Avviamo questo articolo facendo riferimento alle parole di San Paolo: “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.” (Rm 7,18-19)
Il “desiderio del bene”, poiché l’agire umano è orientato alla capacità di attuarlo, equivale al desiderio di felicità, intesa come “bene desiderabile” in quanto soddisfazione di un bisogno interiore (stando a San Paolo, una capacità non insita nell’uomo, a differenza del desiderio del bene); questo lo si dà come assunto e senza pretendere di stabilire in cosa consista questo oggetto del desiderio detto “felicità”.
Sant’Agostino, nel De civitate Dei (XIV,4) afferma dell’uomo che “egli vuole essere felice anche vivendo in modo da non esserlo”. Proprio in questa tensione tra il volere positivo (essere felice) e l’agire negativo (non esserlo) sta il nodo della moralità.
Etimologicamente, dobbiamo a Cicerone e al suo De officiis (Dei doveri) l’idea di “moralità” come azione legata ai costumi (dal Latino mos, moris) cioè al vivere pratico. In concreto, ci stiamo avvicinando all’idea di un intelletto capace di distinguere tra il bene e il male e dunque ad una connotazione valoriale delle azioni umane. Se si vuole, andiamo ad indagare su “come si muove” il libero arbitrio, ovvero – con termini di uso comune – indaghiamo sulla percezione della responsabilità e della consapevolezza critica delle azioni, nonché su quale risonanza ermeneutica abbiano nella società.
È d’attualità la questione del “bullismo” e ci si preoccupa, all’interno delle scuole di ogni ordine e grado, di porre un freno a tale fenomeno comportamentale. Non è, forse, il comportamento riconducibile alla questione dell’agire morale? Il vivere pratico è regolato da una scala valoriale – non necessariamente religiosa ma anche solo civica – cui corrispondono le azioni ed esse si possono qualificare come più o meno “buone”, corrette o positive, esclusivamente se riferite ad essa; quando la percezione di questa gradazione non è definita, si offusca il senso morale e prevale una “utilità” individuale che prescinde da ogni regola annullando il riferimento ai diritti e doveri che regolano la vita di qualunque società.
 
– La questione dell’educazione alla moralità
Nell’attuale contesto sociale, nel quale prende piede e si esalta la soggettività come tendenza culturale all’isolamento, con ripercussioni anche in ambito religioso (la religione come fatto privato), è necessario trovare un approccio educativo in grado di aprire orizzonti di senso che portino la persona ad una nuova progettualità che la riconnetta alla globalità delle interazioni della propria esperienza quotidiana: ciò che “io” faccio, non ha valore solo per “me” ma si ripercuote nella società; “io” sono connesso col mondo se e solo se vivo come essere in relazione e la mia esperienza è positiva – per “me” e per gli “altri” – se è fatta di azioni consapevolmente morali.
Sotto il profilo epistemologico, “educare alla moralità” equivale ad un impegno nella prassi – sia sociale che ecclesiale (per quanto riguarda i credenti) – che abbia come oggetto specifico la riflessione storico-antropologica sulle dimensioni costitutive di ciascuna azione umana e il cui telos (finalità orientata) sia una formazione all’intenzionalità operativa ispirata ai valori morali convergenti nell’etica sociale.
In ambito ecclesiale, questo è declinato in una visione kairologica della pastorale, che mette in relazione l’agire umano e la “salvezza”, allargando la prospettiva da una fase di analisi e valutazione delle azioni ad una di progettazione e attuazione ispirata dalla presenza dello Spirito nella concretezza della vita. La razionalità umana e la fede, elementi di per sé distinti, in questa prospettiva si intrecciano nel discernimento. Ciò vuol dire che l’azione morale è legata ad una coscienza ben formata, ad una visione cioè che interpella la consapevolezza sia di sé che del valore etico di una azione, nella prospettiva di quella realizzazione del “desiderio di bene” descritto da San Paolo nella lettera ai Romani e che, seguendo Agostino, si concretizza nella “felicità”.
L’anelito di felicità, ossia il desiderio di ottenere una vita pienamente appagante, è da sempre profondamente radicato nel cuore umano. La realizzazione di questo desiderio dipende in gran parte dal proprio agire che si incontra e, spesso, si scontra con quello degli altri. [1]
Antropologia e teologia si compenetrano, vanno cioè a toccare lo stesso oggetto per scoprire l’uomo impegnato nella realizzazione di sé. Questa realizzazione di sé è però assoluta oppure deve misurarsi con quella degli altri? È un nocciolo duro, poiché l’essere umano è essenzialmente “essere in relazione”; se per il cristiano il riferimento alla Sacra Scrittura è imprescindibile nella costruzione di un giusto agire morale, svincolando la riflessione da atteggiamenti di fede emergono obiezioni che a livello sociale si configurano come adesione o rifiuto ad una serie di norme, le quali si presentano come regole per la convivenza civile.
Spostando l’attenzione dalla prospettiva ecclesiale a quella delle scienze umane, in una visione strutturalista della società la “struttura del comportamento”[2] si giustifica come “struttura di una situazione”, ovvero si basa sull’esperienza pratica collegata all’osservazione; risulta interessante che l’apprendimento acquisito – in termini di strutturalismo – è un apprendimento contestualizzato. Detto in altri termini, è dalla struttura della società che si apprendono operativamente le strutture comportamentali della società stessa.
 
