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GIOVANI “SENZATETTO
Alcuni titoli di pubblicazioni sulla condizione giovanile descrivono le attuali generazioni come:
– sdraiati
– fragili e spavaldi
– incapaci di distinguere il bene dal male
– senza progetti
– apatici
– disorientati e soli
– senza padri né maestri
– (e altro ancora…)
Se sono così, è tutta colpa loro o piuttosto il fenomeno è il prodotto di una mancata “eredità” (educativa, culturale, valoriale…) nei passaggi intergenerazionali?
In questa prima parte ne analizziamo le conseguenze e successivamente le possibili risposte/cambiamenti per affrontare le emergenze educative.
 

  1. I fenomeni emergenti

 
L’attuale periodo storico pur disponendo di beni, mezzi e risorse di cui l’umanità non aveva mai goduto in passato, si caratterizza al tempo stesso per una serie di problematiche e di emergenze che vanno dall’inquinamento alla difesa dell’ambiente, da quelle alimentari a quelle energetiche, dai processi di globalizzazione alle migrazioni di massa.
A fronte di queste problematiche i giovani di oggi vivono in un contesto che si caratterizza per essere non solo all’insegna della complessità, quanto soprattutto di un forte indice di “disorientamento” a causa dell’accelerazione dei cambiamenti in atto. Problematiche che provocano opportunità ma anche esclusioni, accentuata competitività e precarietà. Ciò che ne va di mezzo è soprattutto il diritto ad un futuro fondato su una migliore qualità della vita.
 
1.1. Senza padri, né maestri
 
I giovani sembrano percepire di far parte di un mondo “vecchio”, dove non c’è spazio per loro: “Ci stanno rovinando la vita!”, “Non c’è posto per noi in questa società”, “Ci stanno rubando il futuro!”, “Ci hanno rubato il lavoro!”, sono le frasi sempre più ricorrenti e che stanno portando masse di giovani di tanti Paesi a manifestare di fronte alle istituzioni parlamentari su scala mondiale. Ciò che preoccupa di più è che al presente non possiamo dedurre quali conseguenze dannose provocheranno queste “rapine” alle spalle delle future generazioni.
La gioventù contemporanea sperimenta infatti più che mai sulla propria pelle il pluralismo delle culture, l’accelerazione del tempo (con invecchiamento precoce degli individui, delle relazioni umane, dei modelli di vita e di consumo …), la frammentazione dei valori, la complessità degli eventi che caratterizzano il vissuto quotidiano a livello micro e macro sociale, il conflitto ermeneutico, i condizionamenti del mercato-consumo globalizzato, la centralità del corpo, lo smarrimento nella prova dei sentimenti e delle emozioni, la profonda frattura provocata dalla perdita della memoria storica e la mancanza di prospettive di futuro e di progettualità.
Senza padri, né maestri, ma anche senza “patria”, in permanente fuga alla ricerca di luoghi-spazi ove realizzare i propri sogni. Le conseguenze più immediate le riscontriamo in quegli tzunami migratori dalle dimensioni esodali: si è dato il via ad una rincorsa dove tutti, in diverso modo e a seconda dei bisogni, vanno alla ricerca non solo di “nuove terre” ma soprattutto di “nuove opportunità” di vita.
Il giovane di oggi quindi può essere paragonato a tutti gli effetti ad un “orfano”, se rapportato ai processi educativi delle società “senza padri né maestri”. Di fatto egli approda in un “limbo” dove la liquefazione del tempo e delle relazioni sociali stanno ipotecando il suo futuro.
 
1.2. “Rapidazione” (Papa Francesco)
 
