L’ex vaticanista Accattoli in questi mesi sta raccogliendo sul suo blog storie di malati, medici e testimoni. Un «racconto» che ha vinto il premio Ucsi. Anche lui ora sta vivendo in prima persona la positività al virus. Dalle testimonianze dei malati, dei medici, degli i infermieri, degli operatori ospedalieri, dei volontari, dei parenti sgorga una ricchezza umana straordinaria che avevamo dimenticato costretti a vivere nell’isolamento delle nostre abitazioni.
Nel sito https://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fattidi- vangelo/22-storie-di-pandemia/ possiamo consultare le storie di morti, di guariti che hanno sperimentato terapie invasive, di persone che si sono distinte nel lavoro ospedaliero, nel soccorso a domicilio e in altre attività professionali e di volontariato in risposta all’emergenza provocata dal Covid–19.
Luigi Accattoli, l’ex vaticanista che ha lavorato prima a La Repubblica e poi al Corriere della Sera, storico collaboratore de Il Regno, è da due settimane in ospedale a Roma per polmonite da Covid-19. Il contagio gli è stato diagnosticato il 19 novembre, esattamente a un mese di distanza dall’assegnazione del premio Ucsi “Giornalismo e società” incentrato sulla pandemia che gli verrà assegnato a Verona. La premiazione avverrà da remoto: Accattoli spera di riuscire a partecipare dall’ospedale. In questa intervista realizzata a distanza ripercorriamo il lavoro di inchiesta che ha realizzato in questi mesi sulle storie di pandemia che gli sono valse il riconoscimento.
L’Intervista
Accattoli, che cosa ti colpisce nella motivazione di questo premio?
La motivazione fa riferimento all’attività svolta negli ultimi decenni di narrazione di «fatti di Vangelo», cioè delle tante esperienze di italiani dei nostri giorni che io vedo ispirate alle beatitudini e all’esempio di Gesù. Ho raccolto queste storie in alcuni libri e negli ultimi mesi sul blog ho indagato nella stessa ottica le «storie di pandemia».
Quale segnale esce da queste storie?
Esse testimoniano come dal male possa sempre rifiorire il bene. In esse è segnalato il coraggio di donne e uomini che rischiano la vita per aiutare il prossimo e la generosità che trasforma il dolore in amore. Ma anche la fede ai tempi del Covid.
Negli ultimi giorni queste storie di pandemia sono diventate un diario in prima persona, prima da casa e poi dall’ospedale.
La polmonite mi ha portato a uno stato di debilitazione e dipendenza dalla respirazione assistita che mi ha messo nelle condizioni si capire meglio ciò che si prova con il coronavirus.
Quante storie hai raccolto finora nel tuo blog?
Sessanta, che si possono leggere nel capitolo 22 della pagina «Cerco fatti di Vangelo»: https://www.luigiaccattoli.it/blog/cerco-fattidi- vangelo/22-storie-di-pandemia/. Poi a sera nel blog, ogni giorno, do aggiornamenti sulla mia esperienza ospedaliera.
Nelle tue righe si sente forte il timbro della sofferenza. C’è qualcosa che è riuscito a sorprenderti positivamente?
Una sorpresa grande, rispetto a quanto avevo letto di altri, è stata l’opportunità di avere la Comunione quasi tutti i giorni nel reparto pneumo-Covid 2 dell’ospedale San Giovanni di Roma.
Mi racconti un segno cristiano di questi giorni che ci appaiono “cattivi”?
Nella mia stanza siamo in quattro: una domenica, con il mio computer stavamo seguendo l’Angelus del Papa. A un certo punto entrano i medici per la visita e allora mettiamo il video in pausa. Quando, poco dopo, se ne vanno, il capo del gruppo dice: «Abbiamo visto che qui pregate. Pregate anche per noi».
Torniamo alle storie: che cosa ti spinge a raccoglierle?
Trasmettono coraggio e sono il dono di questa stagione tribolata.
Quale storia ti ha colpito di più?
Le tante persone che prima di morire hanno lasciato un’ultima parola affidata a una chat o a un’infermiera. Vengono poi i tanti guariti che hanno conosciuto il morso del Covid e ne hanno dato un racconto coinvolgente. Infine le scelte di volontariato compiute da uomini e donne impegnate nel lavoro ospedaliero, nel soccorso a domicilio, in tante pieghe dell’emergenza.
Queste tracce di umanità, come le definisci, che cosa ti fanno pensare?
Innanzitutto al modo di vivere la morte. I nostri morti sono tanti: sono arrivati a oltre 60mila. Quasi tutti sono scomparsi in solitudine. Senza neanche poter lasciare una parola alle famiglie. Qualche volta solo ai medici e agli assistenti. C’è poi chi è guarito e poi è ricaduto ed è morto ma nella fase della guarigione ha raccontato quello che stava passando.
Hai qualche esempio?
Don Corrado Forest di Vittorio Veneto, 80 anni, confida al vescovo che gli telefona: «Non è male che anche qualche prete prenda questo tipo di malattia per condividere quello che vivono molte altre persone». Un altro prete, Orlando Bartolucci di Pesaro, poi deceduto, da me interpellato in un momento che era parso di guarigione, aveva avuto parole simili di accettazione della malattia: «Anche se tutto è pesante, doloroso, non so per quale motivo, spiritualmente mi sento “contento” di aver fatto questa esperienza. È l’aver in certo qual modo condiviso una storia con la tua gente».
Le storie dei medici morti per Covid credo meritino un capitolo a parte.
Sì e le metterei insieme a quelle degli infermieri, degli operatori ospedalieri, dei volontari e infine dei sacerdoti che hanno dato la vita per accompagnare malati e morenti. A fine ottobre i soli preti diocesani scomparsi – secondo Avvenire – erano 130, aggiungendo i religiosi ci si avvicina o forse si supera il numero dei medici. Con una delle più belle intenzioni proposte nelle Messe a Santa Marta, quella del 3 maggio, domenica del Buon Pastore, Francesco ci invitò a contemplare congiuntamente «l’esempio di questi pastori preti e pastori medici».
Tra i guariti che cosa hai trovato?
Ho raccolto narrazioni vivissime di cinque sacerdoti, di una decina di laici, di tre vescovi: Antonio Napolioni (Cremona), Derio Olivero (Pinerolo), Calogero Peri (Caltagirone). Il vescovo Napolioni così parla in una lettera post mortem a un suo prete che se ne era andato poco dopo che lui, vescovo, era uscito dall’ospedale: «Scrivo per dirti quello che l’isolamento ci impedisce di dire ai nostri cari, in questa disumana maniera di morire». «Disumana»: detto da un vescovo.
Ci sono casi singolari di volontariato?
Tanti per impulso di solidarietà tornano a fare il medico o l’infermiere, pur essendo ormai in pensione, o avendo lasciato da tempo quel lavoro: chi era diventato scrittore, chi vignaiolo, chi si era fatto prete, o frate o suora.
Le chiami tutte «fatti di Vangelo»?
So bene che non tutti agiscono in risposta alla vocazione cristiana, ma più ampiamente alla vocazione d’uomo. C’è un insegnamento nel fatto che in profondo le due vocazioni s’incontrino. È anche cercando quell’insegnamento che accanto ai semi seminati dall’una conviene onorare quelli dell’altra.
V.Varagona, La fede, luce nel buio del Covid, Avvenire 13.12.20
torniamo a voi in occasione delle festività natalizie e del nuovo anno 2021 per esprimervi la nostra vicinanza e amicizia in questo momento non facile che stiamo vivendo. I momenti difficili si superano meglio insieme nella condivisione e nella solidarietà.
Il nostro centro Cerfee-Zelindo Trenti(Centro Ricerca e Formazione Ermeneutica Esistenziale) prosegue il suo lavoro di ricerca e di formazione con la pubblicazione dei risultati delle ricerche, con la promozione di corsi riconosciuti dal Miur e con la rivista Ermes education:
Testi pubblicati nel 2020:
– R.Romio (a cura), Esserci. Come oasi nel deserto della città, Elledici, Torino 2020.
– R. Romio (a cura), Educare alla vita. Il processo educativo ermeneutico esistenziale, Elledici, Torino dicembre 2020.
Corsi del 2020 riconosciuti dal MIUR:
– L’educazione della persona nella didattica a distanza: dalla didattica d’emergenza alla didattica come opportunità (12-22 aprile) – Esserci ripartiamo dalle relazioni (1-27 giugno) – L’educazione scolastica in tempi di Covid: interdisciplina ed educazione alla cittadinanza (5-10 ottobre).
La Rivista on line “Ermes Education: Capire il cambiamento”
Rivista di Pedagogia.bimestrale che si propone di divulgare la prospettiva ermeneutica esistenziale: www.didatticaermeneutica.it
La valutazione costituisce uno dei fondamenti dell’azione dei docenti, una delle sfide più discusse e controverse. Fenomeno complesso è l’apprendimento ed altrettanto lo è il valutare: occorre uno sguardo olistico, capace di cogliere un processo educativo e di apprendimento, senza tralasciare alcuni strumenti concettuali fondamentali.
I momenti valutativi si possono riassumere così:
Definire l’oggetto della valutazione (ossia individuare obiettivi e criteri)
Rilevazione dei dati (il più oggettivamente possibile)
Interpretare i dati, ovvero formulare un giudizio
Comunicare la valutazione (all’alunno, ai colleghi, alla famiglia, ecc.)
