Le polemiche sui presepi o sui crocefissi a scuola, le difficoltà in cui spesso si scontra chi tenta di affrontare temi religiosi, non solo nelle aule scolastiche, ma anche in quelle universitarie, spingono a più di una riflessione. La presenza dell’Islam (come religione) in Europa ha fatto emergere un fenomeno diffuso già da qualche anno: il ritorno delle religioni nella sfera pubblica. Sono stati smentiti coloro che avevano indicato nella secolarizzazione un processo irreversibile, immaginando che le religioni sarebbero state confinate per sempre alla sfera privata. Giustamente Jürgen Habermas parla perciò di «società post-secolari».
Il «ritorno» delle religioni crea molti problemi soprattutto là dove, come in Francia, la laicità sembrava un valore intramontabile. Di qui il forte attrito con l’Islam. Mentre Ebraismo e Cristianesimo, rinunciando a molte prerogative, hanno concordato, già all’inizio della modernità, un patto con lo Stato, riconoscendone la sovranità, l’Islam comincia solo ora a entrare nel «patto laico» e nella nazione. L’ingresso dell’Islam nella cittadinanza europea porta alla luce una difficoltà che riguarda anche le altre religioni.
Così Ebraismo e Cristianesimo hanno dovuto rinunciare alla loro dimensione politica, senza che questa rinuncia fosse mai definitiva. Forse perché la separazione tra religione e politica è una pretesa del laicismo, fittizia quanto irrealizzabile. E se a essere un problema fosse proprio quella sorta di religione civile dello Stato che sta tramontando insieme allo Stato-nazione? Certo è che le componenti più laiche sembrano oggi le più impreparate a comprendere quel che accade nel complicato processo della globalizzazione.
Pensare che la religione sia solo violenza, che rappresenti un inutile oscurantismo, è un modo sbrigativo per ridurre ogni conflitto alla «guerra del sacro» contro la laicità. Come se bastasse sbarazzarsi delle religioni per trovare un rimedio nel tormentato scenario contemporaneo. Quel che appare ormai evidente è che la laicità non è il luogo neutro di un confronto tra religioni e culture diverse, non è il terreno di una non meglio precisata «morale universale», né la forma dell’identità collettiva. Ciò a cui oggi si assiste è proprio il naufragio della laicità così intesa. Il patto laico, che ha sempre avuto tratti fortemente nazionali, non funziona nel mondo globalizzato. Ma a ben guardare non ha funzionato neppure prima, lasciando una difficile eredità. Giudicate dall’alto della ragione illuministica, le religioni sono state ridotte a dogmi superflui e dannosi, quasi che non facessero parte del patrimonio culturale. Gli effetti sono devastanti. Questo spiega perché il «dialogo interreligioso» è una faccenda di élite. Nelle scuole e nelle università, sia nel nostro Paese, sia in altre nazioni europee, domina l’ignoranza.
Peraltro proprio quando oramai in quasi ogni classe ci sono studenti delle tre religioni e sarebbe auspicabile la mutua conoscenza. Ma come si può dialogare con la religione degli altri, se si sa poco o nulla della propria? E se si è portati a credere che, in un caso come nell’altro, si tratta di oscuri dogmi?
Si moltiplicano allora preconcetti e cliché. Anche l’ebraismo è oggi più che mai nel mirino. Così si spalancano le porte all’islamofobia non meno che all’antisemitismo. E così finiscono per avere la meglio le posizioni fondamentaliste, diffuse purtroppo anche tra i giovani.
Dove non si è stati abituati all’ermeneutica dei testi, alla riflessione sui concetti religiosi, si resta muti di fronte alla ostentazione di una pretesa «verità», che dovrebbe invece essere subito decostruita. I fondamentalismi religiosi tentano infatti di separarsi dalla cultura di provenienza. Mentre il Corano, come i Vangeli, come la Torà, richiedono interpretazione.
Contro il naufragio laico studiamo le religioni, di Donatella Di Cesare,
in “Corriere della Sera” del 29 dicembre 2015