La Pianista Isabella Turso Dialoga con Matteo Fais 
 
“E dove c’è un piano/ Intorno c’è sempre gente che fa baccano/ Ci sono occhi che si cercano/ Ci sono labbra che si guardano”. Così cantava quel vecchio geniaccio di Paolo Conte, oramai molti anni fa. E, in effetti, è difficile che intorno a un pianoforte non si verifichino di continuo dei piccoli miracoli e degli incontri speciali. Come quello che abbiamo avuto con Isabella Turso, pianista e compositrice trentina, formatasi in Italia e andata poi a perfezionarsi in Spagna. Un’artista che non ha paura di muoversi con passo leggero tra i diversi generi, senza preconcetti o spocchiose pose da classicista. Abbiamo ritenuto opportuno intervistarla soprattutto perché ai musicisti che non suonano unicamente pop e rock quello che manca è proprio la voce, che non viene loro concessa se non all’interno di riviste specialistiche. Ne è venuto fuori un dialogo che altalena nella sua partitura tra la riflessione estetica sulla musica, fino ad arrivare alla poesia, passando attraverso il cinema. Uno scambio, per usare un’indicazione tipica, andante con brio.
 
L’intervista
 
em>Partiamo dagli albori, ovvero da come è nata la tua passione per la musica.
Nasce principalmente da un’esigenza. Anzi due. Ascoltare ed essere ascoltata. Ho trovato nella musica il canale di comunicazione ideale. Da piccola sfruttavo questa mia particolare predisposizione per il mondo dei suoni per fare colpo su mio padre, grande appassionato di musica. In casa avevamo un organo elettronico a doppia tastiera e pedaliera, che strimpellavo assieme a lui. Poi, a nove anni, iniziai a studiare pianoforte in Conservatorio e la mia passione è stata gradualmente alimentata dal sacrificio, consapevolezza, studio, determinazione, grinta, tenacia, ma anche da un po’ di sano anticonformismo.
 
In letteratura, buona parte dell’effetto, in prosa come in poesia, è dato dal ritmo. Da questo punto di vista, mi pare che ci siano grandi affinità con la musica. Eppure, se qualcuno mi domandasse che cos’è il ritmo e come faccio a ottenerlo quando scrivo, non saprei rispondere; oppure citerei quanto detto da Sant’Agostino sul tempo, ovvero che so cosa sia, ma se mi dovessero chiedere di spiegarlo non saprei farlo. Tu, Isabella, come definiresti il ritmo? E, soprattutto, ne hai una consapevolezza razionale o inconscia?
Nella storia del pensiero umano ci sono state numerose interpretazioni del concetto di ritmo. La musica è fatta di suono, ma anche di durata, impulso, intensità, accenti. Tutto questo è ritmo. È l’ordine del movimento secondo Platone, che si ripete con precisione e regolarità fuori e dentro di noi. E per interiorizzare un determinato ritmo, dobbiamo renderlo “fisicamente riconoscibile”, lavorando su noi stessi e sulla nostra capacità di ascolto.
 
Tu sei un’artista eclettica, che non ripudia le contaminazioni tra i generi. Come mai, a tuo avviso, almeno per lungo tempo, i musicisti di classica hanno vissuto in un orizzonte mentale che non contemplava alcun tipo di commistione con altri generi di musica?
Ripudio la parola “contaminazione” perché mi fa impressione anche il solo pensiero di inquinare, intorbidire o, peggio ancora, fondere per poi confondere! Il fatto è che, tendenzialmente, cerchiamo di porre etichette per separare i generi, dare loro un nome ben preciso. Creare barriere belle spesse può sembrare rassicurante. Personalmente cerco sovente di prendere spunto da stili e attitudini che si allontanano dalla mia comfort zone, con l’obiettivo di creare qualcosa di nuovo, di originale. Il materiale utilizzato diventa il pretesto e la reinvenzione, la novità. Talvolta avvicinare due stili diversi, anche magari solo apparentemente, crea un attrito interessante e straordinariamente stimolante. Non c’è nulla di nuovo se dico che i grandi musicisti del passato hanno “rubato” sapientemente temi e ritmi della tradizione musicale popolare, poi inseriti in un contesto nuovo, filtrati dalla loro sensibilità.
 
Un tempo la musica cosiddetta classica, soprattutto l’Opera, era maggiormente diffusa tra le masse. Penso per esempio a Verdi con la Trilogia Popolare. Quand’è che, secondo te, si è determinato uno iato incolmabile tra la musica classica e la gente comune? Insomma, quand’è che la classica è divenuta una musica d’élite?
Non credo si possa parlare oggi di “musica d’élite”, quanto piuttosto di analfabetismo e snobismo culturale. La musica classica necessita di un passaggio in più rispetto a un ascolto superficiale e veloce. Oggi ci aspettiamo dalla musica colta una immediatezza comunicativa che naturalmente non ha. Verdi e la Trilogia Popolare? Oggi abbiamo Eminem!
 
