Ogni giorno giornali e televisione evidenziano un disagio del mondo giovanile che assume dimensioni sempre più preoccupanti. L’uso di sostanze e di alcool, l’esercizio irresponsabile della sessualità, la violenza verso le cose e le persone, la ricerca ostinata del rischio, anche attraverso la guida pericolosa, sono segnali che richiamano prepotentemente l’attenzione e l’impegno di tutti gli adulti, genitori, docenti, psicologi, operatori sociali.
Si fa sempre più netta l’impressione della mancanza di un codice comunicativo che permetta di capire le ragioni dell’altro, ma prima ancora, di cogliere i bisogni profondi di cui si è, in prima persona, portatori.
Sembrano dominare un’opacità del pensare e una difficoltà nel trovare parole, per cui la violenza contro se stessi, contro gli altri e le cose resta l’unico linguaggio, un linguaggio muto e oscuro, attraverso cui i giovani tentano di esprimere un profondo male di vivere e un’inconscia, e spesso disperata, richiesta di aiuto.
Il malessere dei giovani, però, va letto come la spia di un disagio più generale: le loro crisi «oggi avvengono in effetti – ed è questa la novità – in una società essa stessa in crisi » (Benasayag M., Schmit G., 2003, p. 13).
 
Di che cosa è malata la società di oggi?
La nostra epoca, scrivono gli autori del bel saggio “L’Epoca delle passioni tristi”, «è passata dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia a un altro mito, simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo». (ibidem, p.22).
E’ proprio questa sensazione d’impotenza e d’impossibilità di decifrare il reale, di gestire la complessità, che porta molti giovani ad agiti violenti o a rifugiarsi nel mondo virtuale dove tutto diventa possibile, ma, proprio per questo niente è più reale.
Se l’individuo non sa più orientarsi nella vita con la luce del suo pensiero, non può nemmeno farlo affidandosi a qualcuno che possiede un’autorità derivatagli dall’esperienza.
«Il disagio che siamo chiamati ad affrontare nel nostro lavoro di psicoterapeuti riguarda sia la vita di quartiere che la scuola e le relazioni familiari”. In tutti questi casi siamo testimoni di una sofferenza legata a un’eclissi del principio di autorità». (ibidem, p. 25).
L’adulto non è più percepito (né spesso si percepisce) in posizione asimmetrica rispetto al giovane e quindi in grado di orientarne e di tutelarne lo sviluppo. La caduta del principio di autorità crea una solitudine che si rischia di riempire con varie forme di autoritarismo. La crisi dell’autorità rispecchia quella dell’anteriorità e quindi quella della funzione e del valore della tradizione. In questo mondo, vuoto di punti di riferimento, il successo e il guadagno restano gli unici obiettivi da raggiungere in modo facile e immediato.
 
Come uscirne?
Per «non rassegnarsi alla tristezza dominante nelle nostre società» (ibidem,. p. 129) è necessaria, prima di tutto, una disanima coraggiosa di ciò che è rimasto  dell’ “utopia modernista”: l’utopia delle magnifiche sorti e progressive, l’utopia che può concepire il futuro come pensabile solo a patto di ammettere l’esistenza di un progresso continuo e lineare in tutti gli ambiti del sapere e della tecnica e, conseguentemente di un mito dell’efficienza a tutti i costi, unico criterio di misura del valore della persona.
E’ necessario educare un pensiero che non tema né la complessità né l’incertezza (Morin, 1999). E’ necessario rifondare un’etica del limite, inteso come distinzione tra il possibile e il pensabile. E soprattutto è indispensabile rifondare un’etica del legame e della cura (Benasayag M., Schmit G.2003) che giunga fino alla solidarietà per l’intero Pianeta (Morin, 2004).
«Non è inutile a questo scopo un breve richiamo ad Aristotele. Aristotele, infatti, contraddicendo il senso comune spiega che lo schiavo è colui che non ha legami che non ha un suo posto che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L’uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive». (Benasayag M., Schmit G., 2003, p. 101.). E’ nelle relazioni e nella cura per se stessi, per gli altri e per il mondo che si genera la creatività e quelle passioni gioiose che nascono dalla consapevolezza che «siamo salpati sulla stessa barca e che, nella tempesta, nessuno può salvarsi da solo» (ibidem, p. 129).
Se la scuola non favorisce lo sviluppo di legami positivi fallisce uno dei suoi obiettivi principali. Questo processo si muove su due direttrici principali: lo studente ha bisogno di trovare nella scuola un ambiente che lo riconosca come persona per saper riconoscere gli altri come tali. Questo processo implica necessariamente l’autocomprensione del ruolo del docente.
 
