FINE DEL “CATTOLICESIMO ROMANO”?
1. A questo punto del pontificato di Francesco, credo che si possa ragionevolmente sostenere che esso segna il tramonto di quell’imponente realtà storica definibile come “cattolicesimo romano”.
Questo non significa, beninteso, che la Chiesa cattolica sia alla fine, ma che sta tramontando il modo in cui si è storicamente strutturata e autorappresentata negli ultimi secoli.
Mi pare evidente, infatti, che sia questo il progetto consapevolmente perseguito dal “brain trust” che si stringe attorno a Francesco: un progetto inteso sia come risposta estrema alla crisi dei rapporti fra la Chiesa e il mondo moderno, sia come premessa per un rinnovato percorso ecumenico in comune con le altre confessioni cristiane, specie quelle protestanti.
 
2. Per “cattolicesimo romano” intendo quella grande costruzione storica, teologica e giuridica che prende l’avvio dall’ellenizzazione (per l’aspetto filosofico) e dalla romanizzazione (per l’aspetto politico-giuridico) del cristianesimo primitivo e che si basa sul primato dei successori di Pietro, quale emerge dalla crisi del mondo tardo-antico e dalla sistemazione teorica dell’età gregoriana (“Dictatus Papae”).
Nei secoli successivi, la Chiesa si è data inoltre un proprio diritto interno, il diritto canonico, guardando al diritto romano come modello. E questo elemento giuridico ha contribuito a plasmare gradualmente una complessa organizzazione gerarchica con precise norme interne, che regolano la vita sia della “burocrazia di celibi” (l’espressione è di Carl Schmitt) che la gestisce, sia dei laici che ne sono parte.
L’altro decisivo momento di formazione del “cattolicesimo romano” è infine l’ecclesiologia elaborata dal concilio di Trento, che ribadisce la centralità della mediazione ecclesiastica in vista della salvezza, in contrasto con le tesi luterane del “sacerdozio universale”, e quindi fissa il carattere gerarchico, unito e accentrato della Chiesa; il suo diritto di controllare e, se occorra, condannare le posizioni che contrastino con la formulazione ortodossa delle verità di fede; il suo ruolo nell’amministrazione dei sacramenti.
Tale ecclesiologia trova il suo suggello nel dogma dell’infallibilità pontificia proclamato dal concilio Vaticano I, messo alla prova ottant’anni dopo nell’affermazione dogmatica dell’Assunzione in cielo di Maria (1950), che assieme alla precedente proclamazione dogmatica della sua Immacolata Concezione (1854) ribadisce anche la centralità del culto mariano.
Sarebbe riduttivo, tuttavia, se ci limitassimo a quanto detto ora. Perché esiste, o meglio esisteva, anche un diffuso “sentire cattolico”, così fatto:
– un atteggiamento culturale che si basa su un realismo, a proposito della natura umana, talora disincantato e disposto a “tutto comprendere” come premessa del “tutto perdonare”;
– una spiritualità non ascetica, comprensiva di certi aspetti materiali della vita, né disposta a disprezzarli;
– impegnato nella carità quotidiana verso umili e bisognosi, senza il bisogno di idealizzarli o di farne quasi novelli idoli;
– disposto a rappresentarsi anche nella propria magnificenza, quindi non sordo alle ragioni della bellezza e delle arti, come testimonianza di una Bellezza suprema a cui il cristiano deve tendere;
– sottile indagatore dei più riposti moti del cuore, della lotta interiore fra il bene e il male, della dialettica fra “tentazioni” e risposta della coscienza.
Si potrebbe quindi dire che in quello che chiamo “cattolicesimo romano” si intrecciano tre aspetti, oltre ovviamente a quello religioso: l’estetico, il giuridico, il politico. Si tratta di una visione razionale del mondo che si fa istituzione visibile e compatta e che entra fatalmente in conflitto con l’idea di rappresentanza emersa nella modernità, basata sull’individualismo e su una concezione del potere che, salendo dal basso, finisce per mettere in discussione il principio di autorità.
