Le parole e i gesti di papa Francesco sembrano essere un riferimento importante su molte grandi questioni sia per i credenti sia per i non credenti. Tuttavia, dietro l’adesione di facciata al corso del nuovo pontificato, si perpetua troppo spesso il vizio di strumentalizzare Dio per legittimare le proprie posizioni senza voler cambiare nulla. Non ci si può dichiarare cristiani e prendere parte alle ingiustizie. Non ci si può dichiarare cristiani e accettare la discriminazione di omosessuali, nomadi, carcerati, migranti. Non ci si può dichiarare cristiani ed essere complici della distruzione e dell’usurpazione dell’ambiente. Non ci si può dichiarare cristiani e professare il razzismo. Il libro racconta in prima persona le difficoltà incontrate a tutti i livelli nel proporre l’accoglienza di chi sta ai margini, nei trent’anni dedicati al Centro Balducci per immigrati e profughi (a Zugliano, vicino Udine). Accanto allo sdegno morale per una colpevole indifferenza diffusa dentro e fuori la Chiesa, così come per una politica ritardataria, attendista, autoreferenziale, c’è anche spazio per le esperienze positive e per una speranza. Quella che ciascuno impari a prendersi cura, per quanto può, delle sorti degli altri.
 
Descrizione
Titolo del Libro: Il mio nemico è l’indifferenza
Autore : Di Piazza Pierluigi
Editore: Laterza
Collana: Saggi tascabili Laterza
Data di Pubblicazione: 2016
ISBN-10: 8858123778ISBN-13:
9788858123775
 
La “anormalità” di certi cristiani
di Pierluigi Di Piazza
Dietro l’adesione di facciata alle parole e ai gesti di papa Francesco, si perpetua troppo spesso il vizio di strumentalizzare Dio per legittimare le proprie posizioni senza voler cambiare nulla. Non ci si può dichiarare cristiani e prendere parte alle ingiustizie, sostiene padre Pierluigi Di Piazza, responsabile del centro Balducci per immigrati e profughi di Udine e autore di “Il mio nemico è l’indifferenza” in uscita per Laterza il prossimo 3 marzo. Ne pubblichiamo un’anticipazione.
Fra gli ultimi, anche se la mentalità sta modificandosi in modo significativo, la società colloca ancora gli omosessuali, donne e uomini, e i transessuali. Incontrando queste persone ho imparato a conoscere i vissuti dolorosi del sospetto, del giudizio e del pregiudizio, dell’esclusione; il dramma interiore del proprio essere e dell’avvertire la difficoltà di esprimerlo; il desiderio e l’impegno, specie di alcuni, di dichiarare la propria diversità, di liberarsi dalla paura e dalla sottomissione, di diffondere una cultura dell’accoglienza e del rispetto reciproco.
Ho imparato fragilità, titubanza e indomita volontà di affermarsi come persone e di contribuire a una società in cui non ci siano più esclusi. Queste persone spesso subiscono violenze verbali e fisiche; più di uno si toglie la vita sopraffatto dall’angoscia opprimente di sentirsi giudicato, schernito, evitato. La risposta a questa diversità interpella certamente tutti, dalle famiglie ai mezzi di informazione; ma un compito particolare spetta alla scuola, da quella dell’infanzia all’università. Le recenti polemiche di una parte del mondo cattolico sui transgender mi hanno irritato: avverto come giusto e doveroso un processo educativo in cui si riconoscano le diversità, evitando quelle accentuazioni preventive che nell’esigenza di definire sessualmente in modo schematico uomini e donne, omosessuali e transessuali, di fatto tendono a rimarcare, insieme alle diversità, i pregiudizi e la presunta “normalità”, alla quale corrisponderebbe specularmente l’“anormalità”.
Del resto, quale significato dobbiamo attribuire alle manifestazioni del cosiddetto mondo cattolico preoccupato della confusione delle identità sessuali, se personalmente posso testimoniare il “disastro” educativo dei seminari riguardo all’affettività e alla sessualità, luoghi che prevedevano l’esclusione della donna allo scopo di accentuare l’identità maschile celibataria con forti pericoli di repressione?
Non intendo certo suggerire un meccanico rapporto causa-effetto, ma non mi sento di escludere, in quel tipo di educazione, qualche remota orma del successivo drammatico percorso della pedofilia che purtroppo moltissimi preti e religiosi hanno percorso.
Il primo pensiero va, naturalmente, alle vittime dei terribili abusi; ma non posso fare a meno di pensare con tristezza anche agli abusanti, a loro volta vittime in passato di una istituzione disumana nei confronti di aspetti e dimensioni fondamentali per la vita di ogni persona.
Penso che all’interno della Chiesa ci siano responsabilità enormi per quanto riguarda l’atteggiamento verso forme di sessualità considerate anomale, perché non c’è mai stato un atteggiamento culturale condiviso su corpo e sessualità. Si è separato il corpo dalla profondità dell’anima, dello spirito e lo si è considerato in modo negativo, specie quello femminile, in relazione alla sessualità.
La società del materialismo, dell’esibizione, del consumismo, poi, non ha certo contribuito a un atteggiamento più rispettoso: il corpo viene esibito ed esaltato nella sua bellezza, e trascurato e nascosto nelle sue fragilità e nei suoi limiti. Viceversa, una sensibilità, una cultura e un’etica veramente umane dovrebbero promuovere continuamente il rapporto fra profondità dell’anima e corporeità. Corporeità e profondità dell’animo: avverto come lungo e arduo il cammino per questa indispensabile riconciliazione.
in “il Fatto Quotidiano” del 27 febbraio 2016