Un altro fenomeno che appartiene ai cambiamenti generazionali sta nella “rapidazione” con cui essi avvengono: tutto avviene nel “presentismo”, cosicché tutto è destinato ad invecchiare precocemente. Accelerazione del tempo e cambiamenti costituiscono il binario su cui scorre la locomotiva della società contemporanea: il valore delle cose non si misura più per la loro durata e validità, ma per l’uso strumentale che se ne fa nel generare piacere, poi si cambia con un altro. E’ come se nell’”usa e getta” non sia previsto alcun riciclo, né di tipo materiale e tanto meno valoriale.
Un tempo “a-crono”, privo di sequenze e di cicli: se tutto è contemporaneo, non c’è posto per la memoria. Un tempo senza memoria del passato e senza slanci verso il futuro è destinato a diventare “liquido”, incastrato nell’attimo fuggente. Da un lato vengono meno quelle radici solide, ancorate alle esperienze della vita concreta che fanno crescere, mentre dall’altro, dove tutto è “presente”, non c’è posto per sognare e per progettare il futuro.
La conseguenza è una vita appiattita sul “presente”, senza futuro e quindi senza orizzonti progettuali, rattrappita sul “qui e ora, tutto e subito!”. L’”uomo-presente” ha smarrito la bussola nel rapporto con il tempo: la sottomissione a un presentismo, frantumato in una frequenza di attimi, ha fatto perdere il rapporto con il “tempo lineare”, quello che ha permesso finora un percorso “in linea” con l’identità; un crescere attraversando gradualmente i vari stadi di sviluppo: dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità adulta e responsabile.
Il passaggio dalla dimensione lineare a quella circolare del tempo genera invece un individuo con un’identità frammentata, facilmente assoggettabile ai poteri forti che stanno dietro alla tecnologia e ai sistemi di comunicazione di massa, e di conseguenza un’identità schiava, “asservita” al sistema dominante, sempre meno in grado di essere protagonista della realizzazione di sé e del bene comune.
 
1.3. La società della “super-diversità”
 
Una prima “super-diversità” va collegata ad un intreccio di variabili associate a nazionalità, etnia, lingua, religione, ideologia, motivazione, percorsi di migrazione.
Un’altra “super-diversità” va individuata in un’identità plurima, sotto il profilo socio-culturale, frutto di matrimoni misti e di cui sono sempre più portatrici le nuove generazioni. Oggi questo fenomeno è fortemente favorito dai sistemi di informatizzazione su cui viaggiano gli scambi ed i processi di globalizzazione. Chi risente maggiormente di questi cambiamenti epocali sono i giovani, pressati, sedotti dalle “sirene tecnologiche”, spesso veicolo di condizionamenti subdoli, ingannevoli.
 
1.4. L’esperienza corto-circuitata tra reale e virtuale
 
Muoiono antiche società nate sulla vicinanza spaziale e socio-culturale e, viceversa, nascono sempre più nuove comunità virtuali fluttuanti tra locale e globale, tra qui e altrove, in grado di provocare accelerazione della vita su tutti gli spazi-tempo, interconnessione simultanea, interdipendenza di tutto con tutto. Conseguenza: finisce il futuro prevedibile, quindi finisce anche per i giovani la voglia di progettare il proprio futuro.
Questa prossimità spazio-temporale non garantisce tuttavia l’aver qualcosa in comune e ciò che ne va di mezzo è il senso di cittadinanza: l’idea di cittadinanza resta legata al vecchio “spazio”, mentre nel frattempo stanno nascendo sempre più “cittadinanze virtuali”.
L’altra emergenza riguarda la multi-identità: questo fluttuare tra locale e globale, tra qui e altrove porta a “de-spazializzare” anche l’identità: i giovani vengono coinvolti in processi che danno loro “appartenenza” a più “comunità”, quali fonti di altrettante   identità “liquide”; una molteplicità di spazi comunicativi in cui si intrecciano fattori, talora conflittuali, che giocano a frammentare l’identità poiché a questa età mancano gli “strumenti” (risorse, competenze, maturità…) che permetterebbero lor di “mediare” le varie identità di volta in volta acquisite.
 
1.5. Lo sviluppo dei saperi al di fuori di ogni controllo
 
Un recente studio[1] che ha coinvolto studenti delle scuole secondarie di secondo grado ha rilevato: – gli studenti, avendo poca speranza nei confronti del futuro, tendono ad investire meno nella formazione, sono pessimisti, hanno meno grinta, meno abilità di problem solving;
– il 70% degli studenti apprende fuori dalla scuola, ma senza un “filtro” e senza sentire il bisogno di impegnarsi per apprendere.
Si è di fronte ad una “babele” enciclopedica, dove tutto accade fuori dal controllo della scuola: i giovani sono esposti ad una molteplicità di apprendimenti senza possedere competenze interpretative e selettive.
Il fenomeno è l’evidente conseguenza di una scuola che produce saperi statici, rigidi, omologati, frammentati e, come tali, non al passo per interagire con l’altro 70% di apprendimenti via on line. Ne consegue che la scuola ha perso ormai la funzione di istruzione, non è più formativa, in quanto sempre meno in grado di offrire linee-guida per la crescita (personale, sociale, professionale…). Questo significa che si è di fronte ad una vera e propria “Caporetto” dai suoi compiti.
 
