Non è facile comprendere la complessa situazione che stiamo vivendo a livello globale ed anche ecclesiale. Papa Francesco con i suoi atteggiamenti e comportamenti sta portando avanti un disegno di rinnovamento difficilmente inquadrabile nelle categorie tradizionali con le quali si interpretavano le scelte pastorali della chiesa. Il quinto convegno nazionale di Firenze della Chiesa italiana ha riproposto in modo inequivocabile, grazie all’intervento di Papa Francesco, questo distacco dalla logica e in parte dalla prassi dei precedenti convegni.
Alcune categorie interpretative si sono venute chiarendo e precisando in questi primi anni di pontificato di papa Francesco: uscire dal recinto e dalle sagrestie per vivere tra la gente, le periferie esistenziali come luogo teologico; la sinodalità come metodo, il popolo come risorsa custode di profonde verità; uno sguardo misericordioso sul male e sul peccato; l’accoglienza senza se e senza ma, il valore del dubbio e della domanda che inquietano l’anima, una nuova identità tra kenosi e dignitas, un cattolicesimo post-politico, ecc.  Sono categorie già annunciate dal Concilio Vaticano II, ma poco praticate e dimenticate negli anni in nome di un pelagianesimo fiducioso nelle strutture, nell’organizzazione, nelle pianificazioni perfette che assumeva uno stile di controllo, di durezza, di normatività.
I contributi che seguono possono aiutarci  nella ricerca di questa nuova ermeneutica che, per il credente, deve divenire prassi alla luce del vangelo.
 
 
In attesa di un sinodo per l’Italia 
di Luigi Sandri,
I problemi strutturali irrisolti della Chiesa cattolica italiana sono emersi con chiarezza al quinto Convegno nazionale che la Conferenza episcopale ha organizzato a Firenze dal 9 al 13 novembre, sul tema «In Gesù Cristo il nuovo umanesimo». È infatti probabile che dei lavori degli «stati generali» della cattolicità italiana non resti nella memoria quasi nulla, a parte, decisivo, il discorso che papa Francesco ha rivolto a quell’assemblea. D’altronde, luci e ombre dell’incontro sono legate all’attuazione, o alla non effettiva e creativa ricezione, del Concilio Vaticano II.
 
Tra coraggio e timidezza nell’attuare la sinodalità
Nei suoi documenti – a partire dalla costituzione sulla Chiesa Lumen gentium – ma, soprattutto, con il suo stesso esistere, il Vaticano II ha rilanciato nella Chiesa romana l’idea e l’esperienza della sinodalità. E, descrivendo la Chiesa come un «popolo di Dio» che, nella varietà dei suoi carismi e ministeri, uno e insieme variegato, cammina nella storia annunciando l’evangelo della grazia, implicitamente proclamava la sinodalità – in greco sinodo significa appunto «cammino con» – il modo normale di vivere per la Chiesa.
Desiderosi di dare attuazione all’input del Concilio, pochi anni dopo la sua conclusione alcuni episcopati (in Olanda, Svizzera, Germania e Austria) convocarono Sinodi composti da clero e da laici, che in vario modo affrontarono temi sentiti dalla gente e, su certe problematiche (ruolo della donna nella comunità ecclesiale, regolazione delle nascite e libertà di coscienza, Eucaristia alle persone divorziate e risposate, responsabilità primaria della diocesi per la scelta del suo pastore, status del presbìtero…), arrivarono a indicare soluzioni diverse da quelle stabilite dalla Curia romana. La quale, poi, respinse tutte le proposte in rotta di collisione con le normative ufficiali.
 
