«E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i “segni dei tempi”, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso». Le parole di don Milani sono riportate in un volume pubblicato da Ancora editrice: La memoria dei luoghi. Sulle tracce di don Lorenzo Milani (pagine 112, e 22). Francesca Cosi (testi) e Alessandra Repossi (immagini) propongono un viaggio fotografico tra i luoghi del sacerdote come appaiono oggi (gli scatti sono del 2013-2015): la casa di Firenze dell’infanzia, il seminario e soprattutto le parrocchie di San Donato a Calenzano e di Barbiana. Luoghi visitati in compagnia degli allievi di don Milani che hanno condiviso con lui l’esperienza della «scuola popolare». Le testimonianze affiancano le immagini in bianco e nero insieme ai testi scritti dal sacerdote e alla ricostruzione della sua vicenda biografica. «Devo tutto quello che so — scriveva in Esperienze pastorali — ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere».
 
Descizione
Titolo: La memoria dei luoghi – Sulle tracce di don Lorenzo Milani
Autori: Alessandra Repossi, Francesca Cosi
Editore: Ancora
EAN 9788851415938
Data: ottobre 2015
Collana: Fuori collana
 
Don Lorenzo Milani insegnante
di Alberto Melloni

Don Milani trascolora come il Che Guevara che passa sulle magliette di mezza estate senza che chi le indossa abbia alcun interesse per questo predecessore di «Fran-Ché», come diceva una vignetta apparsa durante il viaggio del Papa a Cuba. Don Milani sbiadisce come certe canzoni di Bob Dylan che non sono diventate inni nazionali della raucedine poetica e nuotano in un oblio che ha bisogno di un mediatore o più mediatori (su Desolation Row si sono misurati Fabrizio De André e Francesco De Gregori) per riassaporarne i versi e la musicalità. Don Milani si allontana come il significato che egli dava alla parola «scuola» in quell’Italia neorealista capace di fare dell’istruzione una leva di giustizia e non il nome di un pianeta sindacalizzato a suon di pentole e nel quale l’eroismo individuale di molti si muove d’istinto tentando passi di danza nel suolo difficile di un società slabbrata.
Don Milani anche per questo può sembrare un prêt-à-porter che chiunque può usare per difendersi o per attaccare, massime i pedagogisti con i quali questo ebreo nato artista e diventato prete avrebbe avuto poco di cui discutere, stante l’urgenza esistenziale del suo essere-per . Don Milani può essere chiuso in un sarcofago di buone parole, se del caso pure canonizzato dalla Chiesa che gli diede il Vangelo e le stigmate per capirlo: e il grande applauso liberatorio che ha benedetto l’arcivescovo di Firenze, quando ha fatto il suo nome davanti al Papa, ha segnato non la fine di un risarcimento, ma l’entità della sua portata.
Don Milani è un’eredità contesa, a quasi cinquant’anni dalla morte e a una manciata d’anni dal suo centenario: perché se l’incontro con la sua scrittura ha segnato indelebilmente tutti coloro che ne hanno sentito il fuoco, è del tutto ragionevole che coloro che quel fuoco l’hanno avvertito vivo, nell’affetto e nella forza di questo scultore della parola, ne vivano la custodia come un dovere, anche a costo di finire in una competizione irragionevole come sono quelle fra figli di un unico grande amore. Don Milani è le sue esperienze e quei nomi di luogo — San Donato, Barbiana — e l’angelo di tutte le Barbiane di oggi, da Caivano a Mingara, che condividono il sogno di fare della consegna della parola la leva di un domani diverso.
Don Milani è tutto questo e mille altre cose ancora che una memoria di affetti, di passione, di litigi ha seminato nel tempo che ci separa dalla sua morte, avvenuta il 23 giugno 1967: ma tutte queste cose poggiano su una realtà solida e precisa, più forte d’ogni ricordo e di ogni interesse, di ogni uso o abuso del suo nome, cioè sulla sua «parola scritta».
Per ora ci accontenteremo di chiamarla così l’opera di Lorenzo Milani Comparetti, classe 1923: ragazzino che ha una infanzia milanese solo perché il capofamiglia, le cui rendite sono erose dalla crisi del 1929, deve dedicarsi al lavoro; scolaro non proprio modello, ma che nel coltissimo e raffinato ambiente di famiglia si ritrova a fargli lezione d’italiano, quando le cose vanno male, niente meno che Giorgio Pasquali, padre della filologia e della linguistica nazionali. Nipote del famoso archeologo che scoprì l’Apollo Milani che prende il suo nome, questo piccolo rampollo con il fratello Adriano e la sorella Elena della famiglia materna dei Weiss, non cresce come un ebreo triestino secolarizzato e nemmeno come un cristiano ambrosiano, pur avendo ricevuto un battesimo «razziale» che secondo la madre Alice avrebbe dovuto proteggerlo in un’Europa nella quale l’antisemitismo la fa da padrone. Non imbocca la via accademica, come ci si poteva aspettare secondo la tradizione familiare, ma quella dell’arte e sarà scolaro del pittore Hans J. Staude (quello la cui figlia sposerà Tiziano Terzani), manifestando la capacità di dedicazione che sua madre ricorda di lui. Una capacità di assoluto che manifesta nel 1942 a un prete senza eguali, don Raffaele Bensi, e che lo porta in seminario in una ricerca di assoluto che non accetta compromessi o mediazioni. Una «indigestione di Cristo» definirà don Bensi la vocazione di don Lorenzo: e una indigestione che quando diventa ministero, a San Donato di Calenzano, si esprime subito in una dimensione che lui chiama «scuola» — ma che è qualcosa di più radicale. È la consegna della parola come strumento di conoscenza e di comunicazione: la parola delle lingue, la parola della musica, la parola della letteratura. Una consegna radicale e assoluta, che entra in urto con l’establishment democristiano e gli costa la rimozione dalla parrocchia dove era cappellano e la nomina quasi beffarda a priore di Barbiana, un buco nero di emarginazione montanara, con bimbi nati dopo la guerra che diventano la sua scuola.
