Un grande tema pedagogico e didattico quello della centralità del bambino e del senso del limite.
Il recente lavoro di Peter Gray dal titolo, Lasciateli giocare, Einaudi, ripropone la tesi che bisogna restituire ai nostri figli la loro autonomia che una concezione aridamente disciplinare della scuola gli ha sottratto. L’ “istruzione forzata” appare come una macchina che spegne la creatività nel nome di una esigenza di controllo e di disciplinamento che viene dal mondo degli adulti.
Questa rappresentazione della problematica dell’educazione, come dice giustamente Recalcati nel suo articolo (Si può consultare la recensione in: http://www.didatticaermeneutica.it/5239-2/ ), risente di una ideologia libertaria che misconosce la funzione della differenza simbolica tra le generazioni e il ruolo essenziale degli adulti nel processo di formazione. Si tratta di una vera e propria “mutazione antropologica”: un tempo l’educazione aveva il compito di liberare il soggetto dalla sua infanzia, oggi si tende invece a concepire l’infanzia come un tempo al quale si vorrebbe essere eternamente fedeli, al di là da tutti quei condizionamenti culturali e sociali. Non si tratta più di educare il bambino alla vita adulta ma di liberare il bambino dalla vita degli adulti.
Nessun tempo come il nostro ha mai esaltato così la centralità del bambino nella vita della famiglia. Tutto pare capovolgersi: non sono più i bambini che si piegano alle leggi della famiglia, ma sono le famiglie che devono piegarsi alle leggi (capricciose) dei bambini. Il compito dell’educatore e del genitore viene così aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole. Il comandamento sociale del soddisfacimento immediato dei propri desideri, attraversa anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del limite e del differimento della soddisfazione.
In un contesto in cui di bambini ne nascono sempre meno e il loro posto viene progressivamente sostituito da animali, hobby, od oggetti di piacere, il bambino ha finito per occupare in modo errato il centro delle famiglie. Il bambino è divenuto un nuovo idolo di fronte al quale, al fine di ottenere la sua benevolenza, i genitori si genuflettono.
Nella pedagogia falsamente libertaria che oscura il trauma benefico del limite come condizione per il potenziamento del desiderio, l’educazione stessa è diventata un tabù arcaico dal quale liberarsi per disfarsi del peso della responsabilità di contribuire a formare la vita del figlio.
Pensiamo sia interessante affrontare questo tema in una apposita discussione del blog.
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4 Commenti
I commenti sono chiusi.
Tutti ci scontriamo nella gestione della classe con problematiche nate da una educazione familiare che ha frainteso la centralità del bambino intendendola come una mancanza di regole, di limiti e di orientamento.
Come è difficile ristabilire una nuova prospettiva decentrata dalla propria esclusiva individualità e aperta alla comunicazione, all’accoglienza e all’inclusione.
Nella Mappa delle parole del nostro tempo costruita da Demos-Coop sulla base di una serie di termini che ricorrono frequenti nei discorsi pubblici, raccolti e selezionati dalla comunicazione mediale e dal linguaggio comune emergono indicazioni interessanti e utili per individuare i percorsi del nostro futuro.
Le parole più ricorrenti associano due diversi campi semantici. La domanda di bene comune. Di economia e di azione condivisa. Di sicurezza sociale e alimentare. Le energie rinnovabili e il bio. La cooperazione. Accanto a loro: i valori e gli obiettivi senza tempo. L’egualitarismo, l’equità fiscale, la legalità.
http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/roma2016/2016/06/03/news/parole-141177818/?rss
Innamorarsi di sé il vizio capitale oltre ogni limite
di Massimo Recalcati
in “la Repubblica” del 25 settembre 2016
“… il peccato principe del nostro tempo? Egocrazia, “Iocrazia”, afferma Lacan. L’ordine della creazione viene capovolto: l’uomo compete con Dio – come figura radicale dell’alterità – negando il suo debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare dall’Altro è la cifra più delirante del nostro tempo. Il culto superbo di se stessi implica, infatti, il disprezzo cinico per l’altro. La vita umana smarrisce ogni senso di solidarietà per dedicarsi a senso unico al potenziamento di se stessa. Per i padri della Chiesa è questa la “vanagloria” di cui si nutre il superbo: farsi autonomo, indipendente, cancellare il debito, credere alla follia del proprio Io autonomo e sovrano. Per questa ragione Lacan ha associato al culto narcisistico per se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva come due facce di una sola medaglia. Il superbo può essere facilmente preda dell’ira perché il suo bisogno di attaccare l’Altro coincide con il suo rifiuto di ogni esperienza del limite. Il superbo come l’iracondo si considera sempre dalla parte del giusto. La sua esaltazione di se stesso mostra una totale assenza di autocritica che può sfociare facilmente nella paranoia e nella megalomania. Il superbo è esente da critica perché è sempre innocente e ingiustamente perseguitato, allontanato, emarginato, escluso. La colpa è sempre degli altri che non riconoscono mai appieno il suo valore assoluto.