Primo Convegno  ecclesiale di Roma 1976 
In tale contesto, anche la Cei non poté stare ferma, e nel 1976 convocò a Roma il primo Convegno della Chiesa italiana, sul tema «Evangelizzazione e promozione umana». La scelta stessa della formula dimostra il tono minore, il teologicamente low profile della scelta. Quella parola – Convegno – indica, infatti, un luogo e momento dove ci sono alcune relazioni (magari pur pregevoli), un pochino di dibattito, ma nulla si decide, e non si conclude con scelte operative votate dai partecipanti. Insomma, parole in libertà, senza assumersi precise responsabilità. Tuttavia, malgrado i limiti strutturali – teologici, giuridici e fattuali – del Convegno, il convenire per «camminare insieme» diede a molti partecipanti il gusto dell’incontrarsi e di scambiarsi riflessioni. Ci si sentì, insomma, Chiesa viva. E diffuso era il sogno di una Chiesa della testimonianza piuttosto che della presenza: cioè, una comunità cristiana che testimonia con la sua vita i valori in cui crede, piuttosto che tentare di imporli alla intera società (laica e pluralista!) e trasformarli in leggi valide erga omnes.
 
Secondo Convegno ecclesiale di Loreto 1985
Ma poi, nel secondo Convegno ecclesiale (Loreto, 1985), papa Wojtyla, in ciò aiutato dall’emergente Camillo Ruini, allora vescovo ausiliare di Reggio Emilia, si oppose alla linea della testimonianza sostenuta dalla presidenza della Cei guidata dal cardinale Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino, e impose quella della presenza cara ai movimenti integralisti tipo Comunione e Liberazione. Non fu una decisione contingente, ma costitutiva dell’intero pontificato e dell’orientamento, nei decenni successivi, della Cei, della quale Ruini nell’86 fu nominato dal papa segretario e, dal 1991, essendo anche vicario di Roma, presidente per ben tre mandati. L’episcopato italiano fu in pratica commissariato, e non seppe, come corpo, levare una voce di protesta, anche se singoli vescovi, tra essi il cardinale Martini a Milano, fecero intravvedere linee pastorali non omogenee a quelle wojtylian-ruiniane.
 
Terzo Convegno ecclesiale di Palermo, 1995
Il terzo Convegno ecclesiale (Palermo 1995), con il lancio del «progetto culturale» caro a Ruini rafforzò la sua leadership che raggiunse l’apogeo nel passaggio di pontificato tra Wojtyla e Ratzinger, quando, in vista del referendum sulla maternità assistita (quattro quesiti per cancellare altrettanti paragrafi della legge n. 40, assai restrittiva), previsto per il 12 e 13 giugno 2005, egli spese la sua autorità spirituale sui cattolici, e morale sull’intero paese, per sollecitare tutti a disertare le urne. In effetti, solo il 25,9% degli aventi diritto si recò a votare; e la mancanza del quorum azzerò il «no», che pur vinse. Tante le cause sociali e politiche del soverchiante astensionismo; ma certo pesò l’impegno crociato di Ruini, coadiuvato dalla lobby dei cattolici intransigenti di Scienza&Vita.
 
Quarto Convegno ecclesiale di Verona 2006
Il quarto Convegno (Verona 2006) fu la consacrazione del ruinismo. Poi, malgrado lo scambio delle consegne tra «don Camillo» e il nuovo presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, voluto da Benedetto XVI nel marzo 2007, i vertici della Cei direttamente o indirettamente sabotarono il governo Prodi «colpevole» di essere favorevole ai Dico (regolamentazione giuridica delle unioni civili). Infine, a scombinare le carte dell’episcopato italiano sarà l’elezione, nel marzo 2013, di Jorge Mario Bergoglio a vescovo di Roma.
 
Quinto convegno ecclesiale di Firenze 2015:  uno spartiacque per la Chiesa italiana
Aperto il 9 novembre, nella sostanza il quinto Convegno ecclesiale è iniziato l’indomani, con il discorso del papa ai delegati riuniti nella cattedrale di Firenze. Ecco alcuni passaggi di quel testo dirimente – uno spartiacque, nella vita della Chiesa italiana: «Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto». «Non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa». «La tentazione pelagiana [la presunzione di salvarsi con le proprie forze] spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività… Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare… La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo». «Ai vescovi chiedo di essere pastori. Niente di più: pastori. Sia questa la vostra gioia: “Sono pastore”. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi».
«Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza». «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà ». Per raggiungere tale meta, Francesco auspicava infine che l’insieme della Chiesa italiana, a tutti i livelli, «in modo sinodale» approfondisse «la Evangelii gaudium [esortazione apostolica del 24/11/14], per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete individuato in questo Convegno».
Francesco, con il suo discorso – molti lo hanno sottolineato – ha idealmente sepolto il ruinismo. Non sarà però né facile né semplice dimenticare quell’ideologia e, poi, cercare di realizzare il sogno di Chiesa proposto dal papa: permangono resistenze passive, rifiuto di rimettersi in discussione, ostilità a pronunciare qualche indispensabile mea culpa, avversità teologica a Bergoglio.
 