1.6. Le condotte a rischio
 
Infine non si può non prendere in considerazioni l’emergenza più emergente, i giovani a rischio:
– hanno difficoltà a dare un senso alla vita;
– questo senso lo trovano talora “sfidando la morte” (dare prove di coraggio, stendersi sui binari…): il fatto di essere sopravvissuti dopo aver sfidato la morte dà loro il senso di sentirsi “vincitori” sulla vita;
– sono inchiodati su se stessi, fino ad arrivare a cancellare l’identità (Hikikomori…);
– sono dei “contrabandieri” di se stessi: il corpo come schermo su cui auto-presentarsi (tatuaggi, piercing, taglio dei capelli, abbigliamento alla moda…) per agganciarsi/sentirsi parte attiva della società consumistica;
– sono come una “camera di decompressione”: droghe, alcol, altre dipendenza vengono utilizzate per colmare “il buco”, il vuoto interiore; un modo per ancorarsi al mondo da parte di chi non è del tutto “morto” a se stesso, una specie di cadavere ambulante.
Il giovane che ha la passione per il rischio non trova in sé il sentimento di essere vivo/reale. E tuttavia anche le condotte a rischio trovano un certo scopo nella costruzione dell’identità in quanto il “riconoscimento” della propria identità-a-rischio gli viene dato dal gruppo dei pari a cui appartengono, e non dalla società degli adulti da cui si sentono esclusi. E comunque pure in questo caso non bisogna rinunciare ad educare: anche nelle condotte a rischio, infatti, non c’è nulla di perduto. I giovani che non hanno un senso della vita non avendo più nulla da perdere inventano nuovi riti: ed è proprio lì, in questo preciso contesto che bisogna sapere come intercettarli.
Dall’insieme di queste emergenze si ha la percezione della profonda frattura che nel tempo si è venuta provocando ormai tra il mondo adulto e le giovani generazioni: l’adulto di oggi sembra offrire più libertà e protezione, piuttosto che testimonianza, dialogo e ascolto; per converso l’atteggiamento delle giovani generazioni sembra catalizzarsi sotto la voce del riscatto: “Non ci avrete mai come volete voi, a vostra immagine!”
 

  1. Le sfide emergenti

 
Cosa fare perché gli adulti responsabili, di fronte a questo gap generazionale non mettano la testa sotto la sabbia di fronte alle emergenze educative?
Per rispondere a questo interrogativo occorrerebbe partire dal porsi altri interrogativi:
come cambia la domanda educativa nei confronti delle nuove generazioni?
– quali metodologie/strategie educative innovative occorrerebbe mettere in atto per intercettare le nuove generazioni?
E’ un dato di fatto che i giovani di oggi tendono a restare giovani sempre più a lungo e, al tempo stesso, a diventare adulti prima. In pratica si ha a che fare con una “adolescenza prolungata” che utilizza strumenti mediatici che permettono loro di anticipare le competenze di “adulti” rispetto ai tempi impiegati dalle precedenti generazioni.
Ne consegue che i confini tra adolescenza, gioventù ed età adulta diventano sempre più labili.
 
2.1. La famiglia dov’è?
 
Anzitutto bisognerebbe partire dal chiedersi “quale” famiglia: classica, monoparentale, ricostruita, coppie di fatto…?
La stessa idea di “famiglia” quindi sta mutando. Ma è proprio dalla famiglia che oggi scaturiscono al suo interno fenomeni sociali emergenti: abbandono, maltrattamenti, violenza, abusi sessuali… che contribuiscono ad aumentare le “povertà”: crisi, separazioni, relazioni conflittuali, solitudine, abbandono delle responsabilità…, tutti fattori inquinanti che hanno diretta ricaduta sul disagio dei figli.
Per quanto riguarda poi l’emergenza educativa ci si scontra sempre più con un’educazione familiare carente di obiettivi e di valori, che considera i figli dei “pacchi postali” caricandoli di impegni, ma senza avere tempo e pazienza per il dialogo e il confronto, al fine di coinvolgerli nell’autoeducazione, nel prendersi responsabilità per costruirsi il proprio futuro.
Per di più la famiglia che si sente impotente di fronte alle emergenze educative non può sottrarsi al proprio compito formativo ritenendo di poterlo delegare, scaricandolo sulla scuola e/o su altre agenzie educative, ma rimane a tutti gli effetti “titolare” nel farsi responsabile dell’intervento educativo.
Oggi quindi la famiglia deve saper rinegoziare con una società in rapida evoluzione al fine di ottenere una ricaduta sugli equilibri familiari: i genitori sono chiamati a gestire il delicato equilibrio tra la necessità di mantenere economicamente i figli sempre più a lungo e, contemporaneamente di riconoscere loro autonomia sociale e indipendenza culturale.
Di conseguenza, coinvolgere i giovani in progettazioni future di qualità, inclusive e sostenibili, significa partire dal chiedersi “quali nuove sfide” occorre affrontare, quali obiettivi perseguire in termini comportamentali, in grado di coniugare l’io con il tu, con il noi, il privato con il pubblico, il capitale personale con la prosocialità e il bene comune.
Tale equilibrio può essere trovato partendo anzitutto dall’offrire un’educazione che sappia farsi “prossimità”, vicinanza, quale pedagogia del “viaggio”. Il “viaggio”, infatti, è una sfida, un andare alla scoperta, una conquista, ma può trasformarsi anche in un pericolo, in un perdersi/smarrire la giusta direzione. Lo stesso si può dire dell’educazione, che si distingue tra quella che è una sfida aperta alla “scoperta” (di sé, delle relazioni con l’altro…) e quella ripetitiva, arroccata su vecchie formule, non più in grado di alimentare la costruzione della personalità delle nuove generazioni.
 