Progettare nuovamente per aprire nuovi percorsi nella didattica
Come è evidente, la valutazione non può prescindere da un aspetto progettuale dell’azione del docente che, in fase di ideazione dell’attività didattica deve individuare gli oggetti propri della valutazione.
Nel tempo il focus della valutazione è cambiato: da una funzione sommativa si è passati ad individuare altre azioni, nella prospettiva formativa della valutazione, sia per il docente che per lo studente. Il focus principale oggi è legato allo sviluppo del processo educativo, inserito nella relazione di insegnamento/apprendimento tra docente/alunno.
Allo stesso modo il giudizio non può essere una mera sommatoria, ma deve raccogliere più informazioni possibili per poter rilevare la distanza tra gli obiettivi prefissati dal docente e i traguardi conquistati effettivamente dallo studente. L’attuale ricerca docimologia consiglia di andare oltre al singolo voto, per cercare di definire meglio questi traguardi attraverso “aggettivi, profili o in forma discorsiva, in vista di un rilancio del processo formativo”[1].
Mettere al centro lo studente
Questo mettere al centro lo studente, si configura oggi come una valutazione in prospettiva ermeneutica, cioè capace di mobilitare il soggetto verso nuovi livelli di apprendimento, partendo da quello iniziale dello studente, in un’ottica di personalizzazione.
L’attività della valutazione non è più dunque un momento determinato in modo preciso dal punto di vista temporale o didattico, ma diviene un “continuum” nel processo educativo stesso[2].
Se tutto questo è fondamentale per le discipline scolastiche, lo è anche per l’IRC che si inserisce nel quadro delle finalità della scuola, per promuovere competenza negli alunni.
In quanto disciplina scolastica l’Irc prevede una regolare valutazione ma per alcuni aspetti questa si differenzia da quella delle altre discipline. Tra le peculiarità, un aspetto che stona nel documento di valutazione degli alunni è il divieto di voto numerico.
Il divieto di voto deriva dalla legge 824/30 che all’art.4 aveva stabilito che in “in luogo di voti ed esami (per l’irc – ndr) viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica”. Questa formula è stata recepita nel Testo Unico del 1994 (art. 309, c.4).
Il divieto di voto non ha mai costituito una sostanziale differenza nella scuola dell’obbligo, ove erano in vigore i giudizi (dalla legge 517/1977). Le legge 169/2008 ha però ripristinato il voto numero anche nel primo ciclo di istruzione, rendendo nuovamente evidente la diversità di valutazione dell’Irc. Il diverso codice comunicativo della valutazione viene riconfermato dal Dpr 122/09 che lascia intendere delle possibilità di modifica ma di fatto non le mette in atto, dichiarando che la valutazione dell’Irc è ancora “espressa senza attribuzione di voto numerico”.
Posizione che viene conferma anche dal D.lvo 62/2017 recante Norme in materia di valutazione e certificazione delle competenze nel primo ciclo ed esami di Stato, afferma che “per le alunne e gli alunni che se ne avvalgono, e’ resa su una nota distinta con giudizio sintetico sull’interesse manifestato e i livelli di apprendimento conseguiti” (art.2 c.7).
La normativa
Come si evince la normativa parla chiaramente di un giudizioma quali aggettivi debbano essere utilizzati non vengono riportati in nessuna norma [3]
In passato la Cm 20/64 aveva consolidato l’uso di quattro aggettivi (scarso, sufficiente, molto, moltissimo). Con l’autonomia è stato attribuito alle singole istituzioni scolastiche il compito di individuare i criteri di valutazione da applicare, per individuare “le modalità e i criteri di valutazione degli alunni nel rispetto della normativa nazionale” (Dpr 75/99, art.4, c.4).
Detto ciò, da va sè che spetta alle singole scuole definire con apposita delibera del collegio docenti la scala dei giudizi da applicare. Nella prassi la scala più diffusa è quella che era in uso fino a poco tempo fa nella scuola primaria, ovvero attraverso cinque livelli di merito: ottimo, distinto, buono, sufficiente, non sufficiente. Ovviamente, per uniformità, la stessa scala di valori dell’Irc deve essere applicata alla valutazione della attività alternative.
Questa scala di giudizi, dopo l’applicazione della legge 169/08 ha creato non poche difficoltà di interpretazione. Gli alunni e le famiglie ricevevano una diversa valutazione tra le discipline, valutate con un voto numerico da 1 a 10 (dei quali usualmente vengono utilizzati solo i voti da 4 a 10, utilizzando così 7 livelli) e quella dell’Irc che riportava i giudizi da Non sufficiente a Ottimo (con 5 livelli).
Il 4 dicembre scorso è stata pubblicata l’Ordinanza n. 172 dal titolo “Valutazione periodica e finale degli apprendimenti delle alunne e degli alunni delle classi della scuola primaria”. Questa norma individua un nuovo apparato valutativo oltre al voto numerico ed introducendo il giudizio descrittivo per ciascuna delle discipline previste dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo, Educazione civica compresa.
I livelli di apprendimento
Secondo quanto previsto dalle nuove disposizioni, il giudizio descrittivo di ogni studente sarà riportato nel documento di valutazione e sarà riferito a quattro differenti livelli di apprendimento:
Avanzato: l’alunno porta a termine compiti in situazioni note e non note, mobilitando una varietà di risorse sia fornite dal docente, sia reperite altrove, in modo autonomo e con continuità.
Intermedio: l’alunno porta a termine compiti in situazioni note in modo autonomo e continuo; risolve compiti in situazioni non note, utilizzando le risorse fornite dal docente o reperite altrove, anche se in modo discontinuo e non del tutto autonomo.
Base: l’alunno porta a termine compiti solo in situazioni note e utilizzando le risorse fornite dal docente, sia in modo autonomo ma discontinuo, sia in modo non autonomo, ma con continuità.
In via di prima acquisizione: l’alunno porta a termine compiti solo in situazioni note e unicamente con il supporto del docente e di risorse fornite appositamente.
I livelli di apprendimento saranno riferiti agli esiti raggiunti da ogni alunno in relazione agli obiettivi di ciascuna disciplina. Nell’elaborare il giudizio descrittivo si terrà conto del percorso fatto e della sua evoluzione.
L’intento che muove questo cambiamento è quello di riuscire a cogliere il processo di apprendimento in tutte le sue sfaccettature, evitando eccessive semplificazioni. Secondo quanto riportato, il voto non può esprimere tutte le complessità ma è necessariamente una sintesi. La nuova declinazioni per obiettivi vuole cogliere i livelli dell’alunno nei processi fondanti della disciplina.
E l’IRC?
L’Ordinanza di cui sopra esclude l’IRC, poiché afferma che “La descrizione del processo e del livello globale di sviluppo degli apprendimenti, la valutazione del comportamento e dell’insegnamento della religione cattolica o dell’attività alternativa restano disciplinati dall’articolo 2, commi 3, 5 e 7 del Decreto valutazione” (art.3, c.8).
Tale affermazione, però, entra in contrapposizione con le norme esplicitate precedentemente, in quanto l’unico vincolo di legge per la valutazione dell’Irc è il divieto di voto numerico; quindi, qualsiasi giudizio verbale è lecito, purchè espresso in modo sintetico e globale.
Di fronte a questo, il docente di IRC può proporre al Collegio Docenti di adeguare la scala dei giudizi della disciplina. Ovviamente tale adeguamento rimarrebbe per ora solo formale, in quanto nella nuova prospettiva valutativa non si intende dare un giudizio sintetico ma un insieme di obiettivi correlati ai livelli indicati precedentemente.
Va da sè che, se per tutte le discipline della scuola primaria il docente non deve più esprimere un singolo voto riassuntivo, che – a detta dell’Ordinanza e delle Linee Guida non è esplicativo in riferimento ai livelli raggiunti dal singolo studente – anche l’IRC dovrebbe arrivare ad avere una declinazione di obiettivi/livelli, sintetizzati da un giudizio finale.
Tale adeguamento del giudizio dell’Irc a quello delle altre discipline è dunque auspicabile, in modo da avere una continuità valutativa e una più immediata comunicazione dei livelli di apprendimento, in un orizzonte di sviluppo delle competenze dell’alunno.
Dare una valutazione formativa per giudizi chiari ed espliciti, unitari tra tutte le discipline, potrebbe semplificare la valutazione e la comunicazione dei risultati di apprendimento, nell’ottica di sviluppare competenze trasversali.
NOTE
[1] Cfr D. Maccario, Il paradigma docimologico: prospettive, tecniche, strumenti., in P. Rivoltella, P. Rossi, L’agire didattico. Manuale per insegnanti, ed. La Scuola, 2017
[2] Cfr. L. Giannandrea, La valutazione. Il paradigma ermeneutico: prospettive, tecniche, strumenti. in P. Rivoltella, P. Rossi, L’agire didattico. Manuale per insegnanti, ed. La Scuola, 2017
[3] Cfr S. Cicatelli, Prontuario Giuridico IRC, ed. Queriniana, 2020
La grande sfida che la scuola ha dovuto affrontare con la didattica a distanza (DAD) ha messo in evidenza l’insufficienza della didattica trasmissiva tradizionale. Il Trap è il genere musicale che spopola tra gli adolescenti ed è noto per i testi eticamente inaccettabili. Eppure c’è trapper e trapper e a cercare bene nel repertorio saltano fuori figure non banali, attraverso le cui canzoni si può persino trovare un modo per avvicinare i ragazzi a Dante. Sapranno i professori mettere in gioco il vissuto esperienziale dell’alunno ed in un rapporto dialettico. Di seguito riportiamo l’articolo di P. Talanca, Trap e scuola, un tabù da superare? pubblicato su Avvenire il 18 dicembre che riflette du questa problematica.