Il sogno di una Chiesa sinodale
Il metodo per avviarsi verso l’orizzonte desiderato, Francesco lo ha indicato: la sinodalità, cioè ben altro dal povero format dei Convegni.
Esemplifichiamo:
in quello di Firenze la discussione partiva dalla Traccia che proponeva cinque «vie» (Uscire, Annunciare, Educare, Abitare e Trasfigurare), quasi binari sui quali si sarebbe dovuto svolgere il confronto. Ha notato, in proposito, Vittorio Bellavite, coordinatore nazionale di Noi siamo Chiesa – movimento di riforma ecclesiale che era stato escluso a Verona e che ora, sia detto ad onore della Cei, è stato accettato come delegato nell’assemblea: «I 2005 delegati (tra cui 583 donne, il 29%), sono stati divisi in duecento “tavoli” a loro volta divisi per le cinque “vie”. Quindi ogni “via” aveva quaranta sedi in ognuna delle quali la “Traccia” e la “via” venivano discusse da dieci persone selezionate dall’organizzazione, non so con quali criteri, probabilmente con una mescolanza di provenienza geografica, di sesso, di condizione clericale o laicale. Questi dieci delegati, che non si conoscevano, avevano 5-6 ore di tempo per discutere guidati da un facilitatore, preventivamente nominato, e dovevano alla fine elaborare una sintesi. Le quaranta sintesi così scritte, discusse e corrette sono state, a loro volta, sintetizzate in un solo testo per ogni “via” da persona nominata dal Comitato preparatorio. Le cinque sintesi delle cinque vie sono poi state presentate in assemblea a conclusione dei lavori, venerdì 13. Il sistema sembra il massimo della democrazia dal basso, invece è un grande pasticcio, aggravato soprattutto dalla assoluta genericità della Traccia e delle “vie”».
Di fatto, nessun problema concreto è stato delineato (così, a proposito di povertà, manca ogni cenno ad una possibile revisione del sistema dell’Otto per mille), e su nessun punto i delegati sono stati chiamati a pronunciarsi. Le strozzature insite nella formula Convegno sono risultate, una volta di più, evidenti. Non a caso – ci pare – lo stesso segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, è sembrato auspicare, per il futuro, un Sinodo della Chiesa italiana. Sinodo significa, però, che i suoi partecipanti dovranno in buona parte essere eletti dalla base e non, come ora, cooptati dai vescovi; e la futura Assemblea dovrà dibattere problemi specifici, confrontarsi, e infine votare. E, se lo riterrà opportuno, voterà anche proposte di riforma ecclesiale (riforma! Il papa non ha avuto timore di usare questa parola decisiva) che confliggono con la normativa ufficiale vigente su problemi pastorali, disciplinari e istituzionali. La Santa Sede potrà ovviamente opporsi a tali proposte, ma dovrà assumersi la responsabilità pubblica del «no» a una Chiesa nazionale. Eppure, ben sapendo che cosa sia un vero Sinodo, Francesco senza paura ha indicato questa strada alla Chiesa italiana. La quale, archiviato il tempo dei Convegni, è ora chiamata a pensare in grande e ipotizzare un Sinodo. Ma avrà l’audacia necessaria?
in “Confronti” del dicembre 2016
 