 
3. Questo conflitto è stato considerato in modi diversi, spesso opposti, da coloro che l’hanno analizzato. Carl Schmitt guardava con ammirazione alla “resistenza” del “cattolicesimo romano”, considerato come l’ultima forza in grado di frenare le forze dissolvitrici della modernità. Altri lo hanno duramente criticato: in questa lotta, la Chiesa cattolica avrebbe rovinosamente enfatizzato i suoi tratti giuridico-gerarchici, autoritari, esteriori.
Al di là di queste opposte valutazioni, è certo che negli ultimi secoli il “cattolicesimo romano” sia stato costretto alla difensiva. A mettere progressivamente in discussione la sua presenza sociale è stata soprattutto la nascita della società industriale e il conseguente processo di modernizzazione, che ha avviato una serie di mutamenti antropologici tuttora in atto. Quasi che il “cattolicesimo romano” fosse “organico” (per dirla con linguaggio vetero-marxista) a una società agraria, gerarchica, statica, basata sulla penuria e sulla paura e non trovasse invece una rilevanza in una società “affluente”, dinamica, caratterizzata dalla mobilità sociale.
Una prima risposta a questa situazione di crisi fu data dal concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965), che nelle intenzioni di papa Giovanni XXIII che lo aveva convocato doveva operare un “aggiornamento pastorale”, guardare cioè con nuovo ottimismo al mondo moderno, insomma abbassare finalmente la guardia: non si trattava più di portare avanti un secolare duello, ma di aprire un dialogo e operare un incontro.
Il mondo era percorso in quegli anni da cambiamenti straordinari e da un inedito sviluppo economico: probabilmente la più sensazionale, rapida e profonda rivoluzione nella condizione umana di cui ci sia traccia nella storia (Eric J. Hobsbawm). L’evento concilio contribuì a questo mutamento, ma ne fu a sua volta travolto: il ritmo degli “aggiornamenti” – favorito anche dalla vorticosa trasformazione ambientale e dalla convinzione generale, cantata da Bob Dylan, che “the times they are a-changin'” – sfuggì di mano alla gerarchia, o almeno a quella sua parte che voleva operare una riforma, non una rivoluzione.
Così fra il 1967 e il 1968 si assistette alla “svolta” di Paolo VI, che si espresse nell’analisi preoccupata delle turbolenze sessantottine e poi della “rivoluzione sessuale” contenuta nell’enciclica “Humanae vitae” del luglio 1968. Tanto era il pessimismo a cui giunse negli anni Settanta quel grande pontefice che, conversando col filosofo Jean Guitton, si domandava e gli domandava, riecheggiando un inquietante passo del vangelo di Luca: “Quando il Figlio dell’Uomo ritornerà,  troverà ancora la fede sulla terra?”. E aggiungeva: “Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo  diventi domani il più forte”.
 
4. È noto quale sia stata la risposta dei successori di Paolo VI a questa situazione: coniugare cambiamento e continuità; operare – su alcune questioni – le opportune correzioni (memorabile, da questo punto di vista, la condanna della “teologia della liberazione”); cercare un dialogo con la modernità che fosse al tempo stesso una sfida: sui temi della vita, della razionalità dell’uomo, della libertà religiosa.
Benedetto XVI, in quello che fu il vero testo programmatico del suo pontificato (il discorso alla curia pontificia del 22 dicembre 2005), ribadì poi un punto fermo: che le grandi scelte del Vaticano II andavano lette e interpretate alla luce della tradizione precedente della Chiesa, quindi anche dell’ecclesiologia emersa dal concilio di Trento e dal Vaticano I. Anche per la semplice ragione che non si può operare una smentita formale della fede creduta e vissuta da generazioni e generazioni, senza introdurre un “vulnus” irreparabile nell’autorappresentazione e nella percezione diffusa di un’istituzione come la Chiesa cattolica.