I nostri figli li ascoltano come noi ascoltavamo i cantautori; molti li imitano e scrivono versi per vomitare ciò che non riescono più a tenersi dentro. Sono gli artisti che fanno trap, sottogenere musicale del rap o dell’hip hop. Il più delle volte, le loro canzoni hanno testi eticamente inaccettabili, carichi di sessismo, esaltazione del denaro e di uno stile di vita non certo integerrimo.
Ora, la domanda è la seguente: vista tale passione dei ragazzi, non sarebbe forse il caso di fermarsi e rifletterci su, per trasformare a scuola quella passione in apprendimento?
La principale reticenza dei detrattori sta proprio nei temi: argomenti sconvenienti, inammissibili, quindi – secondo loro – da tenere alla larga. Posizione rispettabile ma, mi sia consentito, poco lungimirante.
Questi testi parlano di una generazione sbandata, di periferie pericolose, di esaltazione della violenza come atto di supremazia, di ultimi con spalle al muro e terra bruciata davanti agli occhi.
Bisognerebbe tener presenti le parole del Pasolini de Le ceneri di Gramsci, in particolare della poesia Picasso: «Nel restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo, è da cercare la salvezza».
Se la scuola non è scuola degli ultimi e non fornisce strumenti per affrontare la realtà, capirla e smettere di averne paura, fallisce miseramente. Se fallisce, la violenza fisica e verbale avrà sempre la meglio e, per i ragazzi, diventerà l’unica reazione possibile a un mondo distante e incomprensibile.
La trap non è tutta uguale: prendiamo Tedua uno dei più talentuosi
Spesso pesca nel torbido, come l’infimo livello di certi brani sessisti di Sfera Ebbasta o Mambolosco. Ma è anche quella di Izi, di Ernia, di Tedua o Massimo Pericolo. Nei brani di questi ultimi è possibile rintracciare un percorso, una coerenza che dona autenticità alla necessità di scrivere canzoni e cantarle come riscatto sociale.
Classe 1994, nato a Genova, con un’infanzia difficile passata tra Cogoleto e Milano, nelle interviste e nelle canzoni ripete spesso che in lui è chiaro il percorso artistico e personale che sta facendo: «Credo che sia un bene dell’hip hop il fatto che l’artista crescendo vada a elevarsi, quando parte dal basso. Quindi, più andrò in alto, più spero di trovare attorno a me meno negatività, meno aggressività, meno ignoranza, più cultura». Queste parole descrivono perfettamente i tre album pubblicati fino a ora e i temi che intarsiano la sua poetica, come il suo sport, il pugilato, metafora della lotta dentro regole ben precise, o la rivalsa tramite i versi del rap: anch’esso ha delle regole, di metrica, di rima, di forma.
La canzone 3 Chanches (dilla tutta)
C’è un momento, un preciso momento contenuto nella canzone 3 Chanches (dilla tutta), che esprime la consapevolezza su quali siano gli strumenti utili per un percorso virtuoso. È nella parte centrale del brano, che parla di ripartire dopo un errore, tenendo fede alle tue parole che devono rispecchiare la tua vita: «Se parli usa parole giuste, di’ le cose come stanno – mondo bugiardo – senza tacere per non ferire o mentire: una bugia detta a sé stessi può sembrare realtà. Non puoi, non potrei mai alzarmi dal letto e guardarmi allo specchio senza sapere poi chi ci stia dietro come l’autista che guida la metro ».
Questa è la premessa teorica, poi c’è l’applicazione nella sua vita: «Ok, Cogo è la squadra, se qualcosa non quadra homie calmati e chiamami, racconta chi ci infama. Due, tre bitches nel backstage, soldi dentro una Bentley, sedili massaggianti, guarda avanti, il driver non parla e non sente». Tutti questi elementi tabù inaccettabili sono elencati ma stigmatizzati dalla forza della strofa precedente dell’autista della metro, in cui Tedua ci aveva dato gli indizi di lettura: se riempi la tua vita con quegli elementi effimeri, essa non ti rispecchierà e porterai in giro una carcassa che non ti appartiene, come l’autista della metro o il driver.
Questo è Tedua e può essere molto utile “usare” in classe le sue canzoni. Proprio in quest’ottica, potrebbe essere prezioso rendere protagonisti i ragazzi impegnati nella didattica a distanza attraverso delle “lezioni capovolte” – o flipped classroomcome dicono quelli che amano essere invasi dagli anglicismi –, per far sì che la didattica a distanza non sia una semplice riproposizione, tramite video, di quella in presenza.
Il trap e Dante
Dalla mia esperienza personale posso dire che, per esempio, introdurre lo studio di Dante grazie anche alle canzoni trap dà ottimi risultati. Non si tratta di paragonare le capacità poetiche di Tedua a quelle di Dante. Chi pone il discorso in questi termini guarda, in malafede, il dito e non la luna. Quello di Dante è un viaggio verso la luce, la conoscenza, la civiltà; si potrebbe dunque introdurre il tema agli alunni e spiegare loro l’importanza di questo percorso, lanciare spunti tramite un video di alcuni minuti, focalizzare la loro attenzione su un passo particolare, per esempio il viaggio di Ulisse del XXVI dell’Inferno. Poi invitarli a imbastire una lezione sui collegamenti tra il viaggio dantesco e il movimento di Tedua verso la cultura, in particolare per i brani del nuovo disco, che si intitola proprio Vita vera. Aspettando la Divina Commedia. Per esempio, La story infinita: si parla degli sbagli del passato, delle sberle che la vita ti dà e che ti forgiano. È un tema molto caro alla poetica di Tedua, è la diritta via smarrita da Dante. Spicca un passo su tutti: «Io voglio solo scrivere di ciò che vivo e vivere di ciò che scrivo» (cantato da Massimo Pericolo nel featuring). I versi, le barre, le rime come strumento per elevarsi socialmente. Sono vere e proprie vene d’oro per stimolare l’interesse e l’apprendimento creativo dei ragazzi. Sono temi profondi e veri, soprattutto se si conoscono le storie personali di chi le canta.
La formazione degli insegnanti
Qui entra però in gioco un altro problema: la formazione degli insegnanti. Non solo sulle nuove espressioni artistiche come la trap, ma anche su una scuola troppo ferma a una didattica a trasmissione lineare classica ed espositiva del sapere. Raramente si riesce a mettere in gioco il vissuto esperienziale dell’alunno, quasi mai questo vissuto entra in rapporto dialettico con quello del professore. Cominciare a prendere sul serio gli artisti e le canzoni trap, fare una cernita ragionata e puntare sul necessario approccio critico dei ragazzi verso quest’arte mi sembra un buon modo di cominciare.
P. Talanca, Trap e scuola, un tabù da superare?, Avvenire 28.12.20
Mentre continuano nel silenzio generale le persecuzioni verso i cristiani nel mondo, in particolare in Africa e in Asia, non va meglio in Europa. Ormai non si discute più sull’affermazione delle radici cristiane nella Costituzione europea. Sembrano però avverarsi le profetiche previsioni di J.Ratzinger di un futuro minoritario per la Chiesa cattolica in Europa. L’analisi, di questi giorni, del card Eijk per l’Olanda lo conferma chiaramente. Tra 50 anni, si è scritto nel 2017, l’islam sarà maggioritario in Europa. E non c’è stata una inversione di tendenza. Secondo alcuni studiosi, come il Prof. Renato Cristin, docente di ermeneutica filosofica a Trieste, stiamo vivendo in Europa “da un lato il silenzio sparso sui temi e sui cardini del cristianesimo, dall’altro il bavaglio imposto a chi afferma non solo il ruolo storico ma anche la necessità del cristianesimo per il futuro dell’Europa”.
Per rompere questo silenzio presentiamo l’interessante analisi di Francesco Boezi, “Il cristianesimo è in crisi: così l’Europa ha rifiutato le sue radici”, apparsa su Insideover, il 15/12/2020.
I cristiani non sono mai stati perseguitati con questa incidenza, ma la violenza subita si palesa in Medio Oriente o in Africa, mentre il substrato culturale d’Europa sta riservando alla cristianità un altro tipo di trattamento. Per dirla in breve, si tratta di una sorta di boicottaggio silenzioso che tende a dimenticare le radici. Non senza qualche omissione: si pensi, per esempio, alle volte in cui papa Francesco ha ribadito il suo fermo “no” all’aborto ed alle pratiche eutanasiche.
Chi si occupa di comunicazione preferisce ricordare come Jorge Mario Bergoglio abbia sposato la causa delle “unioni civili”. Perché la posizione del pontefice argentino sulla bioetica non sembra essere in linea con i desiderata di quello che Joseph Ratzinger aveva chiamato e immaginiamo continui a chiamare “relativismo”. Certo il discorso è più complesso di così, ma il racconto di un pontefice sempre disposto ad abbracciare il progresso può essere funzionale a chi, di valori non negoziabili, non ne vuole più sapere.