– Il contributo dell’IRC a una didattica dei valori
Consapevoli di un rapporto di differenza e complementarietà fra l’educazione ecclesiale detta “catechesi”, la quale mira alla crescita “nella” fede dei membri della comunità credente, e l’educazione scolastica indicata come Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) che prescinde dall’appartenenza ecclesiale dei discenti e si offre a tutti, cristiani e non cristiani, credenti o meno, come esplorazione della dimensione religiosa, basata su presupposti pedagogico-didattici nelle finalità della scuola e alla luce della cultura cattolica, ci chiediamo quale possa essere il contributo di quest’ultima (la disciplina scolastica di IRC) ad una didattica dei valori.
Il contributo dell’IRC a una didattica dei valori è evidente nella normativa[3], che vuole tale insegnamento come occasione di sviluppo integrale della persona e di valorizzazione, contribuendo alla costruzione di una risposta al bisogno di significato di cui anche i bambini sono portatori. L’insegnante di religione pone grande attenzione alla dimensione valoriale, sia nella relazione interpersonale docente-alunno che tra pari, sia nell’affrontare i contenuti didattici della propria disciplina e l’IRC come disciplina scolastica fa esplicitamente riferimento alla dimensione etica e morale, riconoscendola parte importante nella formazione integrale della personalità del bambino, contribuendo ad una apertura verso l’altro nella varietà culturale e religiosa della società contemporanea.
 
Nello specifico, il Dpr 11/02/2010 n. 105 GU nei Traguardi per lo sviluppo degli apprendimenti di IRC fa più volte riferimento ai valori.
– Scuola dell’Infanzia
Nell’introduzione:
Le attività in ordine all’insegnamento della religione cattolica, per coloro che se ne avvalgono, offrono occasioni per lo sviluppo integrale della personalità dei bambini, aprendo alla dimensione religiosa e valorizzandola, promuovendo la riflessione sul loro patrimonio di esperienze e contribuendo a rispondere al bisogno di significato di cui anch’essi sono portatori.
Nei  campi di esperienza
“Il sé e l’altro”:
…per sviluppare un positivo senso di sé e sperimentare relazioni serene con gli altri, anche appartenenti a differenti tradizioni culturali e religiose.
“La conoscenza del mondo”:
…per sviluppare sentimenti di responsabilità nei confronti della realtà, abitandola con fiducia e speranza.
 
– Primo ciclo d’istruzione
“Religione cattolica”
…Il confronto, poi, con la forma storica della religione cattolica svolge un ruolo fondamentale e costruttivo per la convivenza civile, in quanto permette di cogliere importanti aspetti dell’identità culturale di appartenenza e aiuta le relazioni e i rapporti tra persone di culture e religioni differenti. La religione cattolica è parte costitutiva del patrimonio storico, culturale ed umano della società italiana…
La proposta educativa dell’Irc consente la riflessione sui grandi interrogativi posti dalla condizione umana (ricerca identitaria, vita di relazione, complessità del reale, bene e male, scelte di valore, origine e fine della vita, radicali domande di senso…) e sollecita il confronto con la risposta maturata nella tradizione cristiana nel rispetto del processo di crescita della persona e con modalità differenziate a seconda della specifica fascia d’età, approfondendo le implicazioni antropologiche, sociali e valoriali, e promuovendo un confronto mediante il quale la persona, nell’esercizio della propria libertà, riflette e si orienta per la scelta di un responsabile progetto di vita. Emerge così un ulteriore contributo dell’Irc alla formazione di persone capaci di dialogo e di rispetto delle differenze, di comportamenti di reciproca comprensione, in un contesto di pluralismo culturale e religioso.
Tra gli “ambiti tematici” in cui si articolano gli obiettivi di apprendimento di IRC, c’è da evidenziare l’ultimo:
i valori etici e religiosi, per illustrare il legame che unisce gli elementi squisitamente religiosi con la crescita del senso morale e lo sviluppo di una convivenza civile, responsabile e solidale.
 
