È un’evidenza assoluta: se il cuore si ferma la vita muore. Ma il cuore che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita pur essendo al centro della nostra vita. Non dovremmo allora vedere nel carattere autonomo di questo battito un primo volto — il più prossimo — dello straniero? La vita del cuore non è un’esperienza perturbante, come direbbe Freud, dove la familiarità più intima e l’estranietà più radicale si intersecano? La potenza autonoma della vita, la sua eccedenza, non è forse sempre in parte straniera a se stessa?
Prendiamo una vignetta clinica a titolo esemplificativo: un paziente ha la sua prima crisi di panico quando si sofferma ad ascoltare il battito del proprio cuore. Steso nel suo letto ad un certo punto lo coglie il rumore insistente del proprio cuore. È qualcosa al quale solitamente nessuno presta attenzione. La condizione perché la vita sia “naturalmente” viva è, in fondo, sempre quella di dimenticarsi parzialmente di se stessa. È la definizione che il celebre chirurgo René Leriche dava della salute come «il silenzio degli organi». Per questo paziente, invece, il battito del suo cuore interrompe il silenzio facendosi sentire. Egli resta colpito dal constatare che è dalla regolarità sfuggente di questo battito che la sua vita dipende totalmente. Si tratta per lui di un pensiero sufficiente ad alterare il ritmo del suo cuore che inizia ad assumere un andamento sempre più irregolare. A quel punto l’uomo cade in preda all’angoscia: si accorge di essere in balìa di qualcosa che non può governare in nessuna maniera. Panico, perdita di controllo, tremore; il suo cuore accelera i battiti e con essi aumenta la sensazione di sentirsi invaso dalla vita al punto che potrebbe morirne….
Invitato ad intervenire sulla rivista Dedale in un numero monografico del 1999 dedicato a
La venuta dello straniero, il filosofo Jean Luc-Nancy evita di parlare direttamente sul tema del razzismo e, prendendo tutti in contropiede, racconta l’esperienza vissuta del trapianto del proprio cuore (L’intruso, Cronopio 2000). Il verdetto della scienza medica era stato inappellabile: solo un nuovo cuore gli avrebbe permesso di continuare a vivere poiché il vecchio aveva esaurito la sua carica. Una sostituzione si rendeva clinicamente necessaria: il cuore di un altro, di uno straniero (di uno zingaro, di un ebreo, di una polacca, di una nera, di un’omosessuale) doveva subentrare al posto del cuore del filosofo. Ma per rendere possibile un trapianto la medicina sa bene come sia necessario abbassare le difese immunitarie prevenendo eventuali crisi di rigetto. Per consentire alla vita di continuare a vivere — è questa la lezione che possiamo trarre dall’intenso racconto autobiografico di Jean-Luc Nancy — è necessario ridurre l’identità sostanziale di quella vita; è necessario il meticciato, la transizione, la porosità dei confini, la contaminazione con lo straniero. Senza questa apertura, infatti, la vita morirebbe. Lo straniero, il cuore dell’Altro, è l’intruso che non porta la distruzione, ma la possibilità di un rinnovamento della vita. A condizione però che la vita sappia rendere più flessibili i propri confini identitari. Non è questa una lezione etica e politica profonda? Se la vita umana necessita di avere dei confini determinati (la vita senza confini è la vita disperata della schizofrenia), l’irrigidimento del confine, la sua ipertrofia identitaria, rischia di fare morire la vita stessa.
Il tabù dello straniero vorrebbe proteggerci dall’incontro spaesante con l’eccesso della vita che ci invade. Lo sanno bene i bambini che temono l’uomo nero o gli animali più diversi (zoofobie). In questo modo essi trasferiscono all’esterno l’eccesso della vita che li abita e che non sanno governare. La paranoia dell’adulto radicalizza questo tabù originario: meglio proiettare sul nemico, sull’infedele, sul migrante, sull’omosessuale l’eccedenza della vita di cui abbiamo terrore.
Non c’è nulla, infatti, come ricorda Lacan, che faccia più paura della «sensazione della vita». Il tabù dello straniero incanala questa paura esteriorizzandola. Lo ricordava anche Franco Fornari quando, ispirandosi a studi di antropologia, riportava in La psicoanalisi della guerra le ragioni del conflitto armato tra tribù vicine alla difficoltà di simbolizzare il trauma atroce della morte prematura di un bambino. Anziché incamminarsi verso il lutto difficile di questo evento la tribù preferiva attribuire paranoicamente al sortilegio dello stregone della tribù confinante la causa del decesso. In questo modo un nemico reale sostituiva l’ingovernabilità della vita consentendo di trasformare l’angoscia diffusa in una aggressività localizzata e rivolta all’esterno. Il nemico che viene da fuori è infatti sempre meno minaccioso di quello che può sorprenderci dall’interno di noi stessi.
di Massimo Recalcati, in “la Repubblica” del 22 maggio 2016