Il cibo è tutto ciò che si mangia e che serve per nutrire e per mantenere in vita un essere vivente: uomini, animali, piante. Il cibo è dono: della madre che ci nutre nell’utero e ci offre il seno, della nutrice che ci svezza. Poi, crescendo, l’uomo impara a procurarselo e a cucinarlo da solo. Ma il cibo è anche molto di piú: è il gesto sociale per eccellenza, il gesto della comunità nel suo ritrovarsi, nel fare memoria e fare festa. La tavola è il luogo, a volte silenzioso, a volte rumoroso, di comunicazione, scambio, comunione. Gioia. Ecco cos’è il cibo: nutrimento per la convivialità. Mangiare è molto piú che nutrirsi, cosí come bere è molto piú che dissetarsi, e l’arte del vivere, la sapienza del vivere, può essere simboleggiata dall’arte del mangiare e del bere. E se mangiare è un’azione al contempo naturale e culturale, l’azione del nutrirsi viene ad assumere un valore simbolico e un carattere sacro. Mangiare ritma il tempo, la giornata, la settimana. Di piú, mangiare celebra il tempo: la nascita, l’entrata nell’età adulta, l’epifania delle storie d’amore, la morte. Tra le tante rivoluzioni fatte da Gesú, ci dice Enzo Bianchi, c’è anche quella di aver rivoluzionato il modo di concepire il cibo. Anche a tavola Gesú ci ha insegnato a vivere in questo mondo e ci ha raccontato storie e parabole che parlano di cibo e tavola. Nella Bibbia la pienezza della vita è spesso espressa con il racconto di un banchetto, ricco o povero, comunque sempre condiviso. Gesú amava la tavola come luogo di incontro con gli uomini e con le donne, amava la tavola come occasione di lode, benedizione e ringraziamento a Dio. E soprattutto amava la tavola come promessa di vita e di pace per tutti. C’è un insegnamento di Gesú a tavola che dobbiamo conoscere per scoprire, o riscoprire, la sapienza e la gioia del vivere e del convivere. E per diventare piú umani.

 
Descrizione
Enzo Bianchi
Gesù a tavola e la sapienza del vivere
2015
Frontiere
pp. 120
€ 17,00
ISBN 9788806229665
 
Dall’introduzione
Si mangia da soli, oppure in famiglia, con i convi- venti, in una comunità di vita. La presenza e la qualità umana dei commensali sono elementi essenziali perché la tavola diventi un banchetto, o anche solo una vera condivisione. Mangiando, infatti, si parla; nei mona- steri ci sono anche pasti in silenzio, ma per imparare a comunicare meglio. Scambio della parola e silenzio non muto dovrebbero armonizzarsi per manifestare il senso profondo della tavola, luogo in cui si esprime la fiducia reciproca, la fraternità, la gioia condivisa. A tavola, in- fatti, si narra, si racconta, si descrive, si ricorda… In- somma, si vive insieme, si crea il con-vivio.

