Con papa Francesco il Vaticano nel 2015 è diventato un “global player” della politica ambientale internazionale. Perfino il vertice sul clima di Parigi sarebbe fallito senza l’aiuto diplomatico da Roma. Una strategia finora unica del Vaticano e di altre comunità religiose: mettere in moto cielo e terra per giungere ad un accordo globale sul clima. Proprio nella capitale della “laïcité” francese, nel 2015 le religioni registrano in questo modo uno dei loro maggiori successi politici – e questo per di più in una città che nello stesso anno è stata sconvolta in due occasioni dal terrorismo islamista. L’accordo sul clima del 12 dicembre 2015  si pone come contrasto alla violenza. “Questa giornata”, ha detto Claudia Salerno, delegata del Venezuela, dopo l’accordo unanime, “ha colmato di nuovo Parigi di luce e di speranza”. E il presidente francese François Hollande ha esclamato nella sala: “Parigi ha visto molte rivoluzioni, ma questa è la più bella e la più pacifica”.
Questa rivoluzione aveva avuto origine in primo luogo a Roma.  Dal “Pontefice Massimo” fino ai cristiani di base dell’America Latina e nella Conferenze episcopali di tutti i continenti, molte commissioni lavoravano dietro le quinte per un successo a Parigi. La “stanza dei bottoni” centrale per tutto questo: il Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, in pratica il ministero del Vaticano per l’ambiente e lo sviluppo. Il suo presidente, cardinale Peter Turkson del Ghana, consulente del papa per i problemi ecologici, a Parigi faceva pressione, dietro le quinte (e non solo) perché si giungesse a un accordo.
Era stata predisposta una strategia a lungo termine: già nell’autunno 2014, il papa riceveva la persona a capo del segretariato delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico, la cattolica Christiana Figueres, a Roma. Già allora, degli “insider” spargevano la notizia che il papa stesse lavorando ad un’enciclica sull’ecologia. Poi papa Francesco nel gennaio 2015 visitò le Filippine, un paese sempre più frequentemente colpito da gravi uragani. Alla messa a Tacloban, una città devastata dal tifone Haiyan, Francesco indossò addirittura un impermeabile per ripararsi dalla pioggia incessante – e parlò dei pericoli del cambiamento climatico e degli oltre 6000 morti causati dalla tempesta.
Inoltre, l’ONU nel 2015 aveva davanti a sé tre importanti incontri decisivi: la conferenza sull’aiuto ai paesi poveri in giugno ad Addis Abeba, quella sugli obiettivi di sviluppo ecosostenibili in settembre a New York e infine quella sul clima a Parigi. Il Vaticano organizzò adeguatamente la sua strategia su questa tabella di marcia: a Roma si moltiplicarono gli incontri interni ed esterni. In primavera il segretario generale dell’ONU Ban Ki Moon e l’economista USA per lo sviluppo Jeffrey Sachs parlarono, come ospiti d’onore ad una conferenza della Pontificia Accademia delle Scienze, su clima e aiuti allo sviluppo. Temi che enti assistenziali come “Misereor” o “Brot für die Welt” affrontano da anni. Anche la banca mondiale nel frattempo accetta l’idea che il cambiamento climatico minaccia di annientare tutti i successi della lotta alla povertà.
In primavera il cardinale Turkson fa una prova: fa circolare confidenzialmente un suo discorso con le idee di fondo dell’enciclica. Essendoci un riscontro positivo, segue in giugno il primo forte segnale: l’enciclica “Laudato si’”, il manifesto ecologico di papa Francesco. Poi il papa parla di “debiti ecologici del Nord nei confronti del Sud” e chiede concretamente: “I combustibili fossili devono essere sostituiti senza esitare”. Fa piazza pulita di una teologia che per secoli ha predicato che l’uomo deve sottomettere la natura. “L’uomo come dominatore e distruttore, non è un’interpretazione corretta della Bibbia”, dice a chiare lettere ai suoi teologi.
