Le valutazioni più recenti attribuiscono al nostro Pianeta 7,4 miliardi di abitanti, di cui oltre 6 localizzati nei così detti ‘Paesi in via di sviluppo ‘ e, tra di essi, quasi un miliardo in quelli a più basso sviluppo.
Ricordando che cinquant’anni fa i corrispondenti valori erano 3,3 miliardi il mondo intero e 2,3 per la componente meno sviluppata – con non più di 300 milioni di persone nei Paesi a sviluppo minimo – si ha chiaramente il quadro di una crescita demografica intensa e differenziata. Una dinamica la cui spinta propulsiva va attribuita principalmente alla componente giovane, se è vero che degli oltre 4 miliardi aggiuntisi, rispetto al 1965, uno si riferisce a soggetti meno che ventenni e circa due riguardano persone tra i 20 e i 50 anni, mentre l’aumento degli ultra65enni è stato solo di poco superiore ai 400 milioni. Va per altro sottolineato come la consistente crescita delle classi d’età giovani sia stata prerogativa quasi esclusiva dei Paesi poveri; le popolazioni dell’area economicamente più avanzata hanno infatti concentrato tutto l’aumento entro le età adulte, segnando un calo nella componente giovane e un accrescimento in quella più anziana.
Spostando l’attenzione verso il futuro, le prospettive delineate dagli studiosi ci appaiono tuttavia alquanto diverse. Col rallentamento della crescita della popolazione mondiale – che pur mette in conto circa 3 miliardi di persone in più tra il 2015 e il 2065 – si fa largo un progressivo, intenso e generalizzato processo di ‘invecchiamento’ degli abitanti del Pianeta. Metà di coloro che si prevedono in più nel 2065, rispetto ad oggi, avrà almeno 60 anni d’età (e un miliardo tra di essi ne avrà più di 70), a fronte di una presenza aggiuntiva di giovani meno che ventenni limitata a circa 250 milioni. Anche negli scenari per gli anni a venire le profonde differenze tra le grandi ripartizioni geopolitiche ed economiche sono destinate a persistere. L’insieme dei Paesi in via di sviluppo accentrerà l’intero aumento della popolazione mondiale, lasciando il complesso dei più sviluppati sostanzialmente fermi alla loro attuale consistenza numerica (poco meno di 1,3 miliardi).
Particolarmente significativa si prospetta la crescita nell’Africa sub-sahariana, destinata a passare dai 962 milioni di abitanti del 2015 a 2,7 miliardi fra cinquant’anni; segnando un’aggiunta di 529 milioni di giovani meno che ventenni, di 156 milioni di anziani, ma soprattutto di più di un miliardo di adulti in età attiva, dei quali oltre la metà tra i 20 e i 40 anni. C osa questo possa significare in termini di potenziale migratorio resta la grande incognita del nostro futuro. Anche perché la capacità di fare sviluppo in quelli che oggi sono i Paesi economicamente più arretrati, trasformando la dinamica e la struttura della loro popolazione da peso in stimolo della crescita economica, si accredita sempre più come obiettivo irrinunciabile per garantire equità ed equilibrio al genere umano.
Di fatto si tratta solo di offrire al complesso dei Paesi a più basso sviluppo l’opportunità di incassare il così detto ‘dividendo demografico’. Ossia quel beneficio che deriva loro da una popolazione per lo più in età attiva in cui, ancora per qualche decennio, il peso dei giovani sarà ridotto senza che si sia già accresciuto quello degli anziani. Riuscire a valorizzare questo enorme potenziale produttivo nei Paesi in cui si forma è certo la migliore strategia per evitare che sia la valvola di sfogo dell’emigrazione a dover attenuare le disparità tra Nord e Sud del mondo.