E poi qualche attacco c’è eccome, come nel caso delle chiese polacche ormai al centro delle attenzioni degli abortisti. Anche in Polonia, baluardo del cattolicesimo conservatore, la secolarizzazione ha iniziato a sgomitare. Non va meglio in Francia, dove i simboli della cristianità stanno subendo un attacco che appare sistemico. L’incendio di Notre Dame elevato ad immagine in grado di descrivere il momento. Sono prove fisiche di scomparsa forzosa del culto, in un continente dove i numeri già raccontano una discesa che porta dritta al capolinea o quasi, con il tanto ventilato effetto della sostituzione con l’islam sul podio delle religioni professate in Europa.
Per rintracciare un contesto dove il cattolicesimo ha assunto le fattezze di un ricordo lontano o quasi basta andare in Olanda, dove il cardinal Eijk cerca di ricordare a tutti che no, Dio non può essere estromesso. Forse però la sua è una delle poche voci rimaste. Indizi per una risalita non ce ne sono. Anzi, Benedetto XVI, nella più celebre delle sue previsioni, ha pronosticato un futuro minoritario per la Chiesa cattolica, costretta – nell’analisi dell’emerito – a ripartire da zero.
Tutto questo avviene mentre l’agenda progressista non sembra conoscere ostacoli. Anche in Italia, dove la cosiddetta Zan-Scalfarotto, nonostante l’opposizione della base e dei vertici istituzionali ecclesiastici, continua il suo iter senza intoppi. Sempre Ratzinger riteneva i “nuovi diritti” pericolosi per l’integrità delle radici cristiane, ma barriere tra le realizzazioni di un mondo centrato sui “nuovi diritti” non ne esistono più o quasi. A complicare la situazione ci pensa la crisi delle vocazioni, che rischia di minare alla base una delle poche istituzioni della tradizione occidentale rimaste in campo, ossia proprio la Chiesa cattolica, che deve guardare ai consacrati degli altri continenti per riempire un gap che rischia di svuotare le Messe.
Le cose non vanno meglio in Germania dove, tra un tentativo di ammodernare la dottrina e l’altro, i numeri raccontano di una fuga di fedeli. Di radici cristiane nella Costituzione europea non si parla più. Anche perché in fin dei conti una Costituzione europea non è più stata promulgata. E il Vecchio continente si appresta a salutare il 2020 con una certezza che ormai si rivela tale di anno in anno: di aver perso qualcosa in termini di cattolicesimo. Numeri, cultura, fede: sono tutti aspetti di qualcosa che assomiglia ad un lento addio, al netto dei possibili colpi di coda che tuttavia non vengono per ora registrati dalla casistica. Tra 50 anni, si è scritto nel 2017, l’islam sarà maggioritario in Europa. Non c’è stata una inversione di tendenza, e di anni ora ne mancano pochi.
L’attacco al cristianesimo
Tanti pensatori ed intellettuali, nel corso di quest’ultimo decennio, hanno denunciato l’imminente scomparsa del cristianesimo dall’Europa. Da Augusto Del Noce a Remy Brague, passando da chi ha intravisto un “tramonto” dell’Occidente nel suo complesso come Oswald Spengler. Da qualche anno a questa parte, un cardinale ha intrapreso il sentiero che conduce ai medesimi avvertimenti ed a conclusioni molto simili a quelle delle personalità appena citate: Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto e per la Disciplina dei sacramenti, ha messo tutto nero su bianco. “Dio o niente“, si chiede il cardinale nel titolo di una delle sue opere più celebri. La terza opzione non esiste.
Tra le menti contemporanee che condividono le preoccupazioni dei pessimisti sul futuro del cristianesimo europeo, c’è di sicuro il professor Renato Cristin, che ha dato all’Europa della “narcotizzata” in più di una circostanza. Cristin, che è triestino e che sempre a Trieste insegna, è docente di ermeneutica filosofica. Tra i suoi studi, spiccano quelli su Heidegger, Husserl e Gadamer: filosofi che sull’Occidente hanno mostrato cartelle cliniche non proprio ottimistiche. E Cristin, che abbiamo interpellato noi de ilGiornale.it, disegna una mappa del futuro, partendo dagli avvenimenti odierni: “l cristianesimo è coinvolto oggi – premette – in un più ampio attacco alla tradizione spirituale e culturale europea. Sono d’accordo con Lei – dice – : sul suolo europeo la forma di questa aggressione, nel contesto di un attacco violento, è principalmente il silenzio, ma duplice: da un lato il silenzio sparso sui temi e sui cardini del cristianesimo, dall’altro il bavaglio imposto a chi afferma non solo il ruolo storico ma anche la necessità del cristianesimo per il futuro dell’Europa”. Nel Vecchio continente non c’è persecuzione, ma appunto un silenziatore o “bavaglio”.
Qualcosa che il cristianesimo sta subendo non senza consapevolezze. E quando qualcuno si espone in difesa del cristianesimo, secondo il professore, non lo fa con la forza naturale che la dottrina porterebbe naturalmente in dote: “Viene ammesso a parlare a nome della nostra religione solo chi ne presenta l’aspetto «debole» e politicamente corretto. Insomma, potete parlarne, purché contribuiate alla sua dissoluzione”. L’Europa avrebbe già individuato il suo avvenire.
La profezia di Benedetto XVI
É il 1969 e Joseph Ratzinger è in onda su una radio tedesca. Nessuno sa, all’epoca, che quelle parole verranno elevate a “profezia”. Quello che sarebbe diventato papa Benedetto XVI sta parlando di una Chiesa “piccola”, destinata a ricostruire tutto partendo dalle ceneri, di una Chiesa senza più il potere di cui ha disposto. E il riscatto? Un piccolo gruppo di fedeli – una Chiesa minoritaria – avrebbe risollevato le sorti del cristianesimo. In pochi, ai tempi, capiscono la portata di quelle affermazioni. I ratzingeriani oggi non fanno fatica a fotografare il momento: siamo nella prima fase della previsione, affermano. E il futuro riserverà le risposte sulla seconda. Non si può rileggere il pontificato del mite teologo di Tubinga strappando la pagina sulla rinuncia, ma la lucidità con cui Ratzinger aveva previsto l’andamento della parabola cristiana a distanza di tempo stupisce forse più delle dimissioni.
Sulla sua trincea si combatte ancora. Anche il professor Cristin concorda: “Su questo punto (il tramonto del cristianesimo, ndr) papa Ratzinger è stato il degno successore di Giovanni Paolo II: come non si transige sui princìpi (perciò definiti appunto non-negoziabili), altrettanto non si deve transigere sull’identità spirituale cristiana in senso storico e culturale”. Il regno del tedesco è finito. Ora sul soglio di Pietro siede il primo Papa gesuita della storia, e per Cristin le differenze sono evidenti: “Oggi il vertice vaticano ha separato queste due istanze, con il risultato che l’identità cristiana è allo sbando e intorno ai princìpi si agita grande confusione. Sì, Benedetto XVI aveva lanciato ben più che un avvertimento su questo rischio”, conclude.
L’avanzata dell’islam
Se le statistiche non mentono, l’islam dominerà il contesto religioso europeo tra meno di metà secolo. L’attesa è l’unico fattore che separa quell’assunto dalla realtà. Stando al report di Fare Futuro, ad esempio, il fenomeno sta iniziando a coinvolgere anche due ambiti dello stile europeo senza eguali: i libri ed il calcio. Un moto che non è solo religioso ma anche sociale, perché abbraccia tutto. Se l’incendio di Notre Dame è l’istantanea allegorica della crisi del cristianesimo, la conversione di Santa Sofia a moschea è l’immagine plastica, e per nulla metaforica, dell’avanzata della religione musulmana e delle sue espressioni, che come sappiamo possono differenziarsi.
In questo quadro, il Papa regnante è certo della necessità di un dialogo a tutti i costi.
Nella sua ultima enciclica, Fratelli Tutti, Bergoglio ha scritto di essere stato ispirato, tra gli altri, dall’imam di Al-Azhar, con cui ha sottoscritto una dichiarazione congiunta in difesa e sostegno della cosiddetta Fratellanza Umana. Conservatori, cattolici e non, alzano la mano per segnalare dissenso rispetto all’atteggiamento, ma per ora la ricezione delle alte gerarchie non c’è.
Cristin, che è un conservatore, pensa che l’accerchiamento si stia ormai definendo: “La tenaglia con cui il relativismo politicamente corretto e l’islam religiosamente integro stanno accerchiando l’identità europea è solida e minacciosa. Se la morsa dovesse prevalere, la nostra identità certamente scomparirà, almeno nelle sue strutture fondanti, ma non si riesce ancora a vedere quale fra le due punte opposte prevarrà”. Non tutto è perduto, quindi.
Pure in questo caso la strada tracciata non è tanto sgombra da imprevisti: “Probabilmente assisteremo, sul medio periodo, a una convivenza fra islam e istituzioni relativistiche, una pace armata in vista di una resa dei conti, ma in ogni caso sarà una scena dalla quale lo spirito europeo sarà escluso”, aggiunge il professore Cristin. Il tanto temuto “scontro di civiltà” non viene del tutto escluso.
La Chiesa cattolica odierna ha delle responsabilità?
Gli oppositori di Jorge Mario Bergoglio pensano che il vescovo di Roma, che sarebbe influenzato da un pregiudizio nei confronti dell’Occidente, non sta costruendo le mura difensive che servirebbero per evitare un collasso. Anzi, il Papa si sarebbe alleato con ideologie e forze che minerebbero alla base l’identità cristiana europea: ambientalismo, terzomondismo filo-amazzonico, il progressismo dottrinale, il multilateralismo diplomatico ed il sostegno, più o meno manifesto, alle istituzioni che si oppongono al sovranismo: sono tutti fattori che contribuirebbero ad indebolire le radici cristiane d’Europa.
