Swiri è spesso citato insieme a Joint Security Area, un film diretto da Park Chan-wook sulle indagini successive a un incidente nella zona demilitarizzata tra le due Coree (il cui DVD, a quanto pare, fu fatto avere al leader nordcoreano Kim Jong-il). Fu un altro grande successo nel paese e iniziò a farsi strada anche fuori: ne parlò, per esempio, Quentin Tarantino.

È però probabile che i non cinefili abbiamo sentito parlare per la prima volta di cinema sudcoreano grazie a Oldboy, un thriller neo-noir, anch’esso diretto da Park Chan-wook, tratto da un omonimo manga giapponese e adattato al contesto sudocoreano. Parla di un uomo misteriosamente incarcerato per 15 anni e che, una volta liberato, ha pochi giorni per capire cos’è successo. È un film violento e intenso che vinse il Gran premio della Giura a Cannes, che fu in seguito rifatto da Spike Lee che insieme ad altri due film di Park Chan-wook – Mr. Vendetta e Lady Vendetta – fa parte, per l’appunto, della trilogia della vendetta.

Il cinema sudcoreano iniziò quindi a farsi conoscere parlando esplicitamente della sempre molto presente questione dei rapporti con il Nord, distinguendosi per il suo “Extreme Cinema“, un sottogenere molto legato al cinema asiatico di film particolarmente violenti ed espliciti. Le questioni del rapporto con la Corea del Nord e i pochi problemi nel mostrare scene violente sono spesso rimasti presenti in gran parte del cinema coreano, che però ha saputo anche toccare altri temi e stili.
È il caso di polizieschi come Memories of Murders e film di fantascienza come The Host, entrambi di Bong Joon-ho, ma anche di film d’animazione come The King of Pig, horror come Train to Busan, sentimentali come Castaway on the Moon, di guerra come Brothers of War – Sotto due bandiere e persino di film meno d’autore e da festival cinematografico, ma dagli ottimi incassi, come L’impero e la gloria – Roaring Currents o nei due Along with the Gods (tra i più visti di sempre nel cinema sudcoreano).

Mentre Bong Joon-ho girava in inglese Snowpiercer e Okja, il cinema sudcoreano continuava a superare i confini nazionali con altri film, in particolare con The Handmaiden, thriller erotico ispirato al romanzo inglese Ladra e con il drammatico ed enigmatico Burning – L’Amore Brucia, adattato da un racconto di Haruki Murakami. Due film indubbiamente coreani, che però sono tratti da storie straniere, e che sono riusciti a farsi notare in diversi festival e da un rilevante numero di spettatori anche fuori dal proprio paese. Due film che, insieme a Parasite, hanno avuto una notevole importanza nel determinare all’estero la percezione di quello che è diventato il cinema sudcoreano.