 
V Convegno ecclesiale nazionale Riorientare la Chiesa italiana
di Gianfranco Brunelli
Il V Convegno ecclesiale nazionale celebrato a Firenze ha rappresentato un appuntamento importante nel cammino della Chiesa italiana. Emergono dai principali interventi che abbiamo scelto di riportare qui a modo di documenti, prospettive (nell’intervento di papa Francesco) e analisi (le relazioni di Lorizio e Magatti) piuttosto innovative e di cucitura tra l’impianto teologico di papa Francesco e alcune dimensioni della pastorale della Chiesa in Italia.
Rimangono aperte alcune questioni di fondo che attengono a una piena recezione del pontificato di Francesco, sin qui ancora non avvenuta sotto forma di linea propositiva dell’intera Conferenza episcopale, e alla definizione del ruolo del cattolicesimo italiano nell’attuale situazione storica del nostro paese. Si sono fatti passi avanti nello stile ecclesiale, nella forma conviviale, nell’apertura di maggiori spazi di discussione, con una libertà che appare nuova.
Sul convegno si erano concentrate molte attese, alcune delle quali sono andate deluse, come la possibilità d’aprire un cammino sinodale per tutta la Chiesa italiana. Ma non è detto che a un certo punto, complice anche l’Anno giubilare, non maturi una consapevolezza diversa.
 
I convegni ecclesiali
Il V Convegno ecclesiale nazionale («In Gesù Cristo il nuovo umanesimo», Firenze, 9-13 novembre 2015) ha vissuto due momenti centrali: la condivisione di un clima sereno e propositivo da parte dei convegnisti (2.200 delegati); e l’atteso intervento di papa Francesco. Il primo punto è oramai il portato di una sperimentazione che ha già dato frutti in passato. Il secondo segna la novità vera. Papa Francesco, intervenendo all’indomani dell’apertura dei lavori ha chiesto ai vescovi di riscrivere l’agenda della Chiesa nel nostro paese.
I convegni nazionali hanno segnato, anche in virtù della loro scansione decennale, una periodizzazione della vita della comunità cattolica italiana e del suo rapporto con la realtà del paese. Essi coprono un quarantennio di storia e quattro papi su cinque hanno conferito a questi appuntamenti un ruolo d’indirizzo.
Quella che oggi ci appare, ed è, come una storia fu all’inizio un’intuizione che la leadership della CEI (l’allora segretario mons. Enrico Bartoletti) ebbe e manifestò a Paolo VI per cercare di reagire alla contrapposizione frontale tra la Chiesa e la società italiana e alle divisioni interne alla comunità ecclesiale (oltre al «dissenso», una parte importante dell’intellettualità cattolica) manifestatesi in occasione del referendum sul divorzio, nel maggio del 1974.
Il primo convegno si svolse a Roma nel 1976. Seguirono i due appuntamenti «wojtyliani» (Loreto, 1985 e Palermo, 1995). Poi Verona nel 2006, sul finire della ventennale leadership del card. Ruini, alla presenza di Benedetto XVI.
Se a Loreto, nel 1985, a metà svolgimento, Wojtyla correggeva la linea del Convegno e della maggioranza dei vescovi italiani, ritenuta troppo dialogante con le forme del pluralismo politico e culturale della società italiana, e con una mozione d’ordine che non ammetteva distinguo chiedeva alla Chiesa una nuova presenza affinché le strutture sociali tornassero a essere «sempre più rispettose di quei valori etici in cui si rispecchia la piena verità sull’uomo», papa Francesco verifica che sia l’interventismo wojtyliano, sia la dottrina ratzingeriana non hanno impedito i mutamenti epocali e la secolarizzazione in corso e cambia registro.
 
Annunciare il vangelo
Viviamo un cambio d’epoca che facciamo persino fatica a comprendere – ha detto –. Per Francesco non è più tempo di illusorie riconquiste cristiane della società, né di astratte affermazioni dottrinali: si può essere significativi se si torna ai fondamentali del Vangelo. Con tutta la forza, la determinazione e il coraggio che questo comporta. «Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori», ha aggiunto. Francesco ha introdotto un ri-orientamento simbolico nel linguaggio pastorale del magistero. Nello stile e nel linguaggio del vescovo di Roma emergono due priorità: la centralità dell’annuncio del Vangelo e la sinodalità come interiorità metodologica della vita della Chiesa, cioè il coinvolgimento profondo, reale e spirituale di tutto il popolo di Dio nella vita della Chiesa e nella sua missione.
 