2.2. Occorre educare tutti ad educar-“ci”
 
Perché i giovani abbiano un futuro è necessario anzitutto che siano stati “educati ad orientarsi” verso il futuro, disponendo di buone “guide”. In questo senso l’educazione è prevenzione, è preparare a ogni possibile cambiamento, trasformazione (relazionale, sociale, economica, tecnologica…). Da qui la necessità di partire anzitutto dall’educare gli adulti (genitori, insegnanti, educatori…) offrendo loro la “patente” per guidare le giovani generazioni, dopo aver appreso nuove modalità di comunicare/relazionarsi con loro.
Al tempo stesso il gruppo dei pari, reale e contemporaneamente virtuale, costituisce per le nuove generazioni il bacino d’incubazione per la crescita dell’identità.
La peer education può rappresentare al riguardo il ponte di comunicazione tra l’adulto e l’adolescente. Queste amicizie/relazioni, specchio per l’adolescente del proprio sviluppo identitativo, assolvono alla funzione di “camera di compensazione” dei rapporti sociali. Man mano che acquista/conquista una propria identità il giovane sarà in grado di fare scelte più responsabili, in grado di arricchire la sua personalità secondo una linea di ricerca di senso.
 
2.3. Educare alla responsabilità
 
In tema educativo ci si interroga sul rapporto sempre più stretto che intercorre tra responsabilità e processi educativi. Solo se si forma una società rispettosa dell’altro e delle regole si può contribuire a superare la crisi valoriale a cui stiamo assistendo attraverso un’educazione che non passa soltanto dalle aule scolastiche. Devono entrare in gioco competenze da testimoniare e poi trasmettere, le strategie per affrontare le problematiche da risolvere, l’impegno per la gestione del bene comune.
Non si tratta semplicemente di “indottrinare” le nuove generazioni, ma piuttosto di testimoniare uno stile di vita che permetta loro di acquisire atteggiamenti responsabili sulle proprie azioni e che permetta di vivere la cittadinanza in maniera attiva e responsabile. La sfida educativa si colloca infatti nella dialettica tra rispetto delle regole e libertà, al fine di un corretto uso della libertà stessa: rispondere delle proprie azioni e delle loro conseguenze.
Senza l’applicazione disciplinata di regole non si può costruire una società educata ed educante, ma solo gruppi di “nomadi” dove ognuno sopravvive in funzione di se stesso. Lo sviluppo delle responsabilità nelle relazioni tra persone richiede invece che esse si basino anzitutto sul rispetto e sul riconoscimento degli altri in qualità di portatori di pari libertà e dignità. Per cui, in sostanza, occorre partire dall’educare i genitori ad educare i figli alla responsabilità.
Il fondamento dell’azione educativa infatti sta nel riconoscere pari dignità ad ogni persona, indipendentemente da qualsiasi etnia, ideologia, religione appartenga.
Educare a vivere “in/come” comunità aiuta perciò a sentirsi tutti più responsabili.
 
