Uno dei miei figli, cui faccio leggere qualche pagina di questo libro e che si meraviglia del mio modo di evocare, evitare, senza però invocarlo mai veramente, il nome del divino, mi pone la domanda che forse si porranno altri lettori: credi in Dio?
A una domanda così diretta, rispondo altrettanto direttamente che non è lì il problema e che, in ogni caso, non si pone in quei termini.
Infatti, se tutto quello che ho scritto finora è, se non vero, almeno sensato, se il genio di Rashi, di Maimonide o di Giona somiglia a ciò che asserisco, se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare.
Ricordo i testi di Levinas che accompagnarono i miei primi passi e che insistevano sulla grande ostilità del pensiero ebraico al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità. Ricordo i suoi ammonimenti, ripresi da Blanchot, contro il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, al punto di vista sull’etica, all’indiscrezione nei confronti del divino la precedenza sulla sollecitudine verso il prossimo. (…) Maimonide parla di veridicità, non di convinzione religiosa. Dice o, piuttosto, sotto-intende che la conoscenza, e la conoscenza solamente, di questo presupposto è il primo dei comandamenti. Senza retorica, senza parola di scongiuro, magica o mistica, insiste che l’edificio dei mondi riposa su un sapere originario, un pensiero, un da’at , mai su una fede iniziale. (…)
E tutti i testi ebraici che conosco lo dicono e lo ripetono: l’uomo non può vedere e vivere; stare nello spazio e nel tempo significa condannare se stessi a non vedere colui che è fuori da questo spazio e da questo tempo; se lo si vedesse, se si rivelasse in un vero vedere, ecco che io stesso non sarei più né in questo spazio né in questo tempo.
Ma soprattutto, mai e poi mai si tratta di crederci.
Mai, da nessuna parte, è pronunciato il «credo in unum Deum» richiesto da coloro ai quali si domanda se «credono in Dio».
La verità è che tutta questa storia del credere riguarda un’altra storia, molto bella, intensamente intrecciata nei cuori e negli affetti: è la storia della «fede che salva» dei paolini. Ma non è la storia di chi insiste nel dirsi ebreo…
Il «credo quia absurdum», per esempio, la rinuncia a entrare nel mistero della tomba aperta il giorno di Pasqua che fa così bella la cieca preghiera di Agostino o di Claudel: nulla è più contrario alla non meno grande bellezza della volontà di capire che è al centro del giudaismo. (…)
Sono lontano, molto lontano dall’essere all’altezza del nome ebreo e del mio nome.
Ma questo io so e ripeto un’ultima volta: non viene chiesto all’Ebreo, dal più istruito al più ignorante, dal più grande (che è anche il più piccolo) al più piccolo (che è anche il più grande) di «credere in Dio».
Il riferirsi a Dio come credenza è il punto di inizio, l’atto di nascita della religione, voglio dire del cristianesimo: ma per l’Ebreo può essere un errore; infatti l’abbandonarsi al cuore, il ricorrere alla fede dei semplici in nome dell’impossibilità del sapere, è un modo di differire l’intellezione che è ciò per cui, ancora un volta, l’Ebreo è giunto.
E non significa offendere i cristiani, tutti i cristiani, quelli della comunione come quelli dell’amore per il debole, i cristiani della confessione come quelli del cuore, se ricordiamo che la loro teologia, nata da una relazione geniale e al tempo stesso tragica al testo ebraico e al suo uso non è il punto di partenza di tutti gli atteggiamenti umani e che ne resta uno, quello ebraico, che si ostina a dire questo: ciò che si sa, lo si sa; ciò che si sa e si conosce, non è necessario crederlo; e se lo si crede, significa che si è rinunciato a conoscerlo, che si è voluto guadagnare tempo, tentare un azzardo che abolisca non il caso, ma la necessità di ostinarsi nel pensiero: e questa impresa, questo salto al quale Pascal ha dato la carica esistenziale, emotiva, intellettuale più grande che si possa immaginare, questo salto che fece di lui un genio prodigioso e infelice, all’ebreo si chiede soprattutto di non compierlo.
(traduzione di Daniela Maggioni )
Non credere, ma capire La missione degli ebrei, di Bernard-Henri Lévy, in “Corriere della Sera” del 3 febbraio 2016