Era il 3 febbraio di un lustro fa, il 2015, quando dinnanzi al Parlamento in seduta comune, Sergio Mattarella nel suo discorso d’insediamento da capo dello Stato delineò la figura dell’arbitro, non del notaio, come centrale nel suo settennato al Quirinale. Una definizione che segnava la rottura totale con la “monarchia” del suo predecessore interventista, il post-comunista Giorgio Napolitano, durata eccezionalmente nove anni e passata per due voti dei grandi elettori, nel 2006 e nel 2013. Disse Mattarella, all’epoca settantatreenne giudice costituzionale e già ministro nonché vicepremier della sinistra democristiana: “Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del capo dello Stato nel ruolo di un arbitro. All’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole.
Di tradizione morotea, l’elezione di Mattarella avvenne al quarto scrutinio il 31 gennaio 2015 (lo votarono Pd, Sel, alfaniani e montiani) con 665 voti e segnò un’altra rottura. Quella del patto del Nazareno tra Matteo Renzi, padre padrone del governo e del Pd, e il leader di Forza Italia, il pregiudicato Silvio Berlusconi. Il patto tra i due prevedeva l’ex craxiano Giuliano Amato al Colle ma quando Renzi ebbe contezza che il nome avrebbe spaccato il Pd (in primis il no netto di Pier Luigi Bersani, capo della minoranza) privilegiò l’unità del partito anziché portare a compimento l’accordo con Berlusconi. Il quale s’infuriò non poco, oltre che con Renzi, con i suoi due scherani sostenitori del patto: il toscano Denis Verdini e la colomba di matrice andreottiana Gianni Letta.
In senso strettamente politico, la prima questione cruciale gestita dal Colle non più monarchico ma arbitro è stata la parabola discendente del renzismo, culminata con la trionfale vittoria dei No al referendum istituzionale del 4 dicembre 2016. Renzi si dimise da presidente del Consiglio e dopo otto giorni, con consultazioni lampo, a Palazzo Chigi finì il dem centrista Paolo Gentiloni. Nella fase successiva però, l’ex Rottamatore non diede seguito alla promessa di abbandonare la politica in caso di sconfitta e si mosse per chiedere il voto anticipato con due diversi leggi elettorali: il Consultellum per il Senato (cioè il Porcellum riformato dalla Corte costituzionale) e il Legalicum (l’Italicum senza il ballottaggio previsto dalla legge legata alla riforma costituzionale naufragata il 4 dicembre). Il Colle si oppose e piuttosto chiese ai partiti di lavorare per una legge elettorale univoca per le due Camera (quel che poi sarà il Rosatellum).
La soluzione parlamentare del renzismo sconfitto mise in evidenza da subito uno dei tratti caratteristici del nuovo corso di Mattarella. Cioè che nei convincimenti di colui che oggi abita al Colle, il capo dello Stato non dimentica mai di essere stato un docente universitario di Diritto parlamentare. In pratica l’opposto del “realismo socialista” e dirigista che aveva ispirato Napolitano. C’è una domanda che riassume il senso del suo essere arbitro, che torna spesso al Colle nei momenti topici. Questa: “Cosa mi compete?”. Ecco il punto che sinora non ha portato Mattarella a soluzioni “extra ordinem” come quella di Re Giorgio nel 2013 dei dieci saggi che portarono al governo di Enrico Letta.
Ed è con questa bussola del parlamentarismo che il presidente della Repubblica ha affrontato la transizione dal bipolarismo della Seconda Repubblica al nuovo schema dei populismi uscito fuori dalle storiche urne del 4 marzo 2018, l’anno della clamorosa vittoria del M5S di Luigi Di Maio, primo partito italiano. Già venti giorni dopo le elezioni pronosticò che il governo non sarebbe arrivato prima di giugno. In tutto 89 giorni che sperimentarono il metodo del capo dello Stato: la maieutica socratica. Il metodo della levatrice che attende paziente il parto.
In quei quasi tre mesi di trattative, pause e scontri, Mattarella pagò anche la circostanza non secondaria, a differenza di altri presidenti, di non aver un partito di riferimento, con il Pd renziano autorelegatosi a spettatore munito di popcorn. Tra consultazioni e mandati esplorativi (Casellati e Fico) il punto di attrito più forte venne raggiunto il 27 maggio con il veto europeista del Colle alla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia. Il leader del M5S, supportato da Alessandro Di Battista, chiese la messa in stato d’accusa del presidente salvo poi fare marcia indietro in merito. Il governo Conte nacque il primo giugno, vigilia della festa della Repubblica, sostenuto da una coalizione M5S-Lega, i due partiti vincitori del 4 marzo. Per arrivarci Mattarella aveva anche minacciato le urne a luglio e infine dato un incarico “tecnico” all’economista Carlo Cottarelli. Tutto secondo le regole della Costituzione.
Come nel 2018 attese pazientemente che Di Maio e Salvini si mettessero d’accordo per un’intesa gialloverde, così nell’agosto scorso il capo dello Stato ha aspettato che maturassero le condizioni parlamentari per un nuovo esecutivo stavolta composto da M5S e Pd. Alcuni osservatori ritengono che il Conte II sia anche un esecutivo del presidente. Probabilmente la verità sta nel mezzo: Mattarella ha sì un filo solido con il presidente del Consiglio, alimentato da incontri riservati e telefonate, ma allo stesso tempo non nutrirebbe ottimismo per un governo che sembra prigioniero del gestionismo e privo di una visione a lungo termine. Il timore è quello che anziché ridimensionare il sovranismo a tratti sovversivo di Matteo Salvini, il Conte II finisca per spianargli la strada. Senza dimenticare il ritorno sulla scena del redivivo Matteo Renzi con il potere di ricatto del suo minipartito di Italia Viva.
Per quanto riguarda gli altri aspetti del quinquennio di Mattarella ci sono da registrare la difesa in senso di Sistema dei vertici di Banca d’Italia, nonostante le numerose scosse e gli scandali di questi anni, e la gestione “democristiana” da presidente del Consiglio superiore della magistratura del caso toghe sporche (l’affaire Palamara). Si parla, infine, di una “dimensione sociale” del Colle in riferimento agli ultimi due messaggi di fine anno e anche alla decisione di aprire le porte di quasi tutte le residenze presidenziali ai cittadini. Per questo Mattarella è un presidente che riscuote oggi alti gradimenti di consenso.
Qualcuno azzarda un ipotetico bis nel 2022, l’anno della fine del suo settennato, qualora questa legislatura dovesse arrivare alla sua scadenza naturale. Conoscendo la sua sobrietà e la fedeltà alla prassi costituzionale è difficile immaginare un’ipotesi del genere. Non quella, però, che possa pilotare la successione. Ma due anni sono ancora tanti in politica.
Fabrizio d’Esposito, Il Fatto quotidiano, 3 febbraio 2020