È noto anche come questa linea abbia causato un diffuso rigetto non solo “extra ecclesiam”, dove si manifestò in un’aggressione mediatica e intellettuale contro papa Benedetto assolutamente inedita, ma – nel modo nicodemitico e nella mormorazione congeniti nel mondo clericale – anche nel corpo ecclesiastico, che sostanzialmente lasciò solo quel papa nei momenti più critici del suo pontificato. Da qui, credo, la sua rinuncia del febbraio 2013, che – al di là di interpretazioni rassicuranti – appare come un evento epocale, del quale le ragioni e le implicazioni di lungo periodo restano ancora tutte da approfondire.
 
5. Questa fu la situazione ereditata da papa Francesco. Mi limito solo ad accennare agli aspetti biografici e culturali che rendevano “ab initio” Jorge Mario Bergoglio in parte estraneo a quello che ho chiamato il “cattolicesimo romano”:
– il carattere periferico della sua formazione, profondamente radicata nel mondo latino-americano, che gli rende difficile incarnare l’universalità della Chiesa, o almeno lo spinge a viverla in modo nuovo, accantonando la civiltà europea e quella nordamericana;
– l’appartenenza a un ordine, come la Compagnia di Gesù, che nell’ultimo mezzo secolo ha operato uno dei più clamorosi riposizionamenti politico-culturali di cui si abbia notizia nella storia recente, passando da una posizione “reazionaria” a una variamente “rivoluzionaria” e quindi dando prova di un pragmatismo per molti aspetti degno di riflessione;
– l’estraneità all’elemento estetico che è proprio del “cattolicesimo romano”, la sua ostentata rinuncia a ogni rappresentazione di dignità di carica (gli appartamenti pontifici, la mozzetta rossa e il consueto apparato pontificale, le automobili di rappresentanza, la residenza di Castel Gandolfo) e a quelle che chiama “abitudini da principe rinascimentale” (a cominciare dal ritardo e poi assenza a un concerto di musica classica in suo onore agli inizi del pontificato).
Cercherei piuttosto di sottolineare quello che può essere a mio parere l’elemento unificante dei molteplici mutamenti che papa Francesco sta introducendo nella tradizione cattolica.
Lo faccio basandomi su un piccolo libro di un eminente uomo di Chiesa, che viene generalmente considerato il teologo di riferimento dell’attuale pontificato, citato eloquentemente da Francesco già nel suo primo Angelus, quello del 17 marzo 2013, quando disse: “In questi giorni ho potuto leggere un libro di un cardinale – il cardinale Kasper, un teologo in gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene quel libro, ma non crediate che faccia pubblicità ai libri dei miei cardinali. Non è così. Ma mi ha fatto tanto bene, tanto bene”.
Il libro di Walter Kasper a cui qui mi riferisco ha per titolo: “Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica”, ed è la versione rielaborata e ampliata di una conferenza tenuta dal cardinale il 18 gennaio 2016 a Berlino. Il capitolo sul quale voglio richiamare l’attenzione è il sesto: “Attualità ecumenica di Martin Lutero”.
Tutto il capitolo è costruito su un’argomentazione binaria, secondo cui Lutero fu indotto ad approfondire la rottura con Roma principalmente dal rifiuto del papa e dei vescovi di procedere a una riforma. Fu solo di fronte alla sordità di Roma – scrive Kasper – che il riformatore tedesco, “sulla base della sua comprensione del sacerdozio universale, dovette accontentarsi di un ordinamento d’emergenza. Egli ha però continuato a confidare nel fatto che la verità del Vangelo si sarebbe imposta da sé e ha così lasciato la porta fondamentalmente aperta per una possibile futura intesa”.