Mangiare è un atto che per l’umanità non può essere solo fisiologico, ma è sempre anche un atto culturale: mangiamo intorno a una tavola, mangiamo del cibo pre- parato e cucinato. Il mangiare ritma il tempo, la giorna- ta e la settimana: si pensi all’alternanza tra pasto feria- le e pasto festivo, il banchetto, all’alternanza tra pranzo e cena… Di piú, il mangiare celebra il tempo: nascita, entrata nell’età adulta, epifania nelle storie d’amore, in- contri suscitati dai piú diversi motivi, una volta anche la celebrazione della morte.
Da alcuni anni le questioni etiche legate al cibo, alla sua produzione, distribuzione e consumo, così come quelle inerenti l’accesso alle risorse naturali, a cominciare dall’acqua, sono doverosamente diventate parte essenziale sia della questione ecologica che di quella economica e sociale. Del resto il cibo costituisce l’elemento di sintesi tra la sostenibilità del nostro modo di gestire il pianeta terra – affinché produca il nutrimento per l’umanità di oggi e per le generazioni future – e le scelte, un tempo soprattutto politiche, oggi prevalentemente economiche o addirittura finanziarie, che regolano i rap- porti tra i popoli e tra i cittadini all’interno dei singoli Stati. Il «mercato», cui oggi troppi demandano ogni tipo di miracolosa autoregolamentazione, è nato come mercato di generi alimentari e da sempre l’agricoltura è il settore «primario» di ogni entità statale.
Essendo stato chiamato in diversi contesti a contribuire alla riflessione su queste tematiche cui già da tempo dedicavo la mia attenzione, mi sono sentito stimolato a elaborare una riflessione meno contingente, approfondendo due prospettive complementari nella comprensione di cosa significhi il cibo per noi e per le relazioni con i nostri simili e con il creato. Mi sono cosí dedicato dapprima a esaminare come un determinato modo di rapportarsi al cibo possa costituire una scuola di sapienza del vivere, una palestra in cui imparare le nozioni fondamentali della convivenza civile e della responsabilità verso il creato. Da qui sono poi risalito al- la rilettura della vicenda terrena di Gesú di Nazareth, di come si sia rapportato al cibo e alla tavola e come ne abbia fatto un paradigma di aspetti decisivi della sua predicazione. A suggerirmi questo accostamento è stato un interrogativo apparentemente molto banale: qual è la prima parola rivolta da Dio all’uomo da lui creato e «posto nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custodisse»? «Mangiare mangerai» (akhol to’khel, Gen 2,16), cioè: «Tu mangerai, tu puoi mangiare». Dunque la parola di Dio chiede all’uomo innanzitutto di mangiare, lo invita a mangiare, e subito dopo lo mette in guardia, segnalandogli che si può mangiare male e fare un cattivo uso del mangiare: per non morire, l’uomo deve mettere dei limiti al mangiare. Potremmo dire che in questi versetti archetipici è già contenuta ed espressa la necessità per gli esseri umani di mangiare, ma anche la possibilità che il mangiare non sia per la vita, e per la vita di tutta l’umanità, ma per la morte: morte per chi mangia, morte per chi è escluso dal cibo da parte di chi mangia.
Anche per questo può essere di ispirazione conoscere e contemplare Gesú a tavola, perché anche a tavola egli «ci ha insegnato a vivere in questo mondo» (Tt 2,12). Gesú amava la tavola come luogo di incontro con gli uomini e con le donne, amava la tavola come occasione di lode, benedizione e ringraziamento a Dio, come promessa di vita, di pace per tutti, e quindi come immagine di quel regno di cui annunciava la venuta. Non a caso proprio nel mangiare a tavola ha consegnato il segno grande della comunione tra sé e i discepoli, nel pane e nel vino ha voluto significare la sua vita spesa e donata per gli amici.
Sí, c’è un magistero di Gesú a tavola che dobbiamo conoscere, per diventare piú umani, per scoprire o ri- scoprire la sapienza del vivere e del convivere.

 

Il cibo è cultura
Esce oggi per Einaudi il nuovo libro di Enzo Bianchi Spezzare il pane Gesù a tavola e la sapienza del vivere. Con questo saggio il priore della comunità monastica di Bose, autore di numerosi testi sulla spiritualità cristiana, torna ad un altro dei temi che più gli stanno a cuore, su cui ha già pubblicato (sempre con Einaudi) Il pane di ieri (2008) e Ogni cosa alla sua stagione (2010). Del nuovo libro anticipiamo il capitolo “Il cibo è cultura”.
 