Una nuova identità tra kenosi e dignitas
Nel suo discorso fiorentino, Francesco ha messo in guardia la Chiesa dalla tentazione «pelagiana», che guarda al primato delle strutture e dell’organizzazione, e dalla tentazione «gnostica», chiusa nell’immanenza della propria forma razionale. Ha proclamato la necessità di una riforma spirituale (e strutturale) profonda. Non a caso ha chiuso il suo intervento chiedendo, accanto allo stile evangelico, uno stile sinodale anche per la Chiesa italiana, che a partire da ogni realtà parrocchiale e diocesana chiami a raccolta tutti i battezzati per ridefinire assieme la propria identità pastorale.
La nuova trama tra Vangelo e cultura può essere tessuta nuovamente coniugando assieme, nel contesto reale attuale, non nella semplice memoria del passato, mettendo assieme kenosis e dignitas: tutta la forza della condivisione di Dio e tutta l’ispirazione della persona a vivere trascendendo la propria condizione di precarietà.
Il papa ha dunque collegato il tema della kenosis, assunta sia sul versante della condizione umana sia su quella della condivisione divina, al tema umanistico della dignitas, della dignità dell’uomo. Da questa radice si può giungere ad affermare che la dignità umana rimane intangibile, comunque. In ogni persona e in ogni situazione o contesto storico.
Di qui, attraverso le figure dell’umiltà, del disinteresse e della beatitudine è tornato sui temi delle povertà, da condividere e da sanare; del dialogo, da perseguire per «l’amicizia sociale» del paese; della presa di distanza «dall’ossessione del potere», anche quando è utile, per essere coscienza critica della società.
 
Un cattolicesimo italiano post-politico
Viene archiviata definitivamente la stagione precedente. Dopo la fine del cattolicesimo politico è inutile attardarsi sulle nostalgie e sulle forme del passato. Quello di Francesco è un cattolicesimo post-politico, ma non meno esigente su un piano sociale e civile.
Il Convegno fiorentino aveva di fronte a sé due domande: quale sarà il rapporto tra i vescovi italiani e il pontificato dopo l’intervento del papa? E quale sarà il rapporto tra la Chiesa e l’Italia, dopo i grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi anni?
I vescovi italiani guardano al papa con affetto, ammirazione, desiderio di sequela, sentendosi talora messi troppo in questione dalle sue parole. L’assemblea di Firenze è risultata nel suo insieme consonante col papa. Altra cosa è dire come concretamente le sue indicazioni diventeranno azione pastorale nelle Chiese locali e da parte della CEI.
Certo avere bloccato l’idea del sinodo lascia aperte la differenza tra condivisione affettiva e condivisione effettiva. Più difficile e complessa risulta la questione del rapporto tra Chiesa e Italia. Da Firenze arrivano sollecitazioni, desiderata, qualche riflessione. Ma questo davvero non basta. Al di fuori di un grande coinvolgimento di tutta la Chiesa, l’esito è quello di una reciproca, ulteriore distanza, per non dire indifferenza.
in “Il Regno Attualità” del 15 novembre 2015
 
 
Realizzare il concilio, non interpretarlo
intervista a Massimo Faggioli
Massimo Faggioli ci accoglie con grande disponibilità e cordialità qualche minuto dopo aver preso parte a una diretta del programma “Il diario di Papa Francesco” di Tv2000 e lo fa senza porre limiti né di tempo né di argomenti. Da subito le sue riposte sono concise, approfondite e articolate, rivelando la sua solida formazione di storico non solo della Chiesa. M. Faggioli attualmente è Professore associato di Teologia e Direttore del “Institute for Catholicism and Citizenship at the University of St. Thomas in St. Paul” (Minnesota) e professore presso il Dipartimento di Teologia e Studi religiosi della “Villanova University” (Philadelphia). Ha pubblicato numerosi libri e saggi oltre ad aver studiato e insegnato in diverse importanti centri accademici degli Stati Uniti, del Canada e dell’Italia. Una parte importante del suo impegno universitario lo dedica a seminari e incontri internazionali su teologia, ecclesiologia e storia. Inoltre Massimo Faggioli è molto conosciuto al grande pubblico per la sua intensa, tempestiva e acuta attività giornalistica, ragion per cui i suoi articoli sono letti e commentati su diverse testate (Global Pulse Magazine, dotCommonweal Blog, Huffington Post).
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Abbiamo incontrato Massimo Faggioli lunedì 11 scorso, poche ore dopo il discorso di Papa Francesco al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede e quest’allocuzione ci ha suggerito subito la prima domanda e quindi abbiamo chiesto al nostro interlocutore:
 