Non è un caso che la clinica psicoanalitica abbia individuato – in linea qui con la grande saggezza buddista – nell’eccessivo attaccamento al proprio Io il denominatore comune delle malattie mentali. Ma, al tempo stesso, la vita del superbo è una vita triste perché egli si trova nell’impossibilità di entrare in relazione con un Altro che disprezza supremamente. Il suo destino non può che essere quello del più acuto isolamento. Non a caso la passione più prossima a quella della superbia è l’invidia che, sempre per i padri della Chiesa, viene considerata come il “peccato dei peccati”, il vizio capitale più grande.
Il termine invidia deriva dal latino in-videre che significa guardare male, con occhio malevolo, con malocchio. L’invidia è una patologia dello sguardo? L’invidioso soffre per ciò che vede. Egli non sa tollerare la felicità e la gioia altrui. Come scrive Tommaso d’Aquino la passione invidiosa sorge dalla tristezza causata dai beni altrui. L’invidioso è un essere che vive nelle tenebre, nell’oscurità, covando rancore e frustrazione verso il mondo. È, paradossalmente, l’altra faccia, la faccia in ombra, della superbia.
… Non è poi così strano che la superbia e l’invidia siano considerate anche da Tommaso passioni collegate. Il superbo non può sopportare la vista di altri che vantano maggior prestigio del suo; l’invidia aderisce alla superbia come l’edera al muro. Anche, o soprattutto, quando la superbia si maschera di falsa umiltà. È una patologia tipica dell’uomo religioso: la mortificazione e il sacrificio di sé vengono esibiti come manifestazione di un’elevazione morale superiore finalizzata a scavare nell’altro senso di colpa e di indegnità.”
“I giovani radicalizzati non hanno più pietà perché sono stati svuotati dell’amore”
intervista a Latifa Ibn Ziaten, a cura di Marie-Lucile Kubacki
in “www.lavie.fr” del 28 settembre 2016 (traduzione: http://www.finesettimana.org)
“Latifa è la madre di Imad, assassinato a Tolosa nel marzo 2012, una delle vittime di Mohamed Merah. Suo figlio è stato inumato alla moschea di Saint-Étienne-du-Rouvray, vicino alla chiesa dove padre Hamel è stato ucciso il 26 luglio scorso. Dopo la morte del figlio, Latifa ha fondato l’associazione Imad Ibn Ziaten per i giovani e la pace, e va ovunque per sensibilizzare i giovani e prevenire le derive settarie ed estremiste.
A Saint-Étienne-du-Rouvray, ci si continua ad interrogare. Quali elementi di spiegazione può dare lei al gesto del giovane che ha assassinato padre Hamel?
Usciva di prigione, aveva un braccialetto elettronico, la madre ha cercato più volte di chiedere aiuto, ma nessuno l’ha mai presa sul serio… Penso che abbia voluto colpire un simbolo: un prete, un padre di quell’età, che era là per pregare, è davvero terribile. Padre Hamel, l’avevo visto due volte e quando ho saputo la notizia, la cosa mi ha fatto male nel profondo, fin nelle viscere. Daesh prepara i giovani mettendoli “fuori da se stessi”. Camminano senza avere i piedi per terra. Poco tempo fa ho allontanato due giovani dalla radicalizzazione, e uno di loro mi ha detto: “Ero come nella nebbia, non vedevo davanti a me”. Non hanno più pietà perché sono stati svuotati dell’amore. A volte, discuto con dei giovani, anche con delle ragazze, e ho paura. Mi dicono: “Ho fallito in tutto nella vita, quindi non ho paura di morire, preferisco morire che continuare a soffrire”.