Cristianesimo e ebraismo si incrociano
di Andrea Sarri

Il 17 gennaio papa Francesco si recherà in visita alla sinagoga di Roma, dove sarà ricevuto dal rabbino capo Riccardo Di Segni. È la terza volta di un papa in sinagoga: la prima volta fu con Giovanni Paolo II, accolto dal rabbino Elio Toaff il 13 aprile 1986, trent’anni fa. Più recentemente, il 17 gennaio 2010, lo stesso Di Segni accolse in visita Benedetto XVI. In attesa di ascoltare le parole che Bergoglio pronuncerà domenica prossima, si può cogliere l’occasione per esaminare in breve i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo nel corso del tempo.
Indubbiamente il nodo di questi rapporti non può non toccare la tragedia della Shoah, in prossimità del resto con il “Giorno della Memoria” (27 gennaio), dedicato alla riflessione sullo sterminio attuato dal nazifascismo nella seconda guerra mondiale. La Shoah ha portato al suo culmine la secolare storia dell’ostilità antiebraica, coltivata nella cultura cristiana soprattutto dopo la distruzione di Gerusalemme per opera dei romani, nel 135. Se infatti la parola “antisemitismo” è storicamente “giovane”, essendo documentata a partire dalla fine del XIX secolo, decisamente più antico è l’atteggiamento antigiudaico. Quest’ultimo ha una base teologica, non razziale: ritiene infatti che il popolo ebraico, ormai sostituito nella storia della salvezza dal cristianesimo, si sia macchiato in particolare di una colpa indelebile: il deicidio. A questa accusa iniziale formulata compiutamente dai padri della chiesa latina e greca si aggiunsero, nei secoli successivi, quelle di omicidio rituale e della profanazione delle ostie.
L’ebreo come nemico della civiltà cristiana, in età moderna accusato talvolta di diffondere la peste e oggetto di violente reprimende anche da parte di Lutero, nelle città europee finirà segregato nei ghetti, come quello di Roma istituito da papa Paolo IV nel 1555. Sarebbe senza dubbio scorretto confondere l’antigiudaismo religioso con l’antisemitismo razzista diffusosi in Europa tra XIX e XX secolo. Non si può tuttavia dimenticare che la persecuzione antiebraica, avviata prima come negazione dei diritti (leggi naziste del 1935 e fasciste del 1938) proseguita poi nell’omicidio di massa, ha di fatto risvegliato “sentimenti seppelliti nel profondo delle coscienze”, come ha scritto al riguardo lo storico Renato Moro. Ciò ha condizionato il comportamento delle gerarchie ecclesiastiche, che talora mostravano di apprezzare alcune misure discriminatorie nei confronti degli israeliti. D’altra parte la denuncia pubblica della deportazione da parte di Pio XII non andò oltre le parole del radiomessaggio natalizio del 1942, in cui papa Pacelli parlava di «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa alcuna, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento».
Nella dolorosa riflessione avviata dopo la fine della guerra anche intorno ai cosiddetti “silenzi” di Pio XII, significativo fu il caloroso incontro del giugno 1960 tra papa Giovanni XXIII e lo studioso ebreo Jules Isaac, che aveva perso parte della sua famiglia nei campi nazisti. Isaac riteneva che un contributo importante alla diffusione dell’antisemitismo giungesse dall’«insegnamento del disprezzo» verso gli ebrei promosso nella storia dai cristiani. Ne era un esempio la preghiera “per i perfidi giudei” recitata il venerdì santo nelle chiese cattoliche, secondo le disposizioni del “Messale romano” del 1570. Papa Giovanni si era già mostrato sensibile alle considerazioni di Isaac, cancellando dal testo della preghiera la formula fissata quattrocento anni prima.
Fu il Concilio Vaticano II, aperto nell’ottobre 1962 dallo stesso Giovanni XXIII, a spingersi comunque dove la chiesa di Roma non era fino ad allora arrivata: nella dichiarazione “Nostra aetate” (1965) i padri conciliari affermavano che «quanto è stato commesso durante la passione (di Cristo) non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo». Veniva quindi abbandonata la parola deicidio e si “deplorava” infine ogni forma di ostilità antiebraica. Sono indubbiamente queste le premesse della svolta nei rapporti tra chiesa ed ebraismo, certamente tutt’ora in corso. Attendiamo allora con l’attenzione che merita la visita di Bergoglio, che dialogando in qualità di arcivescovo di Buenos Aires con il rabbino Abraham Skorka, in un libro pubblicato in Italia nel 2013, diceva che accusare il popolo ebraico di deicidio «sarebbe come accusare tutto il popolo argentino per le politiche di un dato governo».
in “Trentino” del 14 gennaio 2016