«L’incontro a Cuba è un passo storico nell’ecumenismo, ma sotto il profilo dottrinale chi non riconosce il dogma del primato papale resta scismatico ed eretico».
L’intervista al cardinale Velasio De Paolis, canonista e membro della Segnatura Apostolica, comparsa su La Stampa a margine dell’evento a lungo atteso che ha visto protagonisti papa Francesco e il patriarca di Russia Kirill lo scorso 12 febbraio, ha almeno il pregio di mostrare la fatica che fa l’ecumenismo a rendersi pensiero ecclesiale comune e condiviso. Il fatto che citi il Vaticano I, la Pastor Aeternus e la dichiarazione Dominus Iesus è un puro elemento di contorno, in funzione di smorzare gli entusiasmi di quanti hanno parlato, al riguardo, di un punto di non ritorno, per cui …“nulla sarà come prima” (a partire dal priore di Bose Enzo Bianchi, che da molti anni va dedicando energie e intelligenza a creare ponti con l’universo ortodosso).
In sintesi, si potrebbe dire che Francesco sta effettuando il passaggio dalla “pedagogia dei gesti” di Giovanni Paolo II, che traduceva la traiettoria inaugurata da Nostra aetate, e dal “dialogo delle culture” di Benedetto XVI, in risposta all’irrigidimento causato dal timore di un conflitto di civiltà dopo l’11 settembre 2001, all’odierna “teologia dei gesti” del papa venuto “quasi dalla fine del mondo”: ridisegnando così il paradigma dell’incontro fra le Chiese, puntando sui tratti dell’esperienza spirituale, della preghiera, dell’ascolto, del camminare insieme. In una parola: della teologia, non quella dei manuali ma della vita vissuta. Il che non esclude interventi di largo respiro, come quando, il 12 giugno 2015, a san Giovanni in Laterano, nel contesto del ritiro mondiale dei presbiteri, il papa non solo confermò che la divisione fra i cristiani è uno scandalo, e l’ecumenismo non tanto un compito in più da fare, quanto un preciso mandato d’amore affidato da Gesù ai cristiani tutti; ma si spinse a ipotizzare che in tempi brevi ogni cristiano possa festeggiare la Pasqua lo stesso giorno, “segno tangibile per i fedeli e per tutti”.
Si inseriscono in tale traiettoria l’abbraccio dell’Avana e, prima, quelli alla Chiesa valdese a Torino e alla Chiesa luterana a Roma, la consuetudine fraterna degli appuntamenti con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, e il preannunciato viaggio in Svezia il prossimo 31 ottobre, dove prenderà parte a una cerimonia congiunta, in programma a Lund, fra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale, per commemorare il 500° anniversario della Riforma (2017).
Esperienze che precedono e accompagnano il dialogo teologico, rendendolo meno traumatico, e liberandolo da derive ideologiche, freddezza diplomatica e logiche politiciste, in un cammino in cui Francesco sta immettendo come un senso di fretta, e una svolta umana dai riflessi ecclesiali, più che di “diplomazia ecumenica”; coinvolgendovi anche le voci del mondo e del “popolo”. Nella consapevolezza che, con ogni probabilità, le forme storiche del dialogo ecumenico che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento si sono definitivamente esaurite, e che occorre “andare oltre”.
Dove? La fluidità delle appartenenze confessionali, le alleanze trasversali che continuano a formarsi sulle più diverse tematiche, la novità consolidata del proliferare di Chiese indipendenti e di cristiani indisponibili a riconoscersi in una o nell’altra Chiesa storica, e vari altri mutamenti in corso, richiedono uno sforzo ulteriore, e il coraggio di abbandonare presunte certezze.
Personalmente ho un sogno, per il movimento ecumenico: di uscire sempre più dalla cerchia degli addetti ai lavori e di fare opera di benefico contagio nelle piazze, nelle agorà, nei luoghi di socializzazione, e – perché no? – sul web. In vista di una “costituente ecumenica” che – senza ripudiare l’itinerario fin qui tracciato dal movimento ecumenico del XX secolo – si mostri in grado di adottare linguaggi, stili, percorsi innovativi di ascolto fraterno. Per così dire: “laici”.
Anche perché, se si vuole che il cristianesimo continui a vivere e a crescere, proiettato nel futuro, dobbiamo educarci a ringraziare Dio per i grandi doni che ha fatto a tutte le Chiese, a tutte le religioni, a tutte le donne e tutti gli uomini che ama; evitando soprattutto due tentazioni: da una parte, quella di rinchiudersi in un ghetto, cercando di ricreare l’ideale della cristianità del passato, ormai conclusasi definitivamente; dall’altra, quella di assimilarsi completamente alla società in cui si vive, finendo per essere succubi di una cultura ormai secolarizzata. Piuttosto, siamo chiamati a stare con le persone, condividere i loro problemi, porci al loro fianco in ascolto del Vangelo: solo allora potremo scoprire insieme una parola che deve essere condivisa. Perché aveva ragione il gesuita Alfred Delp, giustiziato per il suo impegno nella resistenza antinazista: «Se le Chiese pretendono di continuare a offrire al mondo l’immagine di una cristianità litigiosa, ci si può mettere una croce sopra».
Brunetto Salvarani è teologo, conduttore di “Uomini e Profeti” (Radio 3), autore di “Non possiamo non dirci ecumenici” (Gabrielli 2014)

L’ecumenismo in cammino, di Brunetto Salvarani, in “Adista” – Segni nuovi – n. 9 del 5 marzo 2016