Flussi migratori senza disegno e previsioni …
Perché il Papa ha dedicato il 60% del suo discorso alla questione che ha chiamato crisi migratoria, usando addirittura l’aggettivo grave?
● Perché questa è la crisi più grave, specialmente per l’Europa, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, con una differenza: le ondate di milioni di profughi dopo la guerra erano parte di un disegno diplomatico molto preciso e chiaro, era il mondo così come era stato deciso a Jalta. Erano poi profughi, penso ad esempio ai tedeschi provenienti dalla Germania est e agli ebrei che andavano ad abitare il neonato stato d’Israele, molto più facilmente assimilabili dei rifugiati di oggi. La situazione politica, a livello europeo, vede dei governi (di destra o sinistra) che hanno difficoltà nell’accettare i migranti; dal punto di vista etnico sono spesso in conflitto tra loro – gli yazidi, gli arabi cristiani, gli arabi sunniti – è quindi tutto molto più complicato, anche dal punto di vista religioso, spesso anche all’interno dello stesso universo cristiano, ad esempio nella percezione reciproca tra mondo cattolico e ortodosso. È quindi la crisi migratoria più grave degli ultimi decenni perché manca completamente un disegno diplomatico, ma anche una previsione politica che sappia intuire quali sono i fronti più urgenti dove agire. Quindi oggi il Papa, che è il personaggio più popolare che parla dell’immigrazione, deve mandare il messaggio più impopolare, è il solo che può farlo, ricordando l’importanza di non perdere se stessi nell’affrontare questa che è una vera e propria emergenza.
 
Quando il rischio profetico paga
Oltre a questo elemento appena analizzato, c’è secondo te qualche altro punto del discorso del Papa al corpo diplomatico che hai apprezzato o che ti ha colpito particolarmente?
● Mi ha colpito la rivendicazione della scelta di aver aperto il Giubileo della Misericordia a Bangui (Repubblica Centrafricana). Credo che abbia voluto rivendicare anche il fatto che il suo essere lì, a novembre, ha aiutato forse un certo processo e cambiamento politico in quell’area, che è un’area di guerra. Secondo me questo è stato un segnale che ha voluto mandare per dire: i gesti simbolici che io faccio poi tanto simbolici non sono, hanno delle conseguenze, non sono solo poesia. Quindi un gesto non di orgoglio ovviamente ma di rivendicazione che dice: “il rischio paga”. Penso ad esempio, a riprova di questo ragionamento, a quanto ha fatto a Cuba, ai rapporti con la Cina; se non rischi mai, se non affronti in modo diretto determinate questioni non puoi sperare di cambiarle solo con le parole. È un Papa che, in questo momento, è il solo che possa dire certe cose.
 
