Dopo le tre rivoluzioni che hanno segnato l’età moderna (quella astronomica di Copernico, che aprì la strada all’eliocentrismo; quella di Darwin, che proiettò la storia dell’uomo nell’orizzonte della storia della natura, e quella di Freud, che aprì l’inconscio all’indagine scientifica), il nostro tempo è segnato dalla quarta rivoluzione, quella digitale, inaugurata da Alan Turing (1912-1954) e manifestatasi nelle Information and Communication Technologies. Preparata tre secoli prima dalla cosiddetta “pascalina”, la macchina per il calcolo di Pascal (1623-1662), essa porta alle estreme conseguenze l’idea di Thomas Hobbes (1588-1679) che la capacità di pensare, il fattore di superiorità dell’uomo sulle altre creature, si declina nella capacità di ragionare, ossia nella capacità di calcolare. Fino a Turing questa coincideva con la stessa natura umana; dopo di lui il termine “computer” (“calcolatore”) ha completamente perduto l’originario significato antropologico, diventando sinonimo di macchina programmabile, la macchina di Turing, appunto. Attraverso di essa le ICT hanno enormemente accelerato e potenziato il loro influsso sulle capacità cognitive dell’uomo, fino a mettere in discussione l’unicità e l’esclusività della sua ragione. Egli si scopre informational organism (inforg), inserito in un ambiente informazionale (l’infosfera), che condivide con altri agenti informazionali, sia naturali che artificiali.
Per circa un ventennio la quarta rivoluzione, che è ancora in atto, è stata una rivoluzione ampiamente inavvertita, sia perché è iniziata con segnali spesso apparentemente marginali rispetto alla vita ordinaria, sia per la formidabile accelerazione imposta ai mutamenti dai nuovi strumenti tecnologici. All’inizio gli effetti del personal computer, come quelli della posta elettronica, o quelli provocati dalle compagnie aeree low cost o dalle negoziazioni finanziarie telematiche, non furono realmente e immediatamente visibili. Allo stesso modo un fenomeno come l’accelerazione della velocità nelle comunicazioni, nel trasporto passeggeri e nell’elaborazione di dati, è penetrato nella mentalità comune senza che l’opinione pubblica se ne rendesse immediatamente conto.
Insieme a questa inversione del primato della percezione dello spazio su quella del tempo, l’accelerazione tecnologica ha provocato significativi mutamenti nel mondo soggettivo, a cominciare dall’identità personale, con inevitabili conseguenze sulla questione del senso della vita. Come scrive Hartmut Rosa, infatti, l’identità che un tempo si andava definendo in relazione a progetti e a valori forti, oggi tende ad essere sostituita da un’“identità situazionale e flessibile, che accetta la precarietà di tutte le definizioni del sé e dei parametri di identità e non tenta più di seguire un progetto di vita, ma tende piuttosto a ‘cavalcare l’onda’”. Cosicché il soggetto vive in una permanente incertezza sulla direzione sia della propria vita personale sia della storia in generale. I mutamenti episodici, frenetici, casuali, e i riposizionamenti immotivati prendono il posto di un progresso relativamente rettilineo e finalisticamente orientato, favoriti in ciò da trasformazioni che investono non più il passaggio da una generazione all’altra, ma che sono ormai prevalentemente intra-generazionali.
Se ne possono trarre due osservazioni. Innanzitutto, l’incertezza della direzione corrisponde all’incertezza del senso: in un ambiente tecnologico ad alta obsolescenza perché ad alta accelerazione nei mutamenti, all’io viene a mancare il carattere di ancoraggio stabile per l’identità personale. Il “fatto” che io sono, fondamento della mia esistenza, della mia coscienza e del mio agire nel mondo, sembra non essere più un “fatto”, ma un labile fluire di reazioni agli stimoli provenienti dal mondo tecnologico.
In secondo luogo, la mancanza di sequenzialità nei mutamenti, o almeno l’invisibilità di nessi di causa-effetto, sembra essere il corrispettivo del primato che l’età tecnologica, nella sua declinazione digitale, attribuisce all’immagine rispetto alla scrittura, alla visione non-alfabetica rispetto a quella alfabetica. La scrittura e la lettura, infatti, per loro natura, prevedono una visione e un’intelligenza sequenziali, dato che chi scrive e legge deve procedere in base ad una modalità lineare, una lettera dopo l’altra, una parola dopo l’altra, secondo un ordine necessario e immodificabile se si vuole mantenere il senso del testo. L’immagine, invece, esige una visione simultanea e una forma di intelligenza corrispondente: essa si compone davanti agli occhi non secondo un ordine lineare, ma in modo che gli elementi che la costituiscono ci si presentino, nella visione, tutti insieme. La successione dei mutamenti prodotti dalla tecnologia in genere, e da quella digitale in particolare, sembra imporre un’“immagine” del mondo piuttosto che una “sequenza” di fatti, ossia un’intelligenza non-alfabetica e simultanea, propria delle civiltà orali, piuttosto che alfabetica e sequenziale. Con la quarta rivoluzione si passa da una modalità di conoscenza in cui prevaleva la linearità ad una in cui prevale la simultaneità degli stimoli, secondo quella che Raffaele Simone chiama “migrazione a ritroso” verso forme di comunicazione pre-alfabetiche. L’arresto dell’alfabetizzazione nel contesto mondiale è un segnale inquietante di questo capovolgimento: esso, infatti, porta a pensare che lo “spirito del tempo” non sia più favorevole alla diffusione della visione alfabetica e delle forme di intelligenza che essa favorisce, in primo luogo quella ragionativa e argomentativa, e che rischierebbe quindi di andare perduta; oppure di trasformarsi in strumento di dominio nelle mani dei pochi che ancora la tengono in vita e la sanno esercitare per le proprie strategie di sopraffazione.
