L’ottobre ha tinto le foglie, il novembre le ha recise, il dicembre le ricopre con il suo lenzuolo di lino. Così si succedono il maturare, il morire e la morte. Il dicembre, “luna del rigore”, “luna da lupi” per gli antichi, rappresenta da sempre un rigido signore. Con lui incomincia l’inverno anche se, come tutte le stagioni, non arriva secondo il calendario. Arriva prima o dopo le date stabilite da Cesare, si allunga sull’arco di un anno, e anche oltre. Dobbiamo cercarlo nello spazio più che nel tempo. Discende dalle nevi perenni delle alte montagne sulle quali, persino ai tropici, risiede; domina i deserti polari. Di là avanza, con luci che svaniscono, sulle terre dei lupi e degli orsi. Lo precedono in volo gli uccelli del Nord. Porta con sé, sotto il suo mantello, il gelo, la notte, la morte – anche qualcos’altro, però, qualcosa di più, per colui che sappia rovesciarne la stoffa.
 

Anzitutto la coltre: il sudario che il dicembre stende sulla Terra e che, nelle sue proporzioni, si adegua al grande e al piccolo ritmo di lei – all’avvicendarsi del giorno e della notte, dei venti gelati e dei venti del disgelo, delle epoche miti e di quelle glaciali. La parentela di gelo e morte diventa allora visibile anche nello spazio: nel modo in cui egli dorme nei luoghi impervi o contratti, e si dispiega quando la luce si affievolisce fino a svanire. Le forme si fanno più semplici e nette, allora; il disegno di impone sui colori. L’albero di fronte alla nostra finestra si è trasformato nello spazio di una notte; ora esibisce il suo scheletro. Vediamo il tronco scuro, vediamo le articolazioni e le giunture della chioma sotto la filigrana sottile della ramaglia coperta di brina. Nel campo sembra che il vuoto abbia succhiato la moltitudine dei colori – così gli abeti si innalzano davanti ai monti bianchi come una nera parete. Il ruscello, il prato alla sua sponda, i monticelli di terriccio sollevati dalla talpa che si è aperta un varco nella neve – tutto appare scarno e denso, come tratteggiato nell’inchiostro di China. La siepe su cui a luglio soffiavano venti azzurri, si è trasformata in un nero recinto, rinchiuso su bianchi terreni. Le forme, spiccando dall’indistinto, acquistano una forza che invita a contare e misurare. Seguono le leggi del regno dei cristalli, la loro ermetica potenza costrittiva che vincola la materia e ne disvela il traforo. Questo tratto geometrico si fa ancora più distinto tra i monti; le linee sono come incise nel diamante, dal profilo delle creste e delle vette fino alle tracce della slitta e degli sci.
 
È il tempo in cui gli uomini si riuniscono assieme più stretti e socievoli, si raccolgono attorno al fuoco e alla luce. I locali chiusi e protetti si fanno graditi – dalle stazioni metereologiche attorno al polo nord fino agli igloo in cui ardono le lampade, dalle sale luminose dei teatri in città fino agli alberghi delle alte valli innevate, dalle capanne dei contadini russi con le loro stufe imponenti ai camini nelle case di campagna dei pendii meridionali, dei cui giardini sempreverdi solo il gelo degli inverni più rigidi intacca il rigoglio. A volte si sente dire dai vecchi che il clima si è fatto più indicibile e mite. Eppure torna sempre un inverno secolare che copre di ghiaccio anche i mari più estesi e reca danno, in giù nel profondo sud, agli uliveti e agli aranceti. Vero è però che nella coscienza e nel comportamento dell’uomo le stagioni si assomigliano tra di loro. Anche in inverno i negozi sono pieni di fiori e frutti. Uno sguardo dall’aereo, gettato fuori a l’antipasto e la zuppa, scorge regioni desertiche dove, solo di recente, arrischiarsi con slitte e cani era un azzardo mortale. Con l’aumento del comfort va certamente perduta anche una buona parte del piacere che il dicembre portava con sé. Solo nelle catastrofi si riconosce ancora la potenza degli elementi.
Ernst Jünger
*Il testo di Ernst Jünger, “Dicembre”, del 1964, è stato tradotto in italiano da Alessandra Iadicicco e raccolto nel volume “L’albero. Quattro prose” edito da Herrenhaus nel 2003