Le Temps: “À la première personne”, il suo ultimo libro, prende la difesa di “quei cittadini svegliatisi dal torpore dell’evidenza che non vogliono più allinearsi al multiculturalismo dominante, che non vogliono cadere nel ridicolo di proclamarsi unici detentori dell’universale”. La formula da lei scritta riguarda la Francia. Ma può essere applicata anche ai cittadini dell’Europa dell’est, usciti “vincitori” dopo la caduta del Muro, nel 1989?
 
Alain Finkielkraut: La Francia è in procinto di diventare una società multiculturale, e questa non è la sua vocazione. Continuerà a essere sé stessa solo se i nuovi arrivati accetteranno di essere gli eredi della sua cultura e della sua storia. Questo paese non è programmato per diventare una giustapposizione di comunità, accompagnata da una certa gestualità religiosa e identitaria, che nel velo islamico trova una delle sue principali espressioni. Ciò vale anche per l’Europa? Credo di sì. Mi colpisce vedere quanti cittadini dell’Europa dell’est, quelli per cui la caduta del Muro, a partire dal novembre 1989, ha rappresentato l’uscita dal totalitarismo comunista, ci ricordino questa evidenza: l’Europa è una civiltà che deve essere preservata. Applicare norme e procedure come fa l’Unione europea da trent’anni a questa parte, non basta a soddisfare la sete di identità dei popoli. Non si può ignorare questa realtà semplicemente umana.

 

“L’Europa è la nostra casa e civiltà”. Intervista a Finkielkraut

L’Unione europea, il malessere francese, il ’68, il Muro di Berlino, la libertà di parola minacciata. A colloquio con il filosofo francese. “La civiltà è fragile quanto la terra”
 
Questi trent’anni di riunificazione del continente e di allargamento dell’Ue sono dunque anzitutto un fallimento culturale? 
 
La spaccatura tra l’Europa occidentale e l’Europa centrale o orientale è evidente. Ieri, c’era una cortina di ferro politica. Oggi, c’è un divario culturale. Gli europei dell’est non vogliono diventare cittadini di società multiculturali. Vogliono preservare l’eredità europea. Mi rendo ben conto che dietro questa volontà vi siano anche delle tentazioni politiche autoritarie, ma dobbiamo smettere di guardare ciò che sta accadendo a est con un atteggiamento di superiorità! Un ex consigliere di Václav Havel, ex presidente ceco e grande difensore delle libertà, mi ha detto che non desiderava che la sua città, Brno, diventasse “la Marsiglia dell’Europa dell’est”. Sul piano del lavoro e delle opportunità economiche, i nostri paesi attirano i giovani dell’est. Ma per una parte della popolazione di questi paesi, la Francia non è più un faro. Siamo diventati un repellente. E ciò fa parte del bilancio degli ultimi tre decenni.
 
Ma l’errore più grande non è stato forse quello di credere troppo nell’economia? In una prosperità portatrice, a est, di democrazie, libertà e convergenza culturale? 
 
Ciò che non mi piace negli economisti è che riducono tutto alla loro disciplina, allo studio dei mercati, alle statistiche del lavoro o del consumo. Ebbene, è soltanto una parte del vissuto delle popolazioni. Le reazioni accese, oggi, nell’Europa dell’est ci mostrano che siamo di fronte a uno scontro di civiltà che non è solubile nell’economia! L’immigrazione e il suo corollario, l’emigrazione, non sono un fattore di crescita in questi paesi, disertati dai loro giovani. Gli individui non sono dei viaggiatori senza bagagli. Non sono interscambiabili, come sostengono gli economisti. E’ questo l’errore che è stato fatto. Ci si è dimenticati che, dietro questi regimi comunisti uniformi, sigillati dall’ex Urss, si nascondevano identità diverse, una storia ricca, una grande cultura e segmenti di memoria dolorosi. Anche in relazione all’islam.
 

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Eppure, gli storici europei abbondano. Conoscevamo quei paesi. Conoscevamo il loro passato. I loro cittadini, inoltre, volevano soltanto viaggiare dopo lo stravolgimento del 1989, conoscere un altro sistema, essere liberi… 
 
L’Europa dell’ovest è stata traumatizzata, e lo resta, dall’apocalisse nazista. Tutto viene da lì. La nostra parte dell’Europa è uscita dalla sua storia nella speranza di non ricadere nella follia. Gli europei non hanno più voluto escludere, per paura di imboccare nuovamente la strada razzista. Ci siamo accecati per non vedere questa dimensione dell’esistenza che è l’identità. Abbiamo così creato – e l’integrazione comunitaria vi ha contribuito – una sorta di “homo economicus” europeo standard e formattato. Gli europei dell’est, invece, non sono cresciuti in questa ossessione dell’apocalisse.
 

