Lo spazio e il tempo della globalizzazione sono segnati da profonde ferite morali che non solo non trovano soluzione, ma spesso non incontrano neppure adeguata consapevolezza. L’attualissima centralità dei temi ambientali nella discussione pubblica, ad esempio, non può non coinvolgere l’etica nella misura in cui la situazione esistente è determinata dall’agire umano. A differenza di quanto avveniva in età pre-tecnologica, infatti, l’uomo porta ad un livello insopportabile la vulnerabilità della natura. Il che esige sia l’assunzione di un’etica della responsabilità sul mondo non-umano, sia un’attenzione rivolta alla posterità, con la preoccupazione di garantire la sopravvivenza della specie umana sulla terra.
Nel contempo, si rivela in modo emblematico la tensione fra la necessità di prospettive universalmente condivise e universalmente fondate, e rivendicazioni particolaristiche, che a volte rispondono a meri interessi di parte, a volte sono la legittima espressione di istanze che chiedono la tutela di minoranze altrimenti destinate a soccombere. In altri termini, esistono valori morali oggettivi, indipendenti da singoli soggetti (individui, comunità, culture, …), sui quali regolare la vita della comunità umana; e se esistono, sono adeguatamente giustificati? Oppure i valori sono una questione di gusto e di volontà individuali, e per questo sono tutti egualmente legittimi, per quanto contraddittori?
Questi interrogativi implicano di affrontare il ben noto tema del relativismo, secondo alcuni nobilitato nel concetto di “pluralismo”, secondo altri l’inevitabile cifra morale dell’età postmoderna e del cosiddetto pensiero debole, certamente il tratto caratteristico della cultura libertaria e radicale. Il suo presupposto è che una cosa è il mondo là fuori, indipendente dall’intervento della mente umana, altra cosa è la verità. Nell’un caso il mondo, con i suoi fenomeni, è l’effetto di cause che prescindono dagli stati mentali dell’uomo; nell’altro, la verità dipende dagli enunciati del linguaggio degli uomini, è una descrizione del mondo. Mentre il mondo non è vero o falso, per il semplice fatto che c’è, la verità, in quanto descrizione del mondo, può essere vera o falsa. I valori morali apparterrebbero a questa seconda sfera: creazione degli uomini in diverse situazioni sociali, culturali, storiche, suscettibili di mutamenti, a seconda delle singole volontà, piaceri, opportunità, gusti, strategie, … Il relativismo morale è uno dei sintomi più evidenti di quello che Charles Taylor chiama “il disagio dell’immanenza”, ossia la condizione dell’uomo contemporaneo che risolve il mondo entro l’orizzonte del proprio io, escludendo ogni possibilità di vivere per una causa che lo trascende. Se da un lato ciò implica un senso di fiducia in se stesso, perfino di invulnerabilità, dall’altro rivela che al di là di me stesso non esiste alcunché, alcun senso, alcuna prospettiva.
Sulla scomparsa della trascendenza dalla scena dell’etica si sofferma il bel volume di Roberta De Monticelli, Al di qua del bene e del male, che si apre con la denuncia della banalità del male pubblico, ossia di quel male che attraversa la convivenza che si direbbe “civile”, ma che civile rischia di non esserlo affatto per la mancanza dei requisiti necessari. Il male banale, definizione mutuata dal celebre resoconto che Hannah Arendt scrisse del processo al criminale nazista Adolf Eichmann, La banalità del male (1963), si nasconde nelle pieghe della vita ordinaria e quotidiana, al punto che ne siamo del tutto indifferenti, non siamo in grado di riconoscerlo se non dopo che si è compiuto, ossia dai suoi effetti. Siamo ciechi al disvalore associato ai fatti e, viceversa, non siamo in grado di riconoscere il valore nei fatti. Questa indifferenza è il segno della incapacità di pensare in termini etici, il che, dato che l’uomo è per se stesso un soggetto morale, costituisce il presupposto per la nostra destituzione dall’umanità. In sostanza, non siamo più capaci di fare esperienza del valore o del disvalore, in sé trascendente, ma incarnato nei fatti. Il venir meno dell’esperienza della bellezza, ad esempio, si traduce nella indifferenza al brutto. Non si tratta però di una semplice riduzione della sensibilità affettiva ed emotiva, ma della anestetizzazione del dolore e di una vera e propria apatia, sostenuta da un accresciuto deficit di coscienza morale e di conoscenze. La ricaduta sulla convivenza civile è facilmente immaginabile: la rimozione del valore o disvalore dai fatti ne mina le fondamenta;
l’indifferenza favorisce la massificazione; i legami comunitari si sciolgono; le reti di interlocuzione si svuotano di contenuti di esistenza per ridursi a mero scambio verbale.