Politica – Economia – Finanza
Abbiamo l’impressione che il Papa abbia parlato molto di economia e di finanza, raramente di politica. Quando era invece a Buenos Aires ho notato invece, leggendo il suo magistero episcopale, che parlava molto di politica, inaugurando ogni anno un corso di formazione senza risparmiare critiche molto dure. Poi l’impressione che sia passato a concentrarsi, negli anni successivi, su temi come l’economia e la finanza perché ritiene che ora non valga la pena parlare di questa politica che è ostaggio di un certo tipo d’economia e finanza e lo strumento che permette questa anomalia sarebbe la corruzione: qual è la tua opinione al riguardo?
● Condivido questo tuo ragionamento con alcune sfumature: uno dei possibili motivi di questa “presa di distanza” dalla politica è che Bergoglio ha capito benissimo che una volta divenuto Francesco si è esposto, in Italia, a dei rischi specifici nei rapporti con la politica, quindi ha voluto creare una zona cuscinetto, per poter mantenere una giusta distanza tra sé e i politici italiani che tendono ad “appropriarsi” del Papa. Questa mi sembra una cosa geniale e molto importante, anche per riscattare una certa idea di pontificato agli occhi degli italiani che lo hanno visto sempre come parte della politica italiana. La seconda cosa è questa: a mio modo di vedere è vero che il Papa interpreta l’economia finanziaria come dominatrice del mondo e la stessa politica assoggettata a essa, però non insulta mai quest’ultima per un motivo simile, cosa invece che oggi, negli Stati Uniti e specialmente tra molti teologi progressisti, si sta diffondendo sempre più, perché la politica viene vista come al di là di ogni possibile salvezza, persa per sempre. Francesco conserva invece l’idea che la politica è molto importante, è una sfumatura non di poco conto perché negli Stati Uniti molti teologi cattolici avevano creduto di poter contribuire a cambiare il mondo e si sono accorti, negli ultimi venti/trent’anni, che è molto più complicato di quanto sembrasse e quindi ora tendono a rinunciare all’idea stessa della politica. Sono arrivati a pensare che il futuro del cristianesimo è in piccole comunità dove la politica, secondo il loro ragionamento, non esiste. Il Papa invece è molto chiaro nel dire che la politica è la sola cosa che può portare giustizia, che può riequilibrare le situazioni di disuguaglianza. Credo che quello che lui sta tentando di fare è riabilitare la politica ed è una cosa essenziale perché è vero che siamo in una fase di profonda crisi ma io non vedo come il mondo possa essere un posto migliore senza politica. Questa sua intenzione è uno dei pregi migliori che il Papa, secondo me, sta mostrando. Ha interpretato il momento attuale e ne sta dando una visione molto cattolica.
 
Riformare la Curia: l’attesa
Secondo te quali sono le insidie più grandi che si presentano ora, all’inizio del terzo anno di pontificato e con i progetti in cantiere (riforma della Curia, metodi e stili nel governo centrale della Chiesa, il modo stesso di dare testimonianza della fede … )?
● Io vedo che sul suo tavolo il dossier più difficile è quello della riforma della Curia, perché si sono fatti finora solo dei piccoli passi di questa nuova congregazione, i nuovi dicasteri per l’economia. L’attesa che c’è è quella di una riforma radicale, che lui sta facendo con un piano di sottrazione di competenze da Roma e restituzione ai vescovi locali, questo è molto importante e credo che debba essere accompagnata, a un certo punto, da un messaggio che faccia intendere che la Curia romana può cambiare. La struttura di questa istituzione è molto simile a quella del 1588, ogni Papa del XX secolo ha provato a riformare la Curia ma sono state tutte azioni che hanno agito solo in superficie. È chiaro che ora è necessario dare una stretta a questo processo perché è la cosa più difficile da fare. Come storico vedo la sopravvivenza di un certo tipo di modello curiale come un qualcosa che contribuisce a far credere che ci sono cose che possono sopravvivere a qualsiasi cambiamento.
 
Francesco nella Chiesa e nella politica degli Stati Uniti
Fra poco saranno passati 6 mesi dalla visita del Papa negli Stati Uniti, che cosa è rimasto, c’è un’eredità che è stata raccolta dalla chiesa, dai cattolici e non solo?
● È rimasta una grande impressione, molto di più alla base dei cattolici americani che ai vertici dei vescovi, sappiamo che gran parte dell’episcopato statunitense è stato nominato in un determinato periodo e stanno ancora imparando a conoscere Papa Francesco. Quello che è rimasto è la sensazione, e la certezza, che si può essere cattolici negli Stati Uniti senza essere schiavi di un programma o di un partito politico, che è la tara culturale e politica della chiesa americana degli ultimi trenta/quarant’anni. Rimane inoltre l’impossibilità di rinchiudere Francesco nella scatola del progressivismo, liberalismo da una parte o del conservatorismo dall’altra; questo credo che sia un esempio di come l’agenda del Papa non è riducibile a una piattaforma di un partitico e che sfida una certa idea di essere statunitensi ovvero una certa idea di potenza, di ruolo che si ricopre nel mondo, una certa riluttanza ad usare il linguaggio della misericordia. La visita negli USA è stato un grande evento e in un certo modo era la visita più difficile ma il successo è stato totale perché Francesco si è rivelato per quello che è, senza seguire una sceneggiatura o un copione. Certo vi sono cose ancora da vedere. mi riferisco, per esempio, alle elezioni presidenziali prossime e alla condotta dei cattolici, fedeli e gerarchia.
 