Ma anche da parte cattolica, all’inizio del Cinquecento, restavano molte porte aperte, c’era insomma una situazione fluida. Scrive Kasper: “Non c’era una ecclesiologia cattolica armonicamente strutturata, ma unicamente degli approcci, che erano più una dottrina sulla gerarchia che una ecclesiologia vera e propria. L’elaborazione sistematica dell’ecclesiologia si avrà solamente nella teologia controversistica, come antitesi alla polemica della Riforma contro il papato. Il papato divenne così, in un modo fino ad allora sconosciuto, il contrassegno di identità del cattolicesimo. Le rispettive tesi e antitesi confessionali si condizionarono e bloccarono a vicenda”.
Bisogna dunque procedere oggi – stando al senso complessivo dell’argomentazione di Kasper – a una “deconfessionalizzazione” sia delle confessioni riformate sia della Chiesa cattolica, nonostante questa non si sia mai avvertita come una “confessione”, ma come la Chiesa universale. Si deve tornare a qualcosa di simile alla situazione che precedeva il divampare dei conflitti religiosi del Cinquecento.
Mentre però in campo luterano questa “deconfessionalizzazione” si è oggi già ampiamente compiuta (con la secolarizzazione spinta di quelle società, per cui i problemi che erano alla base delle controversie confessionali sono diventati irrilevanti per la stragrande maggioranza dei cristiani “riformati”), in campo cattolico invece molto ancora si deve fare, appunto per la sopravvivenza di aspetti e strutture di quello che ho chiamato il “cattolicesimo romano”. È quindi soprattutto al mondo cattolico che è rivolto l’invito alla “deconfessionalizzazione”. Kasper la invoca come una “riscoperta della cattolicità originaria, non ristretta ad un punto di vista confessionale”.
A tal fine sarebbe quindi necessario portare fino in fondo il superamento dell’ecclesiologia tridentina e di quella del Vaticano I. Secondo Kasper il concilio Vaticano II ha aperto la strada, ma la sua ricezione è stata controversa e tutt’altro che lineare. Da qui il ruolo dell’attuale pontefice: “Papa Francesco ha inaugurato una nuova fase in tale processo di ricezione. Egli sottolinea l’ecclesiologia del popolo di Dio, il popolo di Dio in cammino, il senso della fede del popolo di Dio, la struttura sinodale della Chiesa, e per la comprensione dell’unità mette in gioco un interessante nuovo approccio. Descrive l’unità ecumenica non più con l’immagine dei cerchi concentrici attorno al centro, ma con l’immagine del poliedro, cioè di una realtà a molte facce, non un ‘puzzle’ messo insieme dall’esterno, ma un tutto e, come trattandosi di una pietra preziosa, un tutto che riflette la luce che lo colpisce in modo meravigliosamente molteplice. Ricollegandosi a Oscar Cullmann, papa Francesco riprende il concetto della diversità riconciliata”.
 
6. Se riconsideriamo brevemente sotto questa luce i comportamenti di Francesco che hanno suscitato più scalpore, ne comprendiamo meglio la logica unitaria:
– la sua sottolineatura, fin dal giorno dell’elezione, della sua carica di vescovo di Roma, più che di pontefice della Chiesa universale;
– la sua destrutturazione della figura canonica del pontefice romano (il celeberrimo “chi sono io per giudicare?”), alla base della quale – dunque – non vi sono solo i moventi caratteriali prima accennati, ma una ragione più profonda, di carattere teologico;
– il pratico depotenziamento di alcuni sacramenti fra i più caratteristici del “sentire cattolico” (la confessione auricolare, il matrimonio indissolubile, l’eucaristia), realizzato per ragioni pastorali di “misericordia” e “accoglienza”;
– l’esaltazione della “parrhesìa” all’interno della Chiesa, della confusione presunta creatrice, a cui si lega una visione della Chiesa quasi come una federazione di Chiese locali, dotate di ampi poteri disciplinari, liturgici e anche dottrinali.