A fronte di questo quadro proponiamo le linee generali per tre piste di riflessione: un’etica fenomenologica, un’etica della coscienza, un’etica della responsabilità. De Monticelli, in base al presupposto fenomenologico di descrivere le cose come sono in se stesse, osserva che è “impossibile speculare di valori a prescindere dalla presenza dei beni e dei mali che li incarnano esemplarmente”, ossia dei fatti come si presentano alla nostra esperienza. Così, il valore dell’eleganza non può essere colto se non in una stanza elegante, un’andatura elegante, una mise elegante, tutti beni o fatti in cui qualcosa che diciamo “eleganza” si intuisce come invariabile. Analogamente il valore dell’amicizia si incarna in questa nostra amicizia, con una storia propria, con gesti e atteggiamenti nostri. Ma ciò che rende “amicizia” tutti questi fatti, sono dei vincoli che li trascendono: lealtà, sincerità, fedeltà, franchezza, caratteri intrinsecamente normativi rispetto all’amicizia, nel senso che, se venissero meno, verrebbe meno anche l’amicizia. I limiti dell’amicizia, dunque, non sono quelli determinati dal fatto della nostra amicizia, ma dal valore dell’amicizia in sé, che trascende il fatto della nostra amicizia che ne è la manifestazione. Ciò implica una disposizione verso i fatti di cui facciamo esperienza, caratterizzata da attenzione, valutazione, conoscenza intellettuale e sensibilità emotiva, fattori che potranno maturare solo attraverso adeguati processi educativi.
Un’analoga profonda formazione richiede un’etica che assuma la coscienza personale come criterio di valutazione morale, non in un senso utilitaristico né libertario, per cui la coscienza sarebbe contraffatta secondo una misura meramente umana e individualistica, autoreferenziale e perfino narcisistica. Ma una coscienza riconosciuta come una realtà a priori, indipendente dall’individualità umana: non un’umanità generale, come lo “spettatore imparziale” di Adam Smith, alla luce della quale si decide, si agisce, si valuta. Piuttosto, l’eco della voce di Dio, che dimora nella profondità della persona senza tuttavia ridursi ad essa. Come insegna John Henry Newman, da un lato, essa è atto del giudizio morale, sanzione oggettiva, immutabile, verità dell’obbligazione; dall’altro, è espressione di quella facoltà, sentimento soggettivo, mutevole a seconda dei casi, suscettibile di errore. Qui la dimensione oggettiva della verità dell’Eterno si declina nella sfera soggettiva della persona, certamente non senza difficoltà né incertezze, ma nella consapevolezza di dover rispondere a Qualcuno di più alto dell’essere umano.
Infine, l’etica della responsabilità, com’è stata elaborata soprattutto da Hans Jonas. Una precisazione etimologica aiuterà a coglierne la portata: “responsabilità” non significa solo “rispondere” delle proprie azioni e delle loro conseguenze, ma anche “promettere vicendevolmente”, “corrispondere”, “comparire” in giudizio. Cosicché essere responsabili non implica solo il significato giuridico della riparazione al danno arrecato dagli effetti della propria azione; ma, nella sua accezione morale, riconoscere, insieme al senso della propria colpevolezza, il bene umano ad essa associato, il vincolo del valore o disvalore di cui è portatrice la mia azione. In questo senso, osserva Jonas, archetipo di ogni responsabilità è quella dei genitori per i figli: in essa la normatività dell’agire scaturisce dalla normatività dell’essere. L’“è” del neonato coincide con un “deve essere”, un respiro di vita che si traduce in imperativo cogente per l’ambiente circostante, perché se ne prenda cura: “Il lattante unisce in sé il potere autolegittimantesi del già-esserci e l’impotenza esigente del non-essere ancora […] l’immanente dover essere del lattante, che si manifesta in ogni suo respiro, diventa il dover fare transitivo di altri che soli possono favorirne costantemente la pretesa […] è proprio a questo, nella sua unicità assolutamente contingente che si rivolge la responsabilità”. Parte essenziale di questa responsabilità è rivolta alle condizioni che rendono possibile la vita di quel lattante in tutte le sue forme e nel suo sviluppo, in primo luogo l’ambiente al quale egli è dato con la nascita. Così l’etica della responsabilità è, nello stesso tempo, un’etica della posterità, preoccupata di preservare l’ambiente per colui che deve ancora nascere e al quale si deve trasmettere un’eredità non degradata, ma tale da consentirgli di vivere quanto meno come i propri antenati, se non meglio. E questa è anche un’etica planetaria, nella misura in cui io sono tenuto ad agire “in modo che le conseguenze della mia azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”, contemplando anche di sacrificarsi per un’ipotetica umanità che i nostri occhi non vedranno mai.
Queste tre ipotesi etiche sono accomunate dall’esigenza di educare la persona nell’intelligenza (e quindi nella conoscenza) e nell’emotività (e quindi nell’affettività), due sfere che non si escludono ma che si richiamano a vicenda nell’integralità dell’essere umano.
 
Per approfondire:
H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2012.
R. De Monticelli, Al di qua del bene e del male, Einaudi, Torino 2015.
R. Dworkin, Giustizia per i ricci, trad. it. di V. Ottonelli, Feltrinelli, Milano 2013.
H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 2009.
M. Marchetto, Un presentimento della verità. Il relativismo e John Henry Newman, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
J.H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk, a cura di V. Gambi, Paoline, Milano 1999.
J.H. Newman, Prova del teismo, a cura di M. Marchetto, Castelvecchi, Roma 2018.
R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, trad. it. di G. Boringhieri, Laterza, Roma – Bari 19984.
C. Taylor, Il disagio della modernità, trad. it. di G. Ferrara degli Ubetrti, Latrza, Roma-Bari 20186.
di Michele Marchetto