Per dirla con il professor Renato Cristin “La Chiesa di papa Bergoglio ha abbandonato lo spirito europeo, presa da altri orientamenti e altri orizzonti, quindi non ha interesse a difendere l’identità religiosa dell’Europa, a meno che non sia quella sorta di miscela fra cristianesimo e islam a cui, impercettibilmente ma decisamente, il Vaticano sta oggi mirando”.
La questione della “religione universale” non è nei piani della Santa Sede, ma c’è chi comunque interpreta il dialogo a tutti i costi alla stregua di un disegno che assottigli le differenze tra cristianesimo ed islam. A questo sembra riferirsi Cristin quando suppone la “miscela”. Comunque sia, la traiettoria sembra procedere verso la fine: “In ogni caso, l’identità cristiana europea non esisterà più, a meno che non riesca a invertire questa tendenza distruttiva”, chiosa il professore di Ermeneutica filosofica.
Francesco Boezi, Il cristianesimo è in crisi: così l’Europa ha rifiutato le sue radici, Insideover, 15/12/2020
Il tema dell’aborto è ritornato in questo ultimo periodo all’attenzione dell’opinione pubblica per lo scontro che si sta vivendo in Argentina e in Polonia. In Argentina lo scontro è nato in seguito al tentativo del presidente Alberto Fernandez, di far approvare una legge che liberalizzerebbe l’uccisione del nascituro. In Polonia, invece, a causa della protesta di massa, sostenuta da una risoluzione del parlamento europeo, contro l’alt imposto dalla corte suprema alla legalizzazione dell’aborto eugenetico. Anche Papa Francesco ha preso più volte posizione, in questo ultimo periodo, contro l’aborto. Una posizione dura e decisa che ha espresso anche nel suo ultimo libro“Ritorniamo a sognare”, in cui ha affermato: “Non posso tacere sugli oltre 30-40 milioni di vite non nate che vengono scartate ogni anno per mezzo dell’aborto … questa pratica viene spesso promossa perché i bambini in arrivo sono disabili o non pianificati”. Riportiamo di seguito la lettera di papa Bergoglio ai suoi ex alunni argentini in cui a proposito dell’aborto pone due interrogativi: 1) È giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema? E 2) è giusto assoldare un sicario per risolvere un problema? Per concludere con l’affermazione: “la questione dell’aborto non è una questione primariamente religiosa, bensì umana, una questione di etica umana che è previa a qualsiasi confessione religiosa”.
LA LETTERA DI PAPA FRANCESCO AI SUOI EX ALUNNI ARGENTINI
Cari amici,
grazie per la mail. Mi ha molto rallegrato riceverla e mi fa piacere sapervi tanto inquieti per il bene della Patria. L’amore per la Patria è un valore fondamentale, indica amore per i padri della Patria, amore per le tradizioni, amore per il popolo della Patria. A volte penso (osservando alcuni paesi d’Europa) che conti, più che l’amore per la Patria, l’amore per l’”azienda” che porta avanti il paese… e quando vedo questo mi viene in mente la poesia di Jorge Dragone: “la nostra Patria è morta”.
Devo confessarvi che non sono a conoscenza di tutto ciò che accade lì, nei dettagli. La segreteria di Stato mi mette al corrente degli avvenimenti dei paesi una volta alla settimana. Ci si riunisce e vengo informato. Lì vengo a sapere dei fatti dell’Argentina e confesso che alcuni mi preoccupano. Non tengo corrispondenza con i politici; solo ogni tanto ricevo lettere di persone che sono in politica, ma pochissime; e la mia risposta è piuttosto pastorale e di buona educazione, senza mescolarmi nella lotta politica di tutti i giorni. Una delle ultime lettere mi poneva il problema dell’aborto e io ho risposto come faccio sempre (anche nell’ultimo libro “Ritorniamo a sognare”, che esce oggi); la questione dell’aborto non è una questione primariamente religiosa, bensì umana, una questione di etica umana che è previa a qualsiasi confessione religiosa. E suggerisco che vengano poste due domande: 1) È giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema? E 2) è giusto assoldare un sicario per risolvere un problema? Mi viene da sorridere quando qualcuno dice: “Perché il Papa non fa arrivare all’Argentina la sua opinione riguardo all’aborto?”. Perché non faccio altro che farla arrivare a tutto il mondo (Argentina compresa) da quando sono Papa.
E questo tocca un altro problema. In generale lì non si sa che cosa dico giorno dopo giorno…, si sa quello che dicono che io dico, e questo grazie ai media i quali, lo sappiamo bene, rispondono a interessi parziali, particolari e partitici. In questo credo che i cattolici, dall’episcopato sino ai fedeli di una parrocchia, abbiano il diritto di sapere cosa dice veramente il Papa… e non quello che gli fanno dire i media; qui gioca molto il fenomeno del riferito (per es. Mi ha detto Tizio che Caio ha detto questo… e così la catena continua). Con questo metodo di comunicazione, nel quale ognuno aggiunge o toglie qualcosa, si arriva a risultati inverosimili, come per esempio il racconto di Cappuccetto Rosso che finisce a tavola con Cappuccetto e la nonna che mangiano uno squisito spezzatino cucinato con la carne del lupo. Così succede con il riferito.
Già due volte è stato menzionato il mio rapporto (di vicinanza, di amicizia) con la sig.ra de Kirchner. L’ultima volta che sono stato in contatto con i due ex Presidenti (lei e l’ing. Macri) è stato quando erano ancora in carica. Dopodiché non ho più avuto alcun contatto con loro. È vero che le espressioni “sono molto amico di” o “sono in contatto abituale con” sono tipiche della popolazione “porteña” [di Buenos Aires – ndr], e non è la prima volta che lo sento dire (scherzosamente potrei dire di non avere mai avuto “tanti amici” come ora).
Per quanto riguarda “la proprietà privata” non faccio altro che ripetere la Dottrina Sociale della Chiesa. In verità alcuni prendono le mie affermazioni per trasformarle o interpretarle secondo il loro punto di vista. San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, a questo proposito, si sono espressi in maniera ancora più dura. Credo che nelle Parrocchie e nelle Scuole Cattoliche la Dottrina Sociale della Chiesa non sia spiegata abbastanza, soprattutto nel periodo che va da Leone XIII ad oggi; ecco perché tanti malintesi. Un santo vescovo, per il quale è stata avviata la causa di canonizzazione, diceva: “Quando mi occupo dei poveri dicono che sono un santo; ma quando chiedo qual è la causa di tanta povertà mi danno del comunista”.
Il Dr. Grabois, da anni, è Membro del Dicastero dello Sviluppo Umano Integrale. Riguardo a ciò che dicono che lui dica (che è mio amico, che è in contatto con me, ecc.) vi chiedo un favore, che per me è importante. Ho bisogno di una copia delle dichiarazioni in cui egli dice queste cose. Mi sarà molto utile riceverle.
Bene, la lettera si fa lunga. Mi sono soffermato più volte sulle vostre firme… e vi ricordo a uno a uno. Qualcuno di voi è già diventato bisnonno? E sono tornato indietro agli anni ’64-65 e con molto affetto ho accarezzato immagini che “toccano” il cuore mentre, quasi inconsciamente, rispuntava la frase del Brindisi di Gerardo Diego. Per me anche questo è tornare alle fonti.
Grazie per aver scritto. Prego per Voi e le vostre famiglie; per favore, chiedo a voi di continuare a farlo per me.
Che Gesù vi benedica e la Vergine Santa si prenda cura di voi. Fraternamente,
Francisco
PS: su quanto dico dei mezzi di comunicazione, mi sono spiegato più estesamente in Fratelli tutti nn. 42-53.
Si ricomincia a parlare di riaprire le scuole. Finite le vacanze di Natale, il 7 gennaio si tornerà a scuola.
Ma non si può ricominciare come se niente fosse accaduto e con la voglia di recuperare in fretta il tempo perduto.
Gli studenti, come tutti noi, hanno vissuto un dramma epocale e se vogliamo educare dobbiamo ripartire dall’ascolto e dal prendersi cura delle ferite che bambini e ragazzi hanno subito e vanno curate.
Agli educatori tutti, il compito di accompagnare i processi di ricostruzione della normalità e di una nuova progettualità che tenga conto delle esperienze fatte e, a partire da quelle, si apra ai nuovi sogni di futuro.
In questa logica abbiamo voluto riprendere l’interessante riflessione: “Cari professori usate la grazia”, di Maria Pia Veladiano, pubblicata su “la Repubblica”.
Finalmente i ragazzi tornano a scuola.
A gennaio le superiori riaprono con addosso gli occhi del mondo. E le attese del mondo. C’è chi si aspetta soprattutto che venga recuperato il “tempo perduto”. Una corsa da riprendere, dopo l’interruzione, doppia, della pandemia.
Possono essere i genitori più orientati al risultato, come si dice, che cercano nel successo scolastico una protezione dal futuro incerto e difficilmente prevedibile e governabile in questo mondo impensato in cui ci troviamo a vivere ormai da quasi un anno.