Ciò premesso, utili elementi di conoscenza per anticipare gli sviluppi futuri e le ricadute cui saremo direttamente esposti in questo scenario di ‘mondo in movimento’ possono ricavarsi dall’analisi dei potenziali flussi migratori dal continente africano verso l’Unione Europea (Ue) in relazione alle dinamiche demoeconomiche che vanno prefigurandosi. Senza dover scomodare nuovi eventi drammatici provocati dalla natura e/o dagli uomini, ma unicamente tenendo conto, in ogni Paese africano, della relazione tra l’eventuale surplus demo-occupazionale – derivante dal divario tra potenziali entrate e uscite dal mercato del lavoro – e l’intensità dei corrispondenti flussi indotti verso la Ue, il totale delle migrazioni verso quest’ultima è stimato in 300-350mila unità annue fino al 2025, con un successivo moderato accrescimento tra il 2026 e il 2030. Nel prossimo quinquennio si valuta che la Ue riceverà quasi 110mila unità annue dall’Africa del Nord e poco più di 190mila dall’area sub-sahariana, mentre nel successivo (2026-2030) le prime scenderanno sotto 90mila unità e le seconde saliranno a circa 230mila.
In sintesi, le migrazioni attese annualmente dall’Africa saranno sempre nell’ordine di 6-7 unità ogni 10.000 abitanti della Ue, ma con forti differenze tra i singoli Paesi. La Spagna manterrà anche in futuro la posizione dominante, con mediamente 15-20 ingressi annui ogni 10.000 abitanti, seguita dal Belgio (15 per 10.000) e da Malta con poco meno. Francia, Svezia, Lussemburgo, Italia e Regno Unito dovrebbero caratterizzarsi per flussi annui attorno a 10 ingressi ogni 10.000 abitanti, precedendo un folto gruppo formato da Austria, Germania, Danimarca, Olanda, Finlandia, Irlanda, Grecia e Cipro con valori attorno a 5 per 10.000. Negli altri 12 paesi della Ue l’incidenza dei flussi africani nel prossimo quindicennio può ritenersi trascurabile. In conclusione, nel corso del XXI secolo qualsiasi considerazione sul binomio popolazione e sviluppo dovrà mettere in conto la crescente mobilità delle persone in un mondo sempre più interconnesso. Gli scenari che i dati statistici vanno disegnando raccontano di un Sud che ammassa capitale umano e, in attesa di cambiamenti (e di capitali) che lo aiutino a incassare il dividendo demografico, guarda ai Paesi economicamente più sviluppati in cui le prospettive di regresso numerico e di un crescente invecchiamento nella struttura per età mettono in discussione alcuni fondamentali equilibri che tradizionalmente hanno garantito condizioni di generale benessere. L a vecchia Europa e la giovane Africa sono chiamate a ricercare una comune strategia che aiuti a risolvere i reciproci e diversi problemi posti da una demografia che, da un lato, si è spinta ben oltre il mitico obiettivo della crescita zero, dall’altro, ha attraversato e sta tuttora vivendo una fase di forte incremento della popolazione destinato a procedere in modo inerziale per almeno un altro mezzo secolo. Se dunque i dati ben dimostrano che la via della pura compensazione tra surplus e deficit demografici appare realisticamente improponibile, il ruolo delle migrazioni dal Sud al Nord del mondo deve potersi trasformare, perché esse siano realmente funzionali, da tradizionale ‘valvola di sfogo’ a vero ‘volano dello sviluppo’, favorendo progetti che prevedano l’accumulo di conoscenze, esperienze e risorse finanziarie con il preciso obiettivo di trasferirle e valorizzarle nei Paesi di origine. In tal senso, l’impegno nel favorire le così dette ‘migrazioni circolari’, attraverso forme nuove maturate da accordi bilaterali tra Paesi e con il coordinamento di organismi sovranazionali, come la stessa Unione Europea, può rappresentare una valida risposta con cui accompagnare questo mondo sempre più ‘in movimento’ lungo la via di uno sviluppo più rapido e equilibrato.

Africa, il boom demografico un capitale per lo sviluppo, di Gian Carlo Blangiardo, in “Avvenire” dell’11 febbraio 2016