Per la diffusione mediatica dell’enciclica, che si rivolge al mondo intero, il Vaticano non si affida solo alla fiducia in Dio. Gli strateghi, tra cui l’organizzazione degli enti ecclesiali di sostegno CIDSE a Bruxelles, organizzano eventi “per raggiungere il mondo secolare”, per usare un’espressione di una persona coinvolta: a luglio a Roma la commissaria ONU per i diritti umani Mary Robinson e l’attivista canadese, critica del capitalismo, Naomi Klein, lodano l’enciclica. In autunno viene messa in scena per le telecamere della TV una grande udienza di papa Francesco al ministro per l’ambiente dell’UE. Alla fine di settembre, poi, il secondo colpo di scena: per la prima volta nella storia, un papa apre un’assemblea generale dell’ONU. All’incontro al vertice per gli “obiettivi di sviluppo” dell’ONU si affrontano problemi come il diritto all’istruzione, l’accesso all’acqua potabile e l’assistenza sanitaria, fino ad una seria tutela del clima e altri modelli di consumo. Francesco fustiga “l’avidità egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale”, affermando che la nostra economia porta ad uno sfruttamento eccessivo delle risorse e all’esclusione dei deboli. Poi il papa incontra il presidente USA Barack Obama e appoggia la sua politica ambientale – anche se molti repubblicani cattolici si infuriano per questo.
E ne hanno ben motivo. Infatti anche in “Laudato si’”, come nella prima enciclica di Francesco “Evangelii gaudium”, il capitalismo sfrenato è il nemico della vita. Il papa vede il mondo dal punto di vista di coloro che sono stati resi poveri in America Latina e critica nella politica ambientale il commercio del certificati di CO2 – suscitando la forte disapprovazione dei paesi industrializzati. Molto entusiaste sono le persone di sinistra: proprio Claudia Salerno, la rappresentante del Venezuela socialista, loda il papa per il suo ruolo nei negoziati. Ai paesi in via di sviluppo piace che Francesco guardi il problema ambientale dal loro punto di vista: meno come problema ecologico, come lo si guarda volentieri globalmente nel Nord del mondo, bensì come problema di sviluppo e diritto alla crescita. Per il papa si tratta niente di meno che una via d’uscita dall’estrema povertà. E dopo la fine del Sinodo sulla famiglia in ottobre c’è un’altra assoluta novità: una presa di posizione comune di tutte le conferenze episcopali del mondo. Naturalmente sulla difesa del clima.
Molti avevano pensato che Francesco sarebbe magari arrivato di persona a Parigi nella notte decisiva. Invece preferì inviare, insieme al cardinal Turkson, il segretario di Stato Pietro Parolin. Nel bagaglio avevano un paio di vecchie scarpe nere: i dimostranti che, a causa del divieto di manifestazione avevano raccolto in Place de la République nel cuore di Parigi centinaia di scarpe come momento commemorativo della protesta, avevano in qualche modo messo anche le scarpe di Bergoglio. Il pontefice stesso sia da Roma che nel suo viaggio in Africa – un continente anch’esso minacciato dai cambiamenti climatici – aveva ammonito i politici a trovare un compromesso. Infine l’8 dicembre l’installazione “Fiat lux” proiettava sulla basilica di San Pietro immagini di tempeste e
meraviglie della natura.
Roma non era sola. In tutto il mondo le comunità religiose avevano mobilitato i loro fedeli per la conferenza di Parigi. Centinaia di “pellegrini del clima” di tutte le confessioni cristiane erano giunti a Parigi. Il Congresso mondiale dei Luterani invitò i suoi membri a togliere il loro denaro dell’industria del carbone e del petrolio. In ottobre 154 capi di tutte le religioni mondiali avevano chiesto “la fine delle energie fossili e zero emissioni di CO2”: dal congresso mondiale delle Chiese ai musulmani, agli ebrei, agli indù, ai buddisti fino a rappresentanti di religioni locali.