– Prospettive metodologiche (DEE, Flow DEE, altri approcci)
In considerazione che l’impostazione di una didattica “dei valori” è trasversale alle discipline scolastiche ma appartiene, più in generale, alla responsabilità educativa della società, occorre trovare delle prospettive metodologiche aperte poiché la “valorizzazione” interpella l’essere individuale e la sua capacità di relazionarsi positivamente con l’altro da sé.
Si diceva prima della “struttura del comportamento” come “struttura di una situazione”, per cui in ambito strutturalista è il modello della società a dare una struttura al comportamento ma, se si cambiasse il riferimento organizzativo, il comportamento appreso non sarebbe automaticamente applicabile in una struttura diversa.
Spostandoci in ambito comportamentista, guardando al behaviorismo di Skinner ad esempio, ci troviamo ad affrontare una dinamica di stimolo e risposta, per cui il comportamento è dovuto ad un condizionamento operante del contesto, in cui esso è appreso come risposta allo stimolo; bisognerà quindi distinguere tra un comportamento “rispondente” ed uno “operante”, il primo come riflesso innato mentre il secondo come frutto di un condizionamento operante e quest’ultimo dunque si configura come apprendimento creato dall’associazione stimolo-risposta.
Andando alla prospettiva ermeneutico-esistenziale, il comportamento rientra in un processo di apprendimento di cui il soggetto è protagonista. In questa prospettiva, assumono importanza le esperienze vissute. “Ogni volta che due persone, due civiltà o due religioni si incontrano e si confrontano, il risultato è sempre di reciproco arricchimento”[4] per cui entrare in un rapporto positivo è parte della dinamica del processo ermeneutico.
A seconda della visione psico-pedagogica cui si aderisce, cambierà l’impostazione metodologica della didattica. Se ci si appoggia allo strutturalismo, occorre impostare una metodologia introspettiva così da individuare le “strutture interiori” che fanno emergere determinati comportamenti. Qualora invece si faccia propria la visione behaviorista, si procederà per osservazioni, condizionamenti e “rinforzi”, onde stimolare i comportamenti positivi nell’alunno.
Andando al filone ermeneutico-esistenziale, diventa invece fondamentale la centralità del vissuto del soggetto. Come per San Paolo gli avvenimenti di Israele sono “tipologici” (1Cor 10,6.11) per noi, così le esperienze poste come stimolo diventano modelli che anticipano la realtà, fornendo un valore che gli alunni ritrovano in sé stessi.
DEE: cercando di essere concreti, una didattica dei valori all’interno della didattica ermeneutica esistenziale pone l’alunno di fronte alla visualizzazione di comportamenti possibili (piccoli episodi/drammatizzazioni proposti attraverso la LIM), compatibili con la propria esperienza di vita; da questi episodi ricava le affinità e le differenze col proprio vissuto e costruisce un ventaglio di possibili “finali” alle storie presentate, cogliendo quali siano le variazioni positive e catalogabili entro lo schema dei comportamenti moralmente validi.
Flow DEE: facendo emergere dal vissuto, reale o possibile, esempi di comportamenti moralmente positivi o meno, in gruppi di lavoro si elaborano approcci al “problema” che sviluppino un taglio differenziato secondo l’area sensoriale che si vuole stimolare. Il “flusso di esperienze” avviene nella condivisione dei diversi approcci, che possono utilmente ricorrere alle TIC come pure alla manualità. Le diverse forme di apprendimento attivo convergenti contribuiscono ad una visione metacognitiva e spendibile nella vita come comportamento ispirato a valori oggettivamente compresi e condivisi.
 
Note
[1] Bibbia e morale, radici bibliche dell’agire cristiano, Pontificia commissione Biblica, 2008 http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_20080511_bibbia-e-morale_it.html#Introduzione
[2] Si veda in proposito Merleau-Ponty, Maurice, La structure du comportement, Presses Universitaries de France, Paris 1953Ȝ.
[3] Cfr. Dpr 11/02/2010, Integrazioni alle Indicazioni per il curriculo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione relative all’insegnamento della religione cattolica.
[4] Zelindo Trenti, Manuale dell’insegnante di religione, competenza e professionalità, Elledici, Torino 2004.
Gaspare Adamo