Tra San Donato e Barbiana nasce Esperienze pastorali , la riflessione sulla sua esperienza pastorale che il Sant’Uffizio non riuscirà a condannare, ma di cui imporrà il ritiro dal commercio, incrementandone così la fortuna; a Barbiana nasce una scuola senza vacanze, basata sulla laica autorità di un prete in talare, capace di posporre una catechesi affrettata e devozionale alla formazione di una coscienza critica, capace di pensare che la competizione con la quale qualche improvvisato e attempato solone crede di far crescere la performatività del sistema scolastico è quella fra il maestro e i problemi che ha davanti, non quella fra i problemi che ciascuno degli scolari porta.
Una esperienza che diventa ben presto un caso nazionale, che si rifrange nelle grandi lettere che escono dalla scuola di Barbiana: la lettera ai cappellani militari, la lettera ai giudici, la Lettera a una professoressa , gli scritti che trovano posto nella discussione sui grandi temi che vedono il bisogno di assoluto di questo uomo giovane e bellissimo riversarsi in contenitori sempre nuovi, sfuggendo a ogni possessività e smentendo tutte quelle fondatissime ambizioni di custodia che volta a volta sono state avanzate su don Milani in nome della pedagogia, della storia, della spiritualità dell’azione sociale, del riscatto o della educazione.
Nel 1970 sua madre Alice, in una intervista infastidita a un imbarazzato Nazareno Fabbretti che tenta di farle dire qualcosa di pio, diceva che don Lorenzo «non appartiene a nessuno. Nemmeno a me, soprattutto adesso. Né ai borghesi, né ai liberali, né ai radicali. Capisco che se anche ha dato la sua vita ai ragazzi di San Donato e di Barbiana, non si è “esaurito” nemmeno in loro. (…) Barbiana è un momento della sua vita, come ne fu un momento la difesa degli obiettori, come ne fu un altro momento il confronto violento con la gerarchia. Tutte occasioni per un discorso più ampio e più profondo, un discorso che comincia forse ad essere inteso solo adesso». In realtà quel discorso ampio e profondo è difficile da intendere perché è difficile e richiede uno sforzo maggiore al quale il ministro Dario Franceschini ha dato impulso promuovendo l’edizione nazionale degli scritti di don Milani, sulla quale Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, e Giuseppe Betori, cardinale di Firenze, hanno fatto convergere molte energie intellettuali e morali.
Un’edizione nazionale (che uscirà a settembre) è una specie di riconoscimento pubblico che motiva il massimo impegno di studio e la più grande castità di intenti da parte di tutti coloro che vi sono coinvolti: in questo caso le associazioni e fondazioni che raccolgono i suoi allievi, l’arcidiocesi che custodisce alcune carte essenziali, i famigliari, gli studiosi di diverse istituzioni che hanno convenuto sul fatto che fosse possibile fare una edizione critica di quel che finora è stato letto in due autorevoli formati: quello della editio princeps voluta dallo stesso don Milani che nelle sue edizioni per la Lef di Esperienze pastorali o della Lettera curava ogni dettaglio con attenzione puntigliosa; quello delle edizioni di commercio delle altre lettere, alla mamma o agli scolari, che quando sono uscite avevano ritocchi estrinseci e piccoli tagli legati a personaggi viventi o esigenze di uniformità tipografica naturali in queste edizioni.
Una edizione nazionale, invece, è cosa che ritiene significative e meritevoli di attenzioni le varianti cancellate, le pagine cassate o le righe modificate dopo i consigli ricevuti; è opera di ricerca non per affermare il diritto di sprofessorare su testi di incandescente bellezza, ma per onorarne il dettato con la stessa passione assoluta che ha dato a quel culto della parola la sua forma scritta.
Cosa emergerà dalla edizione nazionale? Federico Ruozzi, Anna Carfora, Valentina Oldano, Sergio Tanzarella, insieme a Valeria Milani Comparetti, José Corzo e tanti altri studiosi che insieme a chi scrive collaborano a questa opera, non hanno scoop nel cassetto: quel che andrà in un grande volume di Meridiani non è un’opera che si qualifichi per qualche riga in più (che c’è), qualche riga letta integralmente (che c’è) o qualche variante che fa capire meglio il senso della frase (che c’è).
L’opera omnia di don Milani infatti non riguarda tanto ciò che un lettore sprovveduto può aggiungere a una conoscenza che non ha, ma ciò che un lettore avvertito può restituire a quest’uomo che ha insegnato da un paesino del crinale che una delle eroine che ha più commosso il mondo degli ultimi anni è una inguaribile pessimista. Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace, dice che «una penna, un libro e un insegnante possono cambiare il mondo». Don Milani ha dimostrato che delle tre cose solo una è indispensabile: l’insegnante.
in “la Lettura” – Corriere della Sera” del 3 gennaio 2016