Il cibo è costituito da un insieme di alimenti e di creature volute e donateci da Dio ma, come abbiamo detto, il cibo è frutto non solo della terra, ma anche del lavoro dell’uomo. Per noi umani non c’è natura senza cultura: siamo consapevoli che dal III millennio a.C., prima ancora dell’invenzione della scrittura, gli umani hanno iniziato a praticare l’arte della cucina, cioè del preparare, del trasformare gli alimenti in cibo per la tavola. Attorno al fuoco, in una grotta, sotto un albero, su una pietra si è cominciato a mangiare insieme, a consumare cibo preparato da qualcuno: a poco a poco nasceva la cucina, l’arte del cucinare e, contemporaneamente, la festa, il banchetto, il simposio… Consumare lo stesso cibo e la stessa bevanda significa diventare insieme uno, stipulare un contratto, un’alleanza, riconoscere una prossimità, un’accoglienza reciproca, dare origine a una relazione o approfondirla, delineare un abbozzo di communitas.
Cucinare è azione umana, solo umana, non conosciuta dagli altri viventi sulla terra. È, di fatto, umanesimo, perché chiama e richiama uomini e donne, convoca piante, animali e anche minerali (il sale) e canta il sapore del mondo. E tutto questo in un ritmo umano: non sempre si cucina allo stesso modo! C’è la cucina feriale, in cui ci si nutre con gioia ma nella sobrietà e nella frugalità; c’è il pasto, il banchetto che interrompe la ferialità dei giorni per dire l’insperabile, per celebrare ciò che accade poche volte e per grazia; c’è il pasto del bambino che abbisogna di cibi a lui adeguati; c’è il pasto per l’anziano, che richiede una misura e una leggerezza… Chi cucina ha anche l’arte di differenziare i pasti, perché c’è un pasto per ogni momento sotto il sole.
Fare cucina
Cosa va messo in evidenza in quest’arte? Innanzitutto l’acqua: non solo essenziale come bevanda, ma indispensabile per la cucina, per lavare gli alimenti, per cuocerli. L’acqua ha assunto subito un ruolo purificatore e quindi si è imposta come indispensabile. Accanto all’acqua, il fuoco che fa passare l’alimento da crudo a cotto: tutti noi sappiamo come questo processo sia assolutamente determinante. Quello dal crudo al cotto è un passaggio che conferisce un nuovo assetto al cucinare: fare cucina cessa di essere solo preparare e condire un alimento, ma implica il trasformarlo profondamente, con esiti molto diversi a seconda della modalità di cottura e degli ingredienti utilizzati.
Proprio la preparazione culinaria ha creato il pasto come pratica sociale che media il rapporto con il nutrimento. Senza la preparazione, ognuno potrebbe soddisfare da solo e a suo piacimento il bisogno di cibo. La preparazione del pasto, invece, richiede un investimento di tempo, di attenzione e di cura, che costituisce la misura empirica dell’amore di chi prepara il cibo nei confronti di quanti devono mangiarlo abitualmente o sono invitati per una circostanza particolare. Anche presentare un piatto richiede tempo e arte, quindi attenzione verso gli altri e volontà di procurare piacere. Presentare il cibo è la firma del cuoco o della cuoca, è un sorriso che esprime la gioia di offrire ciò che si è preparato per qualcuno. […]
Condivisione e scambio entrano dunque nella cultura della cucina, del pasto, degli alimenti, e la condivisione del cibo appare sempre segno della condivisione della vita, e così lo scambio. Per questo nella cultura del cibo la relazione ha il suo primato e il cibo è a servizio di questa relazione che può essere tra conoscenti, amici, coniugi, famiglia, vicini, entità territoriali… «L’uomo è ciò che mangia», diceva Ludwig Feuerbach, ma questa affermazione è riduttiva perché noi dipendiamo più dai criteri orientativi della nostra alimentazione e della nostra capacità di viverne lo spirito che non da quello che mangiamo: potremmo dire «siamo ciò che mangiamo e come lo mangiamo». Occorre infatti fare del pasto un’occasione di piacere, un rito creatore di senso e di esperienze, anche di esperienze spirituali in cui mangiare in comunione e conoscere Dio diventano la stessa cosa. Condividere per convivere
Plutarco fa dire a un personaggio delle sue Dispute conviviali (II,10): «Noi uomini non ci nutriamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere insieme». Tale aspetto è decisivo: per questo il cibo per noi umani è evento culturale che sa soprattutto produrre convivio che, come dice la parola, è cum vivere, vivere insieme e quindi com-munitas, cioè mettere insieme i doni, il munus che ciascuno ha, oppure il debito (anch’esso munus) che ciascuno ha verso l’altro. Condividere per convivere!
È proprio a causa di questa valenza del cibo che nella Bibbia la pienezza di vita è stata espressa dall’immagine del banchetto. Dal banchetto messianico promesso già dai profeti come banchetto del regno di Dio: «Il Signore dell’universo preparerà per tutti i popoli un banchetto di cibi abbondanti, un banchetto di vini raffinati, di cibi succulenti, di vini eccellenti» [Is 25,6] al banchetto promesso da Gesù: «Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli» [Mt 8,11; cfr. Lc 13,29], fino ai banchetti raccontati da Gesù nelle parabole come immagini, profezie del regno dei cieli. Dove c’è banchetto, infatti, non c’è solo nutrizione, ma c’è vita piena, condivisione, comunione fra tutti gli esseri umani e fra Dio e l’umanità. La tavola del regno dei cieli ha proprio il Signore Dio come ospite che invita, chiama, offre il banchetto a noi umani, ospiti, invitati, accolti per fare comunione con lui.
 

Siamo ciò che mangiamo E come lo mangiamo, di Enzo Bianchi, in “La Stampa” del 24 novembre 2015