2.4. Educare alla cittadinanza
 
La responsabilità a sua volta ben si coniuga con la cittadinanza: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza delle generazioni future (Hans Jonas).
Bisogna educare/ci a vivere il mondo come qualcosa di cui ognuno, seppure nel suo piccolo, è responsabile, evitando di scadere nella facile delega (alle istituzioni, alla politica…), soprattutto quando sono in crisi i rapporti sociali e si è portati a contrarsi/rinchiudersi/murarsi entro rapporti “noistici”.
La responsabilità a sua volta risponde al concetto di libertà, e viceversa. Chi è responsabile è libero. Dal canto suo la libertà è fatta di relazioni, rapporti, legami, comunicazioni che creano “comunione & comunità”, che danno l’opportunità di far crescere le proprie potenzialità, di fare libere ma responsabili scelte, di affermarsi con una propria identità e autonomia.
Ne consegue che l’educazione alla cittadinanza attiva non appartiene solo alle istituzioni educative (scuola, famiglia…) ma è responsabilità di “tutti verso tutti”. Così come tutti “insieme” ci educhiamo, altrettanto si deve dire che tutti insieme ci responsabilizziamo ad educare.
La cittadinanza non si impara sui libri ma diventa “attiva” quando si assumono responsabilità verso gli altri e verso il contesto-ambinte di vita, in pratica si impara attraverso concrete esperienze di vita. Non basta conoscere ciò che è bene, per essere buoni (per dirla con Aristotele).
 
2.5. “Service Learning”
 
E’ uno dei metodi pedagogici per formare ad una cittadinanza attiva: “apprendere serve, servire insegna”. A loro volta “apprendere” e “servire” sono legati da una relazione circolare che vede il soggetto in formazione mettere a disposizione degli altri (servizio), di fronte a problemi reali, le competenze che sta sviluppando grazie a ciò che apprende. Ciò significa compiere azioni solidali capaci di rispondere con “competenza” a problemi realmente presenti nel contesto-ambiente.
Se poi un tale metodo viene calato nel contesto scolastico di apprendimento, ciò porta a rinnovare le competenze delle discipline scolastiche, intese non più come deposito di conoscenze astratte e presto dimenticate, ma come strumenti concreti in grado di contribuire costruttivamente alla vita del contesto-ambiente sociale in cui si gestisce la propria vita.
In tal modo gli alunni diventano protagonisti del proprio apprendimento, in quanto motivati e capaci di dare senso, di misurarsi nel sentirsi coinvolti in iniziative concrete di risposta ai bisogni presenti nel sociale.
In questo modo la “solidarietà” e la “cittadinanza attiva” non sono qualcosa che si predica nelle aule, ma si sperimenta in pratica nella vita, testimoniandola.
Sul piano pedagogico questo metodo ha una ricaduta sull’educazione integrale del giovane, promuovendo lo sviluppo della mente (la testa ben fatta), della mano (le competenze nell’azione) e del cuore (la disponibilità/solidarietà verso gli altri).
Sotto questo profilo l’educazione quindi è di fronte a sempre nuove sfide: nuove tecnologie, globalizzazione, migrazioni, diseguaglianze sociali, conflitti identitari, ambiente… non si possono più affrontare con vecchie categorie di pensiero e di discipline di apprendimento prodotte in età “arcaiche”. La sfida posta dall’educare richiede di rifarsi al principio dell’”imparare-facendo”, dove si sperimentano in partica i principi della cittadinanza attiva, del dialogo tra le “differenti-diversità”, dell’impegno per il bene comune.
 
2.6. Educare alla ”cura della casa comune”
 
E’ un dato di fatto che la forte crescita tecnologica non è stata accompagnata da altrettanta crescita dell’essere umano in fatto di coscienza, valori, responsabilità civili/sociali.
Occorre quindi potenziare fin da giovani la “coscienza ambientale” con l’educazione ad un uso critico delle risorse che favoriscono il rispetto dell’ambiente; beni prodotti da materie prime che sono patrimonio di “tutta” l’umanità.
Questo richiede una educazione che comporti il passaggio da una “cultura dello scarto” all’etica del “prendersi cura/custodire”, a creare un atteggiamento interiore allargato a una “ecologia integrale”: società, cultura, economia, politica.
L’educazione diventa così una opportunità per far leva non soltanto sulla paura di catastrofi, quanto soprattutto sul riconoscimento che ogni risorsa del creato (uomo, animali, piante, suolo, aria, acqua…) ha un valore da rispettare, ha il mandato di una custodia responsabile, e non un possesso di cui abusare, aggredire, predare.
 