Nel contempo l’io, passato attraverso lo svuotamento della sostanza che ancora in età moderna lo costituiva, scopre che la razionalità di cui è dotata la macchina non è affatto inferiore alla sua; anzi, è perfino più sofisticata, capace di calcolare meglio e di rielaborare la massa immane di dati che sta sommergendo il nostro ambiente. Cosicché nel nostro futuro la comunicazione globale si presenterà come un “fenomeno ampiamente non-umano”, nel quale l’uomo delegherà sempre di più la memoria, i compiti quotidiani, la comunicazione, le decisioni, ad agenti artificiali che vanno via via integrandosi con l’ambiente in cui vive, ma non necessariamente con il suo organismo. Essere inforg, infatti, non significa la creazione né di una cyborged humanity né di un’umanità geneticamente modificata, come viene immaginata dal post-humanism, ma condividere con agenti informazionali diversi dall’umano il medesimo ambiente, profondamente trasformato dall’intervento dei dispositivi tecnologici e capace, a sua volta, di trasformare gli agenti che vi operano.
La trasformazione dell’io in inforg ad opera delle ICT incide su una realtà umana già complessa, risultato del combinarsi di un’identità personale (chi sono), di auto-rappresentazioni di se stessi (chi penso di essere) e di un’identità sociale (chi gli altri dicono che io sia, e come io stesso vorrei essere percepito). Quest’ultima è il canale privilegiato dell’influsso esercitato dalle ICT sulle altre forme identitarie. Il caso emblematico è la costruzione dell’identità personale online, ossia di una vita condotta prevalentemente sui social media, nient’affatto virtuale, ma assolutamente reale, dato che coinvolge la persona nell’impegno molto serio del continuo aggiornamento di sé nel proprio profilo social. Si tratta della generazione “iper-auto-cosciente” grazie al flusso ininterrotto di messaggi facebook, twitter, skype,
Questo singolare potenziamento dell’autocoscienza si presenta in una forma del tutto nuova rispetto all’autocoscienza moderna, quella fondata sul Cogito cartesiano: la tecnologia multimediale abbatte il confine fra la sfera privata e quella pubblica, per cui la coscienza di sé si va tanto più affermando quanto più l’io diventa visibile agli altri grazie ai media. Ciò accade in virtù di una narrazione che non mira affatto a tenere insieme le trasformazioni della vita di ciascuno attraverso la memoria del passato che le lega al presente e le proietta nel futuro, in una struttura unitaria che chiamiamo “persona”. Né la narrazione va intesa alla maniera di Paul Ricoeur, come “il frutto di una vita sottoposta ad esame”, e per questo “chiarificata”. Piuttosto, essa consiste nella giustapposizione di un’infinità di “micro-narrazioni”, che riguardano ogni cosa e che si articolano in molti modi, a rappresentare sul piano sociale “un immenso, manifesto flusso di coscienza”, che si ripercuote al livello dell’identità personale e dell’immagine che ciascuno si fa di sé.
Qui l’io si divide fra una dimensione soggettiva e una oggettiva, come avviene nell’esperienza del cosiddetto gaze, ossia dello “sguardo fisso” sul sé riflesso in uno specchio, in modo che il soggetto che fissa lo sguardo diventa un oggetto, come se in realtà qualcun altro lo stesse fissando. Nel gaze potenziato dalle ICT, il digital gaze, l’io utilizza la rappresentazione digitale di se stesso, che altri ne fanno, per costruire un’identità virtuale attraverso la quale cogliere la propria identità personale. Il che avviene in una iterazione (loop) retroattiva e ricorsiva di adattamenti e modificazioni che hanno come obiettivo l’equilibrio fra l’io offline e l’io online. In realtà, questa esperienza, permanente nella vita dell’inforg, è un fattore ampiamente deformante, indotto com’è dalla natura del medium digitale, che fornisce una prospettiva solo parziale su se stessi, per cui, in definitiva, questa specie di specchio non può fornire alcun accesso alla vera immagine di sé.
Come osserva Luciano Floridi, “se tu guardi me che ti sto guardando in un modo che non ti piace, potresti essere tentato di adattare e modificare il tuo io finché il modo in cui tu guardi me che guardo te alla fine ti piacerà, e questo potrebbe non essere necessariamente un bene”.
Dunque, chi sono io?
di Michele Marchetto
 
Per approfondire:
J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, trad. it. di G. Piana, Raffaello Cortina, Milano 1996.
A. Fabris, a cura di, Etica del virtuale, Vita e Pensiero, Milano 2007.
Id., Etica delle nuove tecnologie, La Scuola, Brescia 2012.
L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano 2017.
M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2011.
U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io, in Id., Scritti, I, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, 87-94.
P. Levy, Il virtuale, trad. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Raffaello Cortina, Milano 1997.
R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
P. Ricoeur, Tempo e racconto, III. Il tempo raccontato, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 2007.
P.C. Rivoltella, Le virtù del digitale. Per un’etica dei media, La Scuola, Brescia 2015.
H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, trad. it. di E. Leonzio, Einaudi, Torino 2015.
R. Simone, Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, Milano 2012.