Se dovessi spiegare a un profano per quali motivi dovrebbe ascoltare la musica classica, cosa gli diresti per convincerlo?
Incuriosire è l’antidoto contro l’indifferenza. La ricchezza comunicativa di un progetto, in cui provocatoriamente si accostano elementi anche molto differenti tra loro, può raggiungere risultati sorprendenti. Io lo sto facendo attraverso la mia musica e i miei concerti, nei quali avvicino la tradizione musicale classica a elementi moderni, senza troppe paranoie. E mi diverto pure.
 
Isabella, qual è il peso del silenzio in una musica? Nella classica, se ci riflettiamo, anche un non addetto ai lavori come me nota che, nell’economia generale di un brano come di un’opera, ha un’importanza fondamentale. Vorrei che me lo descrivessi tu.
Il silenzio ci riconnette con l’esistenza. In musica è lo stesso, funge da collante. Il respiro, più o meno lungo, più o meno intenso, risuona eccome. Basta solo ascoltarlo.
 
Che musica ascolta una pianista con una formazione canonica come la tua, quando non ascolta classica?
Ho sempre ascoltato un po’ di tutto, dal jazz al pop al rock. Tra i più importanti sicuramente Frank Zappa, Queen, Stevie Wonder, Keith Emerson, Dave Brubeck, Elton John, Muse… Ultimamente mi sto concentrando e appassionando al repertorio internazionale hip hop. Sto lavorando in questa direzione per realizzare il mio prossimo progetto discografico.
 
Tu suoni il piano. Cosa ha questo strumento che manca agli altri e cosa manca invece al piano degli altri strumenti?
Al pianoforte non manca nulla, è un’orchestra concentrata in un singolo strumento. Agli altri strumenti manca sempre … un pianoforte.
 
Come componi i tuoi brani solitamente? Qual è il loro processo di gestazione?
Rigorosamente al pianoforte, con carta, matita e gomma. Lo so, sono anacronistica, ma il computer mi toglie calore. L’ispirazione è in tutto ciò che mi circonda, è negli occhi delle persone che osservo spesso, anche durante i concerti, mentre suono.
 
Tu hai collaborato anche con artisti rap. Come si fa a innestare il suono di un pianoforte su quel tipo di musica che, per tradizione, è sempre stata fondata su campionature e basi?
Nell’album Variazioni, realizzato con il rapper Dargen D’Amico e uscito un anno fa, la sfida è stata proprio questa: utilizzare strumenti veri, il pianoforte in primis, poi un quartetto d’archi, fiati, vibrafono, mouth percussion, creando un contrappunto sonoro con la voce, a mio avviso, molto interessante. Abbiamo dialogato e concentrato le nostre rispettive competenze e conoscenze per realizzare un prodotto nuovo e accattivante. Sono molto soddisfatta e orgogliosa del risultato, siamo in tour dall’anno scorso e il pubblico di giovanissimi mi sta seguendo con grande curiosità ed entusiasmo.
 
C’è un’altra delle arti che in un qualche recondito modo ha influenzato la tua musica, come la poesia, il cinema e via dicendo e, se sì, in che modo?
Certamente. Ho realizzato spettacoli multimediali e di teatro musicale da me ideati, nei quali ho unito la musica all’immagine e alla letteratura. Ho anche avuto l’occasione di lavorare con attori come Arnoldo Foà, David Riondino, Renato Raimo; con musicisti come Elio, Paolo Fresu, Andrea Morricone, Pino Donaggio, Luis Bacalov. Sono sempre stata attratta dal cinema e, più in generale, dalla musica legata alle immagini. Qualche anno fa ho realizzato un album intitolato Omaggio a Donaggio, in cui cito alcuni temi tratti dalle colonne sonore più famose del compositore veneziano, inseriti però in un contesto completamente nuovo. È un album che mi ha dato grandi soddisfazioni e riconoscimenti, ultimo, ma non meno importante, è il Premio Troisi, consegnatomi dalla meravigliosa Maria Grazia Cucinotta. A New York ho presentato per la prima volta l’omonimo concerto per video e pianoforte, un viaggio in cui “l’immagine sonora” fa da contrappunto all’immagine visiva.
 
Quando ti sei resa conto di essere un’artista?
Non ho mai detto di essermene resa conto. Ma se essere artista significa dedicarsi totalmente a un’arte, quotidianamente, appassionatamente, con impegno, studio, amore, determinazione, come fosse una necessità vitale, il proprio modo di esprimersi e di comunicare con il mondo fuori, allora sì, forse sono un po’ artista anch’io.
Matteo Fais

Posted On Aprile 30, 2018