2.7. Educare ai media
 
La “Teoria della spirale” applicata ai mezzi di comunicazione di massa attribuisce i cambiamenti sociali ad un duplice movimento, circolare e verticale al tempo stesso: essi, informando, condizionano la società la quale, modificata dall’esposizione ai mezzi, scopre nuovi bisogni e a sua volta reagisce richiedendo nuove prestazioni per soddisfarli, influenzando e condizionando in tal modo la natura, la funzione ed i contenuti dei mezzi stessi.
Un tale movimento, circolare-verticale, non è innocuo, comporta dei rischi: o ci porta più in alto, se questi bisogni corrispondono a valori-guida che ci fanno crescere, o ci fanno scendere sempre più in basso a causa dell’omologazione e massificazione dilagante dei bisogni, che favorisce inesorabilmente il grande business della globalizzazione dei consumi.
Un piccolo ma significativo esempio di questa discesa viene dall’adozione nei media di un linguaggio sempre più strepitante, sgrammaticato, volgare ed aggressivo, fino allo scontro verbale (e talora non solo).
Tutto questo rimanda alla questione etica della mission dei media: la loro mission è quella di farsi strumento di cultura, educando e migliorando la società facendola crescere attraverso la qualità dei programmi, o piuttosto di soddisfare l’utente per ottenerne il più alto tasso di ascolto-consenso (e con esso del mercato-profit)?
Dal confronto tra media ed educazione è nata una nuova branca della pedagogia, “Media Education”, la quale mira a fornire una competenza mediale culturale affinché il minore sappia confrontarsi in modo critico e costruttivo con l’universo dei media creando nuove forme di comunicazione.
Non solo educazione con i media, quindi, ma l’educazione ai media, facendo riferimento alla comprensione critica dei media, intesi non solo come strumenti ma come nuovo linguaggio e cultura.
Questa educazione si caratterizza per prendere avvio da alcune domande di fondo: chi comunica e perché? Che tipi di comunicazione si tratta? Come è stata prodotta? Come se ne conosce il significato? Chi riceve il messaggio quale significato gli attribuisce? Quali interessi sono in gioco? Come viene rappresentata la “realtà”?
La finalità è il conseguimento dell’autonomia critica a fronte delle sempre nuove sfide prodotte dall’avanzare della tecnologia.
 
2.8. Educare attraverso attività extracurricolari per diventare protagonisti del proprio percorso di vita
 
Prendiamo esempio, in particolare, dallo sport.
Con lo sport:
– si sperimentano le proprie capacità e abilità (autostima);
– si superano i propri limiti (autocontrollo);
– si impara a stare bene con se stessi appropriandosi del proprio corpo (auto-coscienza);
– ci si allena sistematicamente per conseguire risultati (porsi obiettivi e raggiungerli);
– ci si auto-valuta di fronte a ostacoli e sconfitte (pensiero critico);
– si tende a migliorarsi sempre più (pensiero positivo);
– si decide le possibili scelte da fare (presa delle decisioni);
– si accetta l’aiuto degli altri (interdipendenza);
– si cerca di risollevarsi dalla sconfitta facendone tesoro (controllo delle emozioni);
– si impara a lavorare in gruppo (lavoro in team);
– se fanno sempre nuove amicizie (relazionalità);
– si sperimenta il rispetto per compagni e avversari (interazioni empatiche);
– si imparano e si adattano strategie di gioco (problem solving).
 
L’efficacia educativa dello sport non dipende solo dall’acquisizione di specifiche abilità motorie quanto soprattutto dalle interazioni tra dirigenti, allenatori, giocatori, genitori, educatori che trasmettono comportamenti e valori positivi.
Ciò comporta di coinvolgere i ragazzi proponendo attività in cui siano protagonisti in prima persona nella gestione delle responsabilità.
Lo sport rappresenta uno strumento privilegiato per una sfida al superamento dei limiti personali attraverso la dedizione (allenamento costante), la resilienza (in caso di sconfitta), il conseguimento dell’obiettivo (in caso di vittoria): processo che ha successo soltanto se condiviso tra l’allenatore/educatore (“alleducatore”) e l’atleta. Migliorando le proprie potenzialità quest’ultimo acquisisce contestualmente fiducia in se stesso, autostima, pensare positivo, autoefficienza, diventando così protagonista del proprio processo di crescita e di presa delle responsabilità nel “giocare” il proprio ruolo all’interno della vita di squadra, facendo reale esperienza di condivisione.
In tal modo il “campo sportivo”, inteso e vissuto come materia prima ma anche come contesto-ambiente, si traduce in una vera e propria palestra di vita ove si praticano relazionalità, cooperazione, solidarietà, “intelligenza sociale”.
Lo scontro-confronto con gli altri, compagni e avversari, stimola strategie di problem solving, gestione responsabile del proprio ruolo per la riuscita collegiale, capacità di rimodulazione delle strategie da adottare, appropriate modalità di espressione delle proprie emozioni di fronte sia al successo che alla sconfitta. Apprendimenti trasferibili poi anche ai diversi ambiti “fuori campo”, nel contesto stesso della vita quotidiana.
In pratica, l’acquisizione di una piena padronanza di “abilità di vita” porta poi a scoprire la propria vocazione/posizione da “giocare” anche nella vita attiva: definizione degli obiettivi, risoluzione dei problemi, pensiero positivo, controllo delle emozioni e dei comportamenti impulsivi e antisociali, capacità decisionali, pensiero creativo, clima motivazionale, senso di autoefficacia, orientamento al successo, attitudine a superare gli ostacoli confidando nelle capacità proprie e dell’aiuto di squadra, utilizzando diverse modalità comunicative per imparare dagli altri, trovare l’intesa, affinare le strategie, educano l’atleta alla cittadinanza attiva, al rispetto delle regole, alla lotta contro ogni forma di violenza e di discriminazione, ai valori di inclusione sociale.
 