Oppure possono essere quei docenti che si sono trovati più in sofferenza con la didattica a distanza, perché sono mancati i mezzi, o non avevano competenze mai richieste prima d’ora, oppure perché la disciplina si adattava con oggettiva difficoltà al nuovo modo di insegnare.
Se si aggiunge che qualche scuola rientrerà con il primo quadrimestre non ancora chiuso, il rischio, magari nella buonafede di tutti, è un’orgia di compiti e interrogazioni.
Ecco, non si può.
A tornare saranno gli adolescenti che il virus ha compresso in casa in compagnia di tutte le belle e tremende ribellioni dell’età inquieta.
In ogni caso si torna in classe in un tempo ancora sospeso. Senza la certezza di poter restare. Se ci sarà una terza ondata, come si dice. C’è chi torna toccato dal lutto, oppure dalla malattia sua o dei suoi cari, oppure sfiorato dalla paura o devastato da una sofferenza psichica nuova. Ragazzi che non vogliono più uscire di casa, per non parlare di andare a scuola.
Ogni passaggio di questo anno scolastico può costruire o distruggere e molto dipende da quanto gli adulti, i docenti, sapranno valorizzare la nuova prossimità con i ragazzi.
Non esiste nessun tempo perduto se ogni esperienza diventa valore. E non è un tema, come dire, solo da specialisti. Non si tratta di moltiplicare gli psicologi a scuola. Si tratta di attivare la capacità riparativa di una buona vita di classe e civile.
Uscendo da casa i ragazzi riprendono quel movimento di autonomia dalle famiglie che è una componente fondamentale della crescita e i docenti sono chiamati a riconoscere le ferite, le fragilità con cui si presentano. Che somigliano probabilmente a quelle che viviamo in tanti, ma gli adulti siamo noi e sta a noi attivare attitudini di ascolto e riparazione. Un compito educativo, umano e civico che chiede libertà dall’ansia del fare.
“Fare” molte cose visibili e universalmente riconosciute come “cose di scuola” è rassicurante per tutti. Ci rassicura anche rispetto al desiderio di un ritorno alla normalità, alla scuola com’era. Ma non sarà più com’era e va anche bene così, visto che da anni non riusciva a riparare le disuguaglianze. L’ombra della fragilità la accompagnerà. Non si potrà ripartire da dove si era interrotta.
C’è da costruire una scuola pronta a mille forme diverse di prossimità. A volte resistere è assecondare il tempo nuovo che viene. La scuola che riapre riattiva processi di equità. La possibilità della didattica a casa è legata a quelle condizioni socio, economiche e culturali che determinano, secondo tutte le indagini sugli apprendimenti, i risultati scolastici. E la crisi economica è stata subito crisi scolastica.
Questi ragazzi che abbiamo perso torneranno a scuola più diseguali e dobbiamo trovare insieme ai compagni di classe modi di recupero di intensità nuova, con l’aiuto della società civile. Capita già in tanti posti, da Milano (l’associazione Non uno di meno, di ex docenti e presidi, che affianca le scuole) a Palermo (le Comunità educanti). Si può davvero fare.
Cari professori usate la grazia, di Maria Pia Veladiano, in “la Repubblica”
Il Capitano Ultimo ha combattuto Cosa Nostra talmente in prima linea e in profondità da aver catturato il capo dei capi, Totò Riina e aver ricevuto dalla mafia una condanna a morte. Interris.it ha raggiunto al telefono Sergio De Caprio in una pausa del suo impegno solidale nella casa famiglia che si occupa di bambini strappati all’abbandono della vita di strada. Ne è scaturita un’intervista, riportata dal quotidiano “In Terris” (3 dicembre 2020), che unisce riflessioni di fede e valutazioni sugli effetti sociali della pandemia. Sostituendo la “cultura del dono di sé” a quella “cultura dello scarto” dalla quale papa Francesco ha più volte messo in guardia i fedeli.
Valori contro la pandemia
il Capitano Ultimo nel ’93 mise fine alla ultraventennale latitanza di Riina e oggi da assessore regionale in Calabria combatte le ecomafie. “La fede è sempre stata un punto fermo nella mia vita- spiega a Interris.it-. Fin dall’infanzia il mio è stato un mondo di case popolari, comunità, parrocchie. E’ l’Italia del fattore identitario che supera il Paese delle fazioni. Lo spirito di umanità è il pronto soccorso per combattere l’avidità e l’egoismo“. Aggiunge: “Praticare la cultura del dono ci consente di trovare segni di Vangelo e testimonianze di fede nel servizio al disagio del prossimo. Nel povero si guarda in faccia Gesù. Donarsi a chi ha bisogno è una preghiera recitata senza accorgersene”.
L’intervista
Cosa rappresenta per lei la fede?
“La fede è darsi sulla strada ai più fragili e indifesi. E’ il donarsi mettendosi in ascolto di coloro che incontriamo sulla nostra via. Ho imparato il valore del dono di sé dalla fede nitida di frati mendicanti che proseguivano la loro missione nonostante malattie gravi come un tumore. Ho rintracciato Cristo nell’ombra del disagio psichiatrico di chi, non avendo nulla da regalare, ha voluto darmi il suo mandolino. Tutto ciò che possedeva. E’ la fede della strada. La vita è un cammino nell’umanità. E’ così che ho capito che voler bene ai poveri è un tesoro che dura tutta la vita”.
Perché in pandemia non ha mai smesso di prendersi cura della sua casa famiglia?
“L’abbandono è il miglior alleato del virus. Il Covid aggrava le disuguaglianze sociali. E non può esistere giustizia al di fuori dell’uguaglianza e della fratellanza. Più ci allontaniamo dalla giustizia sociale più la criminalità specula e si arricchisce sulla disperazione delle fasce più deboli della popolazione”.
Come orienta la sua attività di solidarietà nell’emergenza Covid?
“Proprio perché la pandemia aggrava le disuguaglianze sociali, per sconfiggerla bisogna soccorrere subito i più deboli. Il Covid è un killer che colpisce nell’abbandono. Le fasce che colpisce di più sono quelle abbandonate. L’indifferenza e l’abbandono sono i migliori alleati del virus. Nascondere il disagio sociale per convenienza o ipocrisia spiana la strada alla pandemia”.
Qual è il suo piano di azione solidale?
“Questa emergenza sanitaria e sociale è un nemico da combattere contrastando l’abbandono. Il virus unito all’abbandono degenera in una miscela impossibile da gestire. Per affrontare il Covid dobbiamo ripartire dal mutuo soccorso, cioè da quel valore cattolico e operaio che ci ha sempre consentito di riemergere dalle rovine delle guerre e dei momenti più bui. E’ questa la nostra arma più efficace contro il Covid”.
Può farci un esempio?
“Siamo tutti travolti dalla stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca. I più fragili soffrono di più le conseguenze devastanti del Covid. C’è urgente bisogno che lo Stato agisca come una comunità coesa che si occupa con sollecitudine di persone e persone e famiglie. E’ una coscienza e una mobilitazione che devono crescere dal bassa. Il distanziamento personale per evitare il contagio va unito alla vicinanza del sostegno e della solidarietà reale”.
Vede troppe frammentazioni nella lotta al Covid?
«Sì, è evidente un certo scollamento. Le istituzioni sono tenute a capire dove sta il bisogno di aiuto. La lontananza che produce abbandono non è il metro di distanza delle misure di sicurezza, bensì è il male sociale di fregarsene degli altri e di ignorare chi soffre. La reazione al virus deve partire dall’unione delle energie”.
A cosa si riferisce?
“Alle case popolari, alle parrocchie, alle comunità. L’Italia che si divide in fazione agevola il virus. Il vaccino è quel fattore identitario che valorizza il mutuo soccorso e combatte l’avidità e l’indifferenza verso chi ha più bisogno”.
Giacomo Galeazzi, Capitano Ultimo a Interris.it: “Nell’infanzia abbandonata vedo il volto di Cristo”, da In terris, 3 dicembre 2020
Continuano ad arrivare ogni giorno notizie sulla strage dei cristiani nel mondo. Certo la persecuzione e il martirio hanno sempre accompagnato, fin dalle origini, le comunità cristiane. E’ di ieri la notizia che almeno 110 civili sono stati uccisi ieri nel villaggio cristiano di Koshobe, nel nordest agricolo della Nigeria, da miliziani di Boko Haram. Riportiamo di seguito alcuni servizi giornalistici a testimonianza di quanto sta accadendo nel silenzio generale. Anche i cristiani, preoccupati della pandemia e dei loro problemi economici, purtroppo tacciono e lasciano nell’abbandono i loro fratelli di fede in Siria, Nigeria,Pakistan e in molti altri paesi che vivono la stessa un’unica sofferenza.
Strage in Nigeria: 110 morti, il primo alleato di Boko Haram è la nostra indifferenza
Mauro Leonardi
Il fondamentalismo islamico fa una nuova strage di innocenti. Almeno 110 civili sono stati uccisi ieri nel villaggio di Koshobe, nel nordest agricolo della Nigeria, da una banda del movimento jihadista di Boko Haram, secondo quanto ha testimoniato il coordinatore umanitario dell’Onu in Nigeria. Gli uomini della banda hanno assalito uomini e donne che si trovavano a lavorare nei campi. L’accusa è insensata: questi contadini avrebbero fornito delle informazioni alle forze governative o, in ogni caso, sarebbero state loro troppo vicine. È chiaro invece che gli jihadisti vogliono colpire al cuore il paese mentre, per la prima volta dopo 13 anni, si stavano svolgendo delle libere elezioni.