Come ha scritto Inverse, i film sudcoreani degli ultimi vent’anni circa possono essere «film di spionaggio o commedie romantiche, o film con mostri, zombie e vampiri, ma hanno sempre rielaborato i soggetti con un gusto coreano, per parlare di un paese, e di un popolo, che era stato lasciato indietro dall’economia globale e che ha saputo riemergere grazie alla tecnologia». I film sudcoreani, se ne è accorto chi ha visto Parasite, non solo mischiano e rielaborano i generi, ma saltano anche da uno all’altro con grande disinvoltura e naturalezza.
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Possono esserci, come ha spiegato Lorenza Negri su Wired, film storici e in costume di ispirazione cinese o giapponese, film di fantascienza, «horror autoriali e a sfondo sociale», «gangster movie e revenge movie (film sui gangster onorevoli pieni di sangue e violenza)», ma anche «film che indagano l’altra parte della barricata – quella della polizia, spesso corrotta o inetta, o della procura». Negri parla anche di registi «cresciuti a pane e cinema di Hong Kong» e scrive che nei film della hallyu sono emblematiche «le centinaia di volte in cui A Better Tomorrow di John Woo viene citato in lungometraggi e serie».
Ma sono anche film che, spesso partendo dai generi più inattesi, negli ultimi dieci anni circa hanno iniziato a raccontare questioni sociali e, come ha spiegato Lulkowska, «a esplorare i lati oscuri dell’esperienza umana», in film «spiazzanti, che mischiano il dark humour con elementi di estrema violenza, spesso con una sontuosa fotografia e alte competenze tecniche». Quasi tutti i migliori film coreani degli ultimi anni – anche quelli girati in inglese come Okja e Snowpiercer – sono chiaramente coreani e non hollywoodiani perché i registi della hallyu coreana in genere «respingono l’hollywoodizzazione» e «osano andare dove i film occidentali a volte hanno paura di avventurarsi».
Parlando del successo sudcoreano degli ultimi anni, Lulkowska ha detto che «sembra essere un processo naturale più che un freddo calcolo» perché è semplicemente successo che quel cinema – «molto diverso dal resto del cinema asiatico» – abbia incontrato i gusti di una rilevante fetta di spettatori stranieri. Come succede per Parasite, si tratta in molti casi di film con tanti riferimenti che un pubblico non coreano non riesce a cogliere.
Bong, per esempio, ha spiegato all’Atlantic che nel film a un certo punto si vede un negozio taiwanese di dolci e che «se sei coreano o di Taiwan, capisci subito cos’è» e che è un riferimento a un «grande incidente economico per la società sudcoreana», ma che se sei «uno spettatore occidentale, non lo capisci». È anche vero che in Parasite, anche se si mangia jjapaguri e non pizza o hamburger, si parla di temi che possono capire tutti, e la casa in cui si svolge la gran parte del film potrebbe essere ovunque nel mondo. Bong ha aggiunto, comunque, di non sapere come mai Parasite abbia avuto così tanto successo ma che non pensa sia dovuto al fatto che si tratti di una storia di poveri contro ricchi, perché «ci sono stati così tanti film e così tante serie su quello stesso argomento».
Nel provare a spiegare le ragioni del successo del cinema sudcoreano, Song Kang-ho, il suo attore più noto, il signor Kim di Parasite, è partito da lontano, e intervistato da Vulture ha detto:

«Siamo un paese molto piccolo, ma abbiamo una storia lunga e tormentata. Non è mai stato facile essere coreani, siamo stati invasi più volte, e, come si sa, siamo un paese diviso in due. Sotto tanti punti di vista, il paese è nel caos ancora adesso, politicamente, socialmente e culturalmente. Per vivere, serve intensità. Non è la California, dove ci sono pace e abbondanza. La Corea è diversa. In 5mila anni di storia, abbiamo dovuto superare molte sfide, e nel superarle siamo diventati più forti, e gli artisti sentono questa cosa».

Bong è stato più sintetico e, nel rispondere a una domanda simile ha detto:

«Penso che la Corea stia producendo molti grandi artisti perché siamo persone emotivamente dinamiche».

Quel che è certo è che negli anni Novanta nessuno avrebbe potuto prevedere la portata del successo mondiale della cultura sudcoreana, cinema compreso. E l’Oscar vinto da Parasite è senza dubbio qualcosa di storico a cui, seppur in un altro tempo, non riuscirono ad arrivare nemmeno i migliori film delle migliori correnti cinematografiche europee.
La crescita del cinema sudcoreano però non è stata per niente facile nemmeno negli ultimi anni, quelli del successo. Anche in questo secolo, infatti, il cinema sudcoreano ha avuto i suoi problemi: uno riguarda le recenti difficoltà di esportazione in Cina di certi suoi film, data la vicinanza politica tra Corea del Sud e Stati Uniti; un altro, qualche anno dopo il Duemila, ebbe a che fare con una progressiva crisi dell’Extreme Cinema; un altro ancora fu l’esistenza, per diversi anni, di una “lista nera“, con migliaia di nomi di persone considerate problematiche per il governo, di cui si parlò qualche anno fa. Se ne venne a conoscenza quando al governo c’era Park Geun-hye, figlia di Park Chung-hee (al potere negli anni Sessanta e Settanta) e a sua volta presidente dal 2013 al 2017, che poi si dimise, fu arrestata e ora è in carcere.