La sfida della riforma del governo centrale della Chiesa
Ritornando alla questione della riforma della Curia, ti sembra che Francesco abbia davvero la possibilità di cambiarla o quantomeno di porre le basi per un rinnovamento? Insomma è l’uomo giusto al momento giusto?
● Io direi di si, per una serie di motivi: il primo è quello biografico, è il primo Papa che in molti decenni non ha mai studiato né lavorato a Roma, quindi parte da una notevole libertà e autonomia dalle questioni romane. Poi, per essere molto franchi, la Curia non ha mai goduto di una grande fama, il topos anticuriale e vecchissimo e oggi lo è ancora di più; il potere simbolico e politico della Curia è ai suoi minimi storici, quindi credo che questo sia il momento di cominciare a ripensarla. Io capisco bene che il Papa non abbia intenzione di investire tutto il suo pontificato in questa riforma, perché non avrebbe senso, però se neanche Francesco riuscisse ad intaccare questo sistema si creerebbe una patina d’immortalità attorno a questa istituzione che non sarebbe sana, perché non c’è notizia della Curia nei testi sacri o altrove, è una creazione totalmente umana e storica e quindi non può restare immutabile nel corso dei secoli. Questo, secondo me, è il momento d’agire perché Francesco è una Papa che non ha obblighi di riconoscenza o “investimenti” personali con la Curia romana, com’era tipico invece di Paolo VI o Giovanni XXIII. Io non sono per la distruzione della Curia, ci deve essere, per la Chiesa, un sistema di amministrazione centrale ma più si aspetta a riformare questo sistema più cresceranno le voci che vorranno la sua distruzione e questo è rischioso, perché un certo luogo per rappresentare, ad esempio, le voci delle chiese povere a livello globale deve esserci e questo Roma può farlo benissimo, però è necessario fare qualcosa prima che il sistema diventi così screditato al punto da ritenere Roma priva di alcun valore, anche simbolico.
 
Concilio Vaticano II: andare al di là dell’epoca delle controversie
A 50 anni dal Concilio Vaticano II pensi che Francesco sia il primo Papa che ne stia raccogliendo i frutti finalmente maturi?
● Non c’è dubbio. È il primo Papa che non ha incertezze su come il Concilio dovesse essere interpretato, doveva essere interpretato in un certo modo, ora l’abbiamo in mano noi e lo interpretiamo noi, senza riaprire controversie di trenta o quarant’anni fa. La cosa che trovo interessante è che lui parla pochissimo di Vaticano II mentre lo fa, lo applica costantemente e la cosa più affascinante è che non ha mai mostrato interesse nella questione ermeneutica del Concilio, non è un tema da reinterpretare ma da attualizzare e realizzare. Questo è il suo dono teologico: andare al di là dell’epoca delle controversie; indubbiamente queste ci sono – e io vivendo in America potrei farne una lista infinita – ma sono cose che il magistero discerne non con una dottrina imposta ma avviando un processo d’interpretazione e di recezione, perché il discernimento magisteriale del Vaticano II a suon di decreti è una di quelle cose che non hanno funzionato neanche al Concilio di Trento, quindi figuriamoci adesso. In conclusione direi che quello che Francesco sta applicando è davvero il Vaticano II e molto di più, perché sta toccando temi che per il Concilio erano precoci ma senza temere di lasciarne altri aperti, sa che alcune questioni dovranno essere affrontate in futuro e che lasciarle irrisolte e in “eredità” è già il primo passo per la loro soluzione.
a cura di Francesco Gagliano e Luis Badilla, in “Il sismografo” del 14 gennaio 2016