“Boko Haram” è un’espressione che si può tradurre con “l’educazione occidentale è peccato”. L’organizzazione, alleata con l’Isis, è nata nel 2002 e vede l’occidente come elemento corruttore dell’islam. Il movimento divenne tristemente famoso nel 2014 per le 276 ragazze rapite da un collegio di Chibok sempre nello Stato del Borno.
I fondamentalisti agiscono secondo un’ottica suicida e demoniaca: colpire la gente che lavora in una nazione africana già vessata da enormi problemi economici e sociali. C’è una miopia crudele che mentre usa la propaganda anti-occidentale, continua a vessare proprio i più deboli e condanna alla povertà e alla guerra un Paese che millanta di “voler liberare”.
C’è poi la vigliaccheria della forza. I fondamentalisti di Boko Haram, i criminali di ogni tempo, non agiscono alla luce del sole, ma quasi sempre di notte, all’improvviso, cogliendo alla sprovvista, in modo anche da alimentare la paura, da impedire la possibilità di una vita normale.
L’unica ribellione possibile per noi, in questo momento, è la denuncia, il grido, affinché questi fatti si sappiano e vengano ricordati. In epoca di Covid, infatti, è troppo alto il rischio che le guerre dimenticate, quelle tra poveri, diventino fantasmi e che l’indifferenza sia il vero e più pericoloso alleato dell’odio religioso. E invece bisogna ricordare che non è la religione ad uccidere ma il fondamentalismo settario: come in questo caso, il 98% delle vittime fatte dall’Isis e dai suoi alleati sono musulmani. A riprova che siamo davanti semplicemente a gruppi di banditi che usano la religione per i loro scopi di terrore.
Mauro Leonardi, Sussidiario.net 30.11.2020
Uccisi, perseguitati e stuprate: fermiamo la barbarie sui cristiani Andrea Indini Matteo Carnieletto
Bisogna ascoltarli i cristiani di Siria, piegati da dieci anni di guerra. Nel 2011, quando tutto è iniziato, erano il 10% della popolazione, ma il conflitto, la leva obbligatoria e l’avanzata delle fazioni jihadiste hanno provocato un vero e proprio esodo, facendone fuggire all’estero oltre 900mila.
“Sai, noi stiamo vivendo i sette anni di carestia annunciati dalla Bibbia, ma presto arriveranno quelli della prosperità” – ci aveva detto ormai due anni fa suor Yola Girges, francescana di Damasco ora in partenza per l’Iraq, in missione – che sperava in un futuro migliore per il suo Paese. Ma in questi due anni la situazione non ha fatto altro che peggiorare: sono sempre di più i cristiani che hanno lasciato la Siria e i pochi che sono rimasti lo hanno fatto a caro prezzo, sperando contro ogni speranza. Una scelta non facile, la loro: in soli dieci anni, hanno dovuto sfidare prima le persecuzioni islamiste, poi una devastante crisi economica e, infine, l’emergenza sanitaria legata al coronavirus. Tre piaghe tremende, che sembrano non volersi rimarginare.
Insciallah, dicono indistintamente cristiani e musulmani in questa fetta di terra. Se Dio vuole. Eppure molti si chiedono dove sia finito Dio – che pure è nato non lontano da lì e che ha inviato il suo apostolo prediletto, Paolo, in quella Siria oggi martoriata? C’è chi dice che stia guardando altrove e chi, invece, sostiene che abbia tempi che gli uomini non possono comprendere perché non sono di questo mondo, ma di un altro, dove i secondi si contano in millenni. Insciallah, dicevamo. Se Dio vuole.
Insciallah, pensano le famiglie siriane che si stanno preparando a festeggiare il Natale. “I cristiani qui ora sono diventati una minoranza. Il loro numero è sempre più piccolo. In questo Paese non hanno denaro e chi rimane è perché non ha i mezzi per andarsene”. Ma non solo: “L’Occidente si è dimenticato dei cristiani di Siria, che ora vivono sotto la legge islamica e la sharia. Inoltre, la situazione finanziaria è molto precaria”. Mentre in Italia, poco alla volta, i negozi riaprono per permettere alle persone di fare i regali di Natale, in Siria si fanno i salti mortali per tutto: “Stiamo pagando moltissimo l’elettricità, le medicine, il cibo e i vestiti. Tutto è diventato molto costoso”. Per questo motivo, ilGiornale.it ha lanciato una raccolta fondi per aiutare i cristiani di Siria. Non servono cifre folli per fare la differenza e bastano alcuni numeri per comprenderlo: un euro equivale a oltre 600mila lire siriane, lo stipendio medio ad Aleppo è di circa 69 euro e in buon ristorante si pranza con 7.91 euro. Con pochi euro, quindi, si può fare la differenza e donare una speranza a chi, da dieci anni, è costretto a vivere tra le macerie e a convivere con il terrorismo.
Proprio ieri, a Koshobe, in Nigeria, i terroristi di Boko Haram hanno ucciso 110 persone. Si è trattato di un blitz in piena regola: i jihadisti sono arrivati all’improvviso e hanno cominciato a colpire chiunque si parasse loro davanti. Uomini, donne e bambini: nessuna differenza davanti ai proiettili. “Sono stati uccisi con crudeltà”, ha detto Edwar Kallon, coordinatore umanitario dell’Onu in Nigeria. Anche in questo caso, i numeri ci aiutano a comprendere cosa stia accadendo in questo Paese: da oltre dieci anni, i terroristi che vietano l’educazione occidentale – questa la traduzione di Boko Haram – hanno ucciso oltre 36mila persone e provocato l’esodo di oltre due milioni di profughi. La speranza sembra non trovare più casa qui. Quando, nel 2017, Daniele Bellocchio e Marco Gualazzini sono stati in Nigeria hanno trovato una realtà devastante. Come quella di Sara Tuzakaria, 43 anni e miracolosamente riuscita a scappare dai terroristi: “Era l’agosto del 2014, quando i miliziani di Shekau si sono impossessati di Gwoza. Dopo aver fatto fuggire i soldati governativi e, una volta conquistato il centro abitato, hanno iniziato con le esecuzioni sommarie. Gli uomini sono stati radunati, poi uccisi con un colpo in testa e gettati nel fiume; noi donne, invece, siamo state rapite e io sono stata portata via insieme ai miei figli”. Gli islamisti le hanno portato via i bambini. Di loro non sa più nulla. “Da quel momento non li ho più rivisti. Sono stata costretta a lavorare e cucinare per i miliziani. Volevano che mi convertissi e mi frustavano perché ero cristiana. Io ero disperata perché non sapevo nulla dei miei figli e, a un certo punto, ho smesso di mangiare: volevo morire, non potevo vivere senza avere notizie dei miei ragazzi”, ha raccontato. Come lei, sono tante le ragazze fuggite, ma solo in parte, dall’incubo jihadista. Noi vogliamo aiutarle, sostenendo la costruzione di un centro, con sede a Maiduguri, che permetterà a 150 donne di essere seguite da un team di esperti che le aiuterà a costruire un futuro per sé e per i propri figli.
Dall’Africa profonda al Pakistan, dove non si ferma la persecuzione contro le donne cristiane. Nel Paese asiatico, infatti, sono sempre di più i rapimenti organizzati da gruppi islamici radicali ai danni di giovani credenti in Cristo. Huma Younus è una di loro. La sua storia, per come lei stessa l’ha raccontata, è un continuo crescendo di violenze: “Dall’ottobre 2019 la mia vita è stata stravolta. Sono stata rapita, violentata e data in moglie al mio sequestratore. Ricevo pressioni per abbandonare la mia fede”. Ha solo 15 anni, ma la sua esistenza è già segnata. I suoi occhi, nonostante un sorriso appena abbozzato, sono spenti. A volte inespressivi. Huma è rimasta incinta in seguito alle continue violenze compiute dal suo rapitore che, tra le altre cose, ha anche un fratello (Mukhtiar) arruolato nei rangers, le forze di sicurezza pachistane, che continua a inviare video di minacce ai genitori della quindicenne. Tabassum Yousaf, avvocato dell’Alta Corte del Sindh che segue il caso, ha raccontato: “Ha chiamato i genitori di Huma con video-telefonate e, facendo vedere loro le armi, li ha minacciati dicendo che li avrebbe uccisi qualora avessero cercato la figlia. Lo stesso Mukhtiar ha aggiunto, tramite messaggi-audio, che anche se tutti i cristiani si mettessero insieme per riavere Huma lui ucciderebbe sia i genitori sia chiunque intenda aiutare questi ultimi”. Huma non è però la sola a subire questa sorte. In Pakistan vengono infatti rapite oltre 2mila cristiane ogni anno. Solamente poche riescono a fuggire. Noi vogliamo aiutarle, fornendo assistenza legale alle vittime di sequestri, matrimoni forzati e conversioni coatte, dando vita a consultazioni con le autorità di governo e i rappresentanti politici.
Andrea Indini – Matteo Carnieletto, https://it.insideover.com/societa/uccisi-perseguitati-e-stuprate-fermiamo-la-barbarie-sui-cristiani.html
Cristiani perseguitati: Asia Bibi ad Acs, “Pakistan aiuti le ragazze convertite a forza e costrette a sposarsi. Cambiare la legge sulla blasfemia”
Un appello al Primo Ministro del Pakistan, Imran Khan, perché “aiuti le nostre ragazze, abusate sessualmente, convertite con la forza e costrette a sposarsi”. A lanciarlo è Asia Bibi, la donna cristiana, condannata a morte l’11 novembre del 2010 con l’accusa di blasfemia e poi assolta 8 anni dopo dalla Corte Suprema.