Un aiuto alla crociata per il clima venne anche dai musulmani: in agosto religiosi musulmani pubblicarono una “dichiarazione islamica” sulla difesa del clima. “È nostra responsabilità di musulmani agire”, scrivevano 30 dignitari islamici e chiedevano agli stati del benessere e produttori di petrolio di por fine all’uso di combustibili fossili, di aiutare i paesi poveri, di promuovere l’uso di energie rinnovabili e di cambiare il loro modello di sviluppo. Due importanti rappresentanti di questo gruppo sedevano anche a Parigi in posti decisivi: Saleemul Huq, dal Bangladesh, veterano delle conferenze sul clima e difensore dei diritti dei paesi più poveri, e Wael Hmaidan, capo di CAN (Climate Action Netword), organismo rappresentativo delle associazioni ambientaliste. Secondo Hmaidan, “la dichiarazione islamica non è una reazione alla ‘Laudato si’, è autonoma”. Afferma che c’è stato molto stimolo dal mondo islamico decentrato, basato su lavoro svolto precedentemente da parte di gruppi ecologici nell’islam, come “Green Faith” o “Green Muslims”. Hmaidan è molto orgoglioso del fatto che anche il massimo imam dell’Indonesia ne faccia parte: nel grande paese islamico Indonesia (insieme con la grossa “spina” politico-ambientale di una massiccia distruzione di foreste e una potente lobby del carbone) “i messaggi relativi al clima e all’ambiente hanno così accesso diretto a tutte le moschee del paese”, dice Hmaidan. Dà anche una spiegazione del perché lo stato petrolifero Arabia Saudita non abbia bloccato i lavori come in precedenza. “Il re saudita gode nello spazio arabo di un’alta autorità religiosa, poiché difende i luoghi santi di Mecca e Medina”. Ma con un veloce cambiamento climatico proprio negli Stati del Golfo potrebbe diventare così caldo che non ci si potrebbe quasi più vivere, mostrano studi recenti. “E che cosa ne sarà del pellegrinaggio alla Mecca, a cui ogni musulmano è tenuto, se diventa troppo caldo perché esso sia possibile?”, chiede Hmaidan. Allora diminuirebbe anche il potere politico del regno del petrolio.
Per Christoph Bals, esperto delle trattative sul clima presso l’organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo Germanwatch, le chiese e le religioni hanno avuto, nella conferenza di Parigi, una maggiore influenza rispetto ai precedenti vertici. Accanto all’unione tra gli USA e la Cina, al ruolo attivo dei paesi in via di sviluppo già provati dai cambiamenti climatici e alla pressione del mondo della finanza, l’enciclica e la spinta di diverse religioni sono state, già prima della conferenza, importantissimi fattori per il cambiamento di umore”, dice Bals, che tra l’altro ha studiato anche teologia cattolica. “L’impeto morale” proveniente dalle religioni ha zittito in alcune regioni i conservatori che ponevano freni. “Con questo dibattito etico usciamo finalmente dal modo di pensare a breve termine che tiene conto solo di costi e ricavi”, dice Bals. “L’influenza delle religioni in alcuni stati è molto importante, in questo modo anche il premier indiano Narendra Modi è “abbordabile”. E anche da noi la socializzazione religiosa è ancora una della forze che spinge molte persone ad impegnarsi”.
Il successo di Parigi porta però al Vaticano anche dei doveri. Si è detto che lo Stato del Vaticano intende prossimamente aderire alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. In questo modo i diplomatici vaticani per il clima, che finora erano presenti alle conferenze solo come osservatori, vi parteciperebbero a pieno titolo. Se il papa prende sul serio la sua politica di preoccuparsi non solo per il cielo, ma anche per l’atmosfera, questo porterebbe lo Stato del Vaticano in una posizione completamente nuova. Dovrebbe, anche in futuro e anche con un nuovo papa, magari meno impegnato ecologicamente, decidere insieme agli altri stati su uno dei più importanti temi del XXI secolo: la lotta contro il cambiamento climatico e contro la povertà.
 
Vaticano: una potenza mondiale “verde” di Bernhard Koch, in “Christ&Welt” n° 1 del gennaio 2016 (traduzione: www.finesettimana.org)