C’è chi prova scandalo per il fatto che in Polonia finirà per avere vigore un’interpretazione di “Amoris laetitia” diversa da quella che si realizzerà in Germania o in Argentina, riguardo alla comunione ai divorziati risposati. Ma Francesco potrebbe rispondere che si tratta di facce diverse di quel poliedro che è la Chiesa cattolica, al quale quindi si potranno aggiungere prima o poi – perché no? – anche le Chiese riformate post-luterane, in uno spirito appunto di “diversità riconciliata”.
Su questa strada, è facile prevedere che i prossimi passi saranno un ripensamento della catechesi e della liturgia in senso ecumenico, anche qui con il cammino che spetta alla parte cattolica molto più impegnativo di quello della parte “protestante”, considerati i diversi punti di partenza, come pure un depotenziamento dell’ordine sacro nel suo aspetto più “cattolico”, cioè nel celibato ecclesiastico, con il che la gerarchia cattolica cesserà anche di essere la schmittiana “burocrazia di celibi”.
Si comprende meglio, allora, la vera e propria esaltazione della figura e dell’opera di Lutero che si è prodotta ai vertici della Chiesa cattolica in occasione del cinquecentesimo anniversario del 1517, fino al discusso francobollo commemorativo dedicatogli dalle poste vaticane, con lui e Melantone ai piedi di Gesù in croce.
Personalmente non ho dubbi che Lutero sia uno dei giganti della “storia universale”, come si amava dire una volta, ma “est modus in rebus”: soprattutto le istituzioni devono avere una sorta di pudore nell’operare rovesciamenti di queste dimensioni, pena il ridicolo: lo stesso da cui eravamo assaliti nel Novecento, quando vedevamo i comunisti di allora riabilitare all’unisono e a comando gli “eretici” condannati e combattuti strenuamente fino al giorno prima: il “Contrordine, compagni!” delle vignette di Giovannino Guareschi.
 
7. Se dunque ieri il “cattolicesimo romano” era avvertito come un corpo estraneo dalla modernità, estraneità che non gli era perdonata, è naturale che il suo tramonto venga oggi salutato con gioia dal “mondo moderno” nelle sue istituzioni politiche, mediatiche e culturali e che quindi l’attuale pontefice sia visto come colui che sana quella frattura fra i vertici ecclesiastici e il mondo dell’informazione, delle organizzazioni e dei “think tank” internazionali, che – apertasi nel 1968 con la “Humanae vitae” –  si era fatta più profonda nei pontificati successivi.
Ed è anche naturale che gruppi ed ambienti ecclesiastici che già negli anni Sessanta auspicavano il superamento della Chiesa tridentina e che in questa prospettiva hanno letto il Vaticano II, dopo aver vissuto sotto traccia nell’ultimo quarantennio, siano oggi usciti allo scoperto e con i loro eredi laici ed ecclesiastici figurino fra le componenti di quel “brain trust” cui si accennava all’inizio.
Restano aperti però alcuni interrogativi, che imporrebbero ulteriori e non facili riflessioni.
L’operazione portata avanti da papa Francesco e dal suo “entourage” conoscerà un successo duraturo o finirà per incontrare resistenze, all’interno della gerarchia e di ciò che resta del popolo cattolico, maggiori di quelle in definitiva marginali finora emerse?
A quale tipo di nuova realtà “cattolica” nella società occidentale essa darà vita?
E più in generale: quali conseguenze essa potrà avere sulla complessiva tenuta culturale, politica, religiosa del mondo occidentale, il quale, pur essendo giunto a un livello esteso di secolarizzazione, ha avuto a lungo una delle sue strutture portanti proprio nel “cattolicesimo romano”?
Ma è preferibile che gli storici non facciano profezie e si accontentino di capire qualcosa, se vi riescono, dei processi in corso.
 
Roberto Pertici
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