Nello sguardo del maestro
Usiamo volutamente la parola maestro per evocare l’identità più autentica del docente, quella così descritta dal filosofo e teologo ebreo, Martin Buber,  nel suo prezioso saggio “Sull’educazione”
“ Ci fu un tempo, ci furono dei tempi, in cui non c’era nessuna vocazione specifica dell’educatore, del maestro, e non ce n’era bisogno. Allora viveva un maestro, per esempio un filosofo o un fabbro, i suoi compagni e apprendisti vivevano con lui, imparavano nella misura in cui egli li rendeva partecipi quanto insegnava sulla sua attività, ma imparavano anche, senza che essi stessi o il maestro se ne occupassero, imparavano senza accorgersene il mistero della vita… “ (Buber M. (1926), Sull’educativo, S. Paolo ed.,  Milano, 1993, p. 168) .
Proprio questo insegnamento sulla vita e sulla propria vita è quello che richiede ancora oggi, certo inconsciamente, lo studente all’insegnante quando, entrando in classe, ricerca un contatto con lui. Anche l’alunno troppo timido per avvicinarglisi o per toccare la sua mano, cercherà il suo sguardo o, più ancora, si ricercherà nel suo sguardo.
Scrive ancora Buber: (L’insegnante) entra in aula per la prima volta, ed ecco vede gli allievi appollaiati nei banchi, messi insieme a caso, fisionomie scomposte e regolari, volti banali e nobili, mescolati alla rinfusa: come la presenza della creazione; il suo sguardo, lo sguardo dell’educatore, li accetta tutti e li accoglie … perché nella pluralità e molteplicità dei bambini gli si mostra quella della creazione.(op. cit., p. 174).
Lo sguardo dell’insegnante è il primo messaggio che l’alunno riceve. Negli occhi dell’insegnante egli legge se la sua presenza in classe viene legittimata e anzi, desiderata, o se è solo tollerata o, addirittura, non vista o non voluta. Ci sono, infatti, alunni che hanno l’impressione di non essere visti dal docente e per questo fanno di tutto per farsi notare, anche se questo può significare essere rimproverati o puniti.
Lo sguardo accogliente, non discriminante dell’insegnante, valorizza e impreziosisce l’alunno.
Sotto questo sguardo teneramente rispecchiante (Pietropolli Charmet) cresce la stima in se stesso come persona e come soggetto capace di apprendere. E’ uno sguardo che  “circonda con delicatezza” (Heidegger) che non invade né comanda, ma invia il messaggio “Mi fido di te. Puoi farcela.
Molte ricerche sono state fatte sull’influenza che esercita la stima dell’insegnante sulla motivazione allo studio e sul successo dell’alunno. A metà degli anni 90, Jacobson e Rosenthal studiarono ciò che poi venne chiamato l’”effetto Pigmalione”: cioè l’aspettativa dell’insegnante può funzionare come preveggenza che si autorealizza .
Se egli si aspetta risultati positivi da un alunno, in qualche gli comunica questa fiducia che diventa il motore per cui il risulto atteso si realizza. Lo stesso avviene con l’insegnante che prevede risultati negativi.
Si crea così un circolo vizioso: l’alunno che si sente considerato stupido o pigro si comporta come tale e incontra, di conseguenza, l’insuccesso che lo conferma e conferma l’insegnante nel giudizio negativo. Si mette così a rischio lo sviluppo dei sentimenti di autostima e di autoefficacia la cui carenza è una delle prime cause dell’insuccesso scolastico, ma soprattutto del malessere personale che può tradursi in violenza verso se stessi e/o verso gli altri.
 
Franca Feliziani