  1. Concludendo

 
La relazione educativa deve costituire il contenitore entro cui si rende possibile per il giovane strutturare la propria personalità e diventare protagonista della propria crescita assumendosene la responsabilità: si tratta di fare il passaggio dall’educazione all’auto-educazione.
Per fare questo passaggio:

  1. a) occorre saper lavorare in rete tra i vari soggetti pubblici e privati che si occupano di educazione e di formazione;
  2. b) ma soprattutto occorre cambiare la propria forma mentis.

 
Tutto questo rimanda alla scoperta di nuove formule educative.
In sintesi, nel riquadro in basso viene riportata, nel lato sinistro, una serie di cambiamenti nelle nuove generazioni e, negli altri due riquadri a destra, sono stati descritti, contestualmente ai cambiamenti generazionali, i cambiamenti che occorre apportare nella forma mentis degli adulti (genitori, insegnanti, educatori…) per entrare nei loro “mondi”[2].

CAMBIAMENTI GENERAZIONALI   CAMBIAMENTI nella FORMA MENTIS….        … per ENTRARE-INQUEI MONDI”
– la loro comunità sta nella rete
– la rete è “casa loro”, il baricentro della loro vita
– senza Wi Fi si sentono persi
– emigranti digitali
– solitari-interconnessi
– autistici-elettronici
– rimangono ammaliati da “sirene” digitali di ogni tipo
– alla ricerca permanente di collegamenti
– equipaggiati di tutti i tipi di beni
– si abbuffano a fronte di un menù di scelte consumistiche
– non progettano di formare famiglia né di avere figli
– non accettano l’autorità
– i divieti non li accettano né sono efficaci per la loro crescita
– le istituzioni non sono credibili, non funzionano
– nessuno ha la verità
– la fede non li interessa o non va imposta
– il Vangelo non è utile per vivere
– sono mix di tutto un pò: credenti-increduli ma anche increduli-credenti
– non sposano “una” sola causa, perché il loro baricentro si sposta contestualmente al variare degli interessi
– non scelgono pur di essere scelti dalle tecnologie
– gioventù “liquida”
– più allegri che ottimisti
– più curiosi che interessati
– più aperti che profondi
– più capacità creative che concretamente operative
– generazione “porosa”, spugnosa, assorbente
– imbrigliati tra una cultura a ribasso e voglia di cambiamento
– bulimia di emozioni allo sbando, senza far intervenire la ragione
– ricercatori affamati di felicità disancorata da concrete possibilità di realizzarla
– sospesi tra “non più” e “non ancora”
– “rapidazione” (Papa Francesco – l’azione che ha una durata nel tempo per loro non ha più senso perché occorre cambiare e poi cambiare ancora il più rapidamente possibile…)
– vivono nel “presentismo”
– vivono in un tempo privo del corpo fisico per diventare prigionieri di un corpo virtuale
– vivono nel “tempo liquido” (senza passato né futuro)
– vivono nel tempo “acrono” (un tempo-non-tempo)
– vivono in uno spazio “smaterializzato”
– radicati nel qui e ora, mordi e fuggi, carpe diem
– vedo/sento/sono collegato… ergo sum!
Occorre fare il sorpasso ….
… dal fare-per, al fare-“con”, accompagnando
… dallo stare insieme, a essere “mente collettiva
… dal senso di impotenza, a sentirsi “agenti di cambiamento
… da usufruitori, a “produttori” di servizi educativi
… da una critica distruttiva, ad una “critica-mente” costruttiva;
… dal curare, al “prendersi cura”;
… da un atteggiamento pessimistico di fronte ai problemi, alla capacità di “problem solving
… dall’”io”, al “tu”, al “noi
… da una rigida posizione di chiusura (“aut”…”aut”), a quella flessibile fatta di “et”…”et”
… dal pensiero unico, al “pensiero sistemico-reticolare
… dal conflitto, alla negoziazione, al dialogo
… da leadership onnipotente, a leadership “di servizio
… dalla semplice accoglienza e accettazione, alla condivisione, alla cooperazione
… dall’interazione, all’integrazione, all’interdipendenza
… dal dare, all’interscambio dare-ricevere fondato su un asse paritario di reciprocità
… da un atteggiamento critico-distruttivo, all’investimento delle energie nella progettazione attiva
… dal solipsistico fare, al “fare-in-rete” coordinando le risorse comunitarie
… da comunità, a “comunità-di-vita” in grado di auto-rigenerare sempre nuove risorse
… da passivo senso di appartenenza, al “senso-di-comunità”, alla “voglia-di-fare-comunità
 
 
– ascolto+accompagnamento (ma senza correre, stando al loro passo…)
– far diventare loro dei protagonisti (e non solo dei destinatari…)
– fondare la propria autorità sul carisma personale piuttosto che sul ruolo e/o ufficio che si occupa
– andare a scoprire e poi riconoscere le loro potenzialità – saper accettare quel voler essere unici, eccentrici, quel voler mettere tutto sottosopra
– non etichettarli ma rispettarli – interculturare la loro fede con la mentalità delle loro culture “glocali”
– no a una lettura univoca dei giovani
– no a blocchi ma a flussi
– saper sviluppare i loro interessi
– orientarli alle scelte come processo/itinerario metacognitivo per sviluppare la “bussola” dentro di loro
– dare spazio alla narratività (per scoprire “da dove vengo”, “dove sto andando”, “dove voglio andare”…)
– prevenire è educare a scegliere
– educarli a saper fare scelte per crescere, così da uscire dalla schiavitù dell’io-virtuale
– educarli a vivere nel “tempo lineare”, perché (all’opposto di quello “virtuale”) è quello che dà identità
– l’educatore è un raggio di sole che fa crescere la pianta
– educare è portare il giovane ad “abitare” la propria vita
– l’educatore è colui che “pianta la tenda” nel mondo giovanile
– educare è intraprendere percorsi formativi mirati a sconfiggere il senso di impotenza
– saper dare loro la gioia di sentirsi amati
– l’amore è l’alimento per crescere sani
– amorevolezza è amare i giovani così come sono
– amare quello che amano i giovani
 

 
Letteratura di riferimento
Congresso Internazionale “Giovani e scelte di vita”, Roma, Università Salesiana, 20-23 settembre 2018
Costa C.-M. Ivaldo-G.M. Salvati (edd.), Educare alla responsabilità, Roma, Angelicum University Press, 2019
Crugati F., Gli orfani dell’assistenza, Bologna, Il Mulino, 2001
De Rita G.-A. Galdo, Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità, Torino, Einaudi, 2018
Fiorin L., Oltre l’aula. La proposta pedagogica del Service Learning, Milano, Mondadori, 2016
Mortari L. (a cura di), Service Learning. Per un apprendimento responsabile, Milano, FrancoAngeli, 2014
Pieroni V.-A. Santos Fermino, Costruire la comunità. Dal capitale educativo del gruppo alla vita della comunità, Torino, Editrice ELLEDICI, 2019
Pieroni V.-A. Santos Fermino, Fare-rete per educare. La cassetta degli attrezzi & Istruzioni per l’uso, ed. on line EAI /Edizioni Accademiche Italiane), 2017
Rivoltella P.C., Media Education. Modelli, esperienze, profilo professionale, Roma, Carocci, 2001
 
[1] A cura di Nota, Soresi, Ginevra, Santilli, Di Maggio e presentato al XVIII Convegno della Società Italiana Orientamento, Roma, Giugno 2018.
[2] Cfr. Pieroni V.-A. Santos Fermino, Costruire la comunità. Dal capitale educativo del gruppo alla vita della comunità, Torino, Editrice ELLEDICI, 2019, p. 263-65.