Da 15 mesi la donna pakistana – il cui caso ha suscitato forti proteste da parte di gruppi cristiani e di organizzazioni per la difesa dei diritti umani che chiedevano di cancellare o rivedere la legislazione nazionale sulla blasfemia – vive in Canada insieme alla sua famiglia. “Queste ragazze sono perseguitate e nessuna deve soffrire. Consiglio ai genitori di non lasciare mai sole le proprie figlie” dichiara Asia Bibi in una video intervista rilasciata ad Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs), la fondazione pontificia che sin da subito ha sostenuto la causa della donna pakistana facendola conoscere in tutto il mondo con iniziative significative come illuminare di rosso, “il colore del sangue dei martiri”, importanti monumenti quali il Colosseo e la Fontana di Trevi a Roma, la Cattedrale e l’Abbazia di Westminster a Londra, il Cristo Redentore a Rio de Janeiro e la Basilica del Sacro Cuore a Parigi.
Ricordando i casi di due bambine cristiane rapite, convertite a forza e costrette a sposare i loro rapitori, Asia Bibi ricorda che “il Pakistan è di tutti i cittadini pakistani. Le minoranze religiose hanno diritto di cittadinanza e la legge pakistana prevede che ognuno abbia la libertà. Essa deve essere garantita e rispettata”.
Da qui un secondo appello al premier Khan: “Quando il Pakistan venne fondato, il padre fondatore, Jinnah Muhammad Ali, nel suo discorso di apertura ha garantito libertà religiosa e di pensiero a tutti i cittadini. Faccio appello al premier pakistano, specialmente per le vittime della legge sulla blasfemia e per le ragazze convertite con la forza, perché tuteli e protegga le minoranze che sono anch’esse pakistane. Da vittima offro il mio esempio: ho sofferto molto e vissuto molte difficoltà. Ora sono libera e spero che questa legge possa essere soggetta a cambiamenti che vietino ogni suo abuso”.
Nella video intervista Asia Bibi parla anche della sua prigionia e ringrazia tutti coloro che hanno pregato per lei e che si sono impegnati per farle ottenere la libertà: “Ringrazio Dio e quanti hanno pregato per me e per la mia liberazione che per me è un motivo di gioia. Dio mi ha liberata dalle difficoltà in cui mi trovavo. In questi 10 anni di false accuse ho sofferto molto per la mancanza della mia famiglia. Nessuna madre vorrebbe essere separata dai propri figli. Sono stata molto male anche fisicamente. Nel contempo ho sentito forte la presenza di Dio”.
A sostenere Asia Bibi durante la prigionia la preghiera del Rosario con una coroncina di Papa Francesco: “La preghiera è il modo per relazionarsi con Dio e nel Vangelo è scritto che chiunque seguirà Cristo verrà perseguitato. Per restare saldi nella fede la preghiera è necessaria. Ho due coroncine del Papa, una è rimasta in Pakistan, l’altra è sempre con me e ogni giorno recito il Rosario per la fede e per i perseguitati in Pakistan. Ringrazio Papa Francesco e Benedetto XVI che è intervenuto per me e ringrazio Acs, tutti i benefattori e tutti gli italiani”.
Infine un impegno: “Offro la mia disponibilità per dare visibilità alla condizione delle persone perseguitate come me a causa della fede”. E all’invito a venire in Italia del direttore di Acs Italia, Alessandro Monteduro, la risposta di Asia Bibi: “Mi piacerebbe molto vedere Roma e incontrare il Papa e voi tutti, come anche visitare i luoghi santi a Gerusalemme”.
“Ciò che colpisce parlando con Asia Bibi, non solo in occasione dell’intervista, è la sua serenità nutrita da una Fede profonda” dichiara al Sir, Monteduro, che ha intervistato la donna pakistana. “Ciò che lei ha vissuto l’ha resa simbolo per tutti noi della sopportazione nella persecuzione.
Oggi Asia si dice disponibile a divenire la testimonial dei milioni di Cristiani perseguitati. Mette dunque a disposizione di tutti noi la sua prova. È un ruolo al quale potrebbe tranquillamente sottrarsi per dedicarsi, dopo dieci anni di prigionia, alla propria famiglia e a se stessa. E invece decide di intraprendere un nuovo percorso che, per le comunità cristiane oppresse, per esempio per le tante adolescenti appartenenti alle minoranze religiose rapite e schiavizzate, può essere decisivo.
Anche gli appelli al suo Primo Ministro non sono banali esternazioni. Vengono da una donna la cui vita sarà sempre a rischio. La ospiteremo in Italia appena possibile – conclude il direttore di Acs Italia – e sono certo che non mancherà l’abbraccio dell’intera comunità cattolica italiana che mai nella preghiera l’ha abbandonata”.
L’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto alla libertà di culto. Molti paesi occidentali in seguito alla pandemia hanno imposto restrizioni al culto, non sempre giustamente motivate da ragioni sanitarie: in Francia e negli Stati Uniti ci hanno pensato i giudici a richiamare i politici ad una marcia indietro.
In Italia il premier Giuseppe Conte ha raccomandato per il Natale il «raccoglimento spirituale» e il ministro Francesco Boccia ha consigliato l’anticipazione della tradizionale Messa di mezzanotte del 25 dicembre di qualche ora perché «non è eresia seguire la Messa o far nascere Gesù due ore prima. Eresia è non accorgersi dei malati e dei bisognosi, delle difficoltà dei medici. Il Natale non si fa con il cronometro, ma è un atto di fede».
Ci sembra opportuno aggiungere alle tante posizioni presenti nel dibattito queste riflessioni.
Una riflessione sulla messa di Natale
Riportiamo quanto sul tema ha dichiarato monsignor Massimo Camisasca vescovo di Reggio Emilia-Guasta, intervenendo nella trasmissione di Nicola Porro, Quarta Repubblica:
«Vorrei dire due cose. La prima: è chiaro che non sappiamo a che ora Gesù sia nato e non sappiamo esattamente neanche in che giorno Gesù sia nato. Quindi non ha senso dire: facciamo nascere Gesù due ore prima, tre ore prima, quattro ore prima. Questo è chiaramente un discorso con altri significati. Seconda cosa: molte persone sono legate, giustamente secondo me, alla Messa di natale. Nella tradizione cristiana fin da lungo tempo si è creduto che nel momento di maggior buio, che poi è il solstizio d’inverno, intorno al 21/25 dicembre, spunta la luce. E quale luce spunta? Quella di Cristo, che nasce. L’uomo vive anche di significati e di tradizioni, nel legame con delle memorie che hanno costituito la sua vita. Io non trovo scandaloso che la Messa possa essere spostata alle 20 invece che alle 24, a parte che non capisco bene perché il virus circoli di meno alle 20 invece che alle 24. Comunque, a parte queste considerazioni, mi va bene. Però io dico: stiamo attenti, perché nel momento in cui noi vogliamo continuamente toccare tutti i significati simbolici, affettivi e di fede delle persone, non facciamo un guadagno né per le persone né per la socialità. La socialità si nutre di rapporti, di simboli, di tradizioni e questo deve essere guardato con attenzione, soprattutto dalla Chiesa. Io come cittadino sono attentissimo a ciò che lo Stato mi chiede e voglio assolutamente salvaguardare la salute mia e dei miei fratelli. Nello stesso tempo, però, non voglio uno Stato che entri a regolamentare quello che la Chiesa deve decidere. Quindi ci deve essere su questo punto una forte attenzione sui significati simbolici, culturali e di fede di ciò che la Chiesa vive».
Messa di Natale, Bregantini: “Nessun problema di orario, se resta il coprifuoco, anticipiamo”
Non “c’è nessun problema” per l’orario della Messa di Natale, la Chiesa italiana è “flessibile” su questo, anche perché la “Messa di mezzanotte è una tradizione”, niente impedirà, se le norme Covid lasceranno il coprifuoco alle 22, di anticipare di qualche ora la Messa della vigilia. A parlare è il vescovo di Campobasso, monsignor Giancarlo Maria Bregantini.
“Siamo flessibili sul piano degli orari ma profondi sul piano della proposta. Il Natale sobrio e solidale, che si preannuncia quest’anno è il vero Natale”, dice Bregantini. “Bisogna accettare con serenità questo difficilissimo momento che stiamo vivendo perché ci rende fratelli in questa pandemia. Non vogliamo privilegi”, dice il vescovo che invita i suoi fedeli a “meno sprechi e più solidarietà”. Quanto alle indicazioni pratiche, per rispettare le norme anti-contagio, è possibile che per la mattina del 25 si chieda ai sacerdoti di celebrare più Messe, dal momento che sono le più frequentate dell’anno. Quelle del 24 si anticiperanno ad un’orario che consenta il rientro a casa prima del cosiddetto ‘coprifuoco’ se verrà confermato dal nuovo Dpcm. “Piuttosto – conclude – dobbiamo essere pronti all’ascolto, per capire le nuove povertà reali e ridare motivazioni nel cuore, specialmente ai giovani”.
In quotidiano del Molise, 30 Nov 2020
Padre Enzo Fortunato: «La messa di Natale? Non è questione di orari, ma di fede». Il dibattito sulle festività in tempo di Covid