E vediamo bene quali sono le conseguenze. Tra queste, un ritorno dell’antisemitismo…
 
L’antisemitismo resta molto forte in Polonia, dove non è mai sparito. La Polonia continua a presentarsi al mondo come una nazione vittima e non vuole condividere questo statuto con nessuno, chiudendo gli occhi sull’innegabile ruolo che l’antisemitismo polacco ha avuto negli orrori della Shoah. Sull’Ungheria, invece, va fatto un discorso diverso (…) Non ho una propensione positiva nei confronti di Viktor Orbán, ma diffido di un George Soros che odia le nazioni e promuove una trasformazione globale dell’Europa in una società multiculturale. Trovo difficile, dopo le crisi finanziarie che abbiamo conosciuto, dare ragione a uno speculatore che si presenta come un esempio di virtù umanistiche. E’ anche questa l’eredità dei trent’anni dalla caduta del Muro: gli europei dell’est hanno imparato a conoscerci, a decodificare le nostre menzogne”.
Giulio Meotti, Il Foglio, 16 dicembre 2019
 
 

L’intervista

 
L’ultimo libro di Alain Finkielkraut s’intitola À la première personne, lo pubblica Gallimard, è dedicato “a Milan Kundera”, e inizia così: “Dacché, nonostante i miei sforzi per rallentare il galoppo del tempo, diventerò irrimediabilmente vecchio, visto che, lo confesso, epiteti ostili adornano spesso il mio nome, mi è sembrato il momento di ripercorrere il mio percorso senza compiacimenti o fughe”. Eppure, giura il pensatore, accademico di Francia, “non voglio, nel momento di fare i conti, ritirarmi nella fortezza inespugnabile dell’autobiografia”. “Reazionario, mi dicono… La verità che cerco, che continuo a cercare, è la verità del reale: la sua spiegazione resta per me primaria. Eppure, come ha scritto Kierkegaard, ‘Pensare è una cosa, esistere dentro ciò che si pensa è un’altra cosa’. È questa ‘altra cosa’ che vorrei chiarire scrivendo, una volta tanto, in prima persona (à la première personne)”. In Italia Alain Finkielkraut ha una certa autorevolezza editoriale: è edito da Adelphi (Un cuore intelligente), da Guanda (L’identità infelice), da Lindau (L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo; L’incontemporaneo. Péguy, lettore del mondo moderno). Quando parla AF, di solito, nascono polemiche – d’altronde il pensiero è questo, una spina nel fianco. In attesa che il libro sia tradotto in Italia, ecco alcune opinioni tratte da una intervista di Ali Baddou per “France Intel”, risolte in forma aforistica.
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La giovinezza è un naufragio. “Occorre cavarsela, è un momento di grande conformismo, la gioventù è al naufragio”.
Nel ’68 sventolavamo slogan assurdi. “Nel Sessantotto volevamo acciuffare la nostra occasione: eravamo certi di essere in un periodo di lotta finale, per questo abbiamo sventolato slogan assurdi del tipo ‘Polizia=SS’. Vivevamo all’ombra della Resistenza, avevamo smesso di imitare i padri, per imitarci a vicenda”.
Un sinistro reazionario. “Deploro l’imbarbarimento della lingua, non voglio i computer portatili, conto ancora in franchi: ne deduco che sono un sinistro reazionario”.
Non fatemi fumare hashish (usare Lsd è meglio…). “Non riesco a fumare. Quando si è trattato di fumare hashish ho sputato tutto, il fumo mi bloccava la gola. Però ho fatto uso di Lsd. Il sinistro reazionario ha usato Lsd tre o quattro volte, e basta. La droga è democratica: tutti fanno il loro viaggio. Tuttavia, rifiuto l’idea della legalizzazione”.
L’economia non risolve i problemi. “La svolta di Macron sul tema dell’immigrazione non mi ha sorpreso, ma ne sono rimasto colpito. Durante la campagna elettorale Macron ha dimostrato una mera visione economica, certo che la risoluzione dei problemi europei passasse dall’economia. Ma l’economia da sola non basta. L’Unione Europea è una delle più grandi aree di immigrazione al mondo, indipendentemente dall’integrazione”.
L’Europa non è norme e procedure, è una civiltà. “L’Europa post-hitleriana ha scelto di diventare una costruzione fondata su norme, procedure e valuta, soltanto valuta, senza diventare una civiltà. Se ci pensassimo come a una civiltà, è evidente che esiste un modo di vivere europeo, che ci sono campagne europee che non assomigliano a paesaggi americani, che esiste una forma di diversità in Europa e in Francia che sono prerogative di questa specifica civiltà”.
Greta: che gli adulti si inchinino davanti a una ragazzina mi pare assurdo. “Riguardo a Greta Thunberg penso, molto banalmente, che l’ecologia meriti di meglio di una ragazzina di 16 anni per sua natura malleabile, suggestionabile. Mi sembra assurdo che gli adulti si inchinino davanti a lei. Perché è celebre Greta Thunberg? Ha fatto uno sciopero scolastico, ponendo domande. E cosa devono fare i professori? Dare delle parole: parole utili a capire cosa stiamo perdendo. Ascoltando semplicemente certi scienziati aumenteremo l’uso di pale eoliche, così l’ecologia di maggioranza parteciperà a una devastazione che crede essere un rimedio. Bisogna ridare posto a chi sostiene una ecologia poetica, una poetica dell’ecologia, lasciando che i ragazzi siano ragazzi”.
Il vero razzismo? Contro i vecchi. “Il vero razzismo di questa epoca è la gerontofobia. Non vogliamo più i vecchi, i vecchi devono andarsene via”.
Più il presente diventa brutto, più penso. “Certo, la proliferazione di schermi e di computer mi fa sentire una spina di nostalgia, tanto che a volte oso dire ‘era meglio prima’, eppure più il presente diventa ricco, più diventa brutto, meno mi è permesso abbandonare il pensiero, lacerare la memoria”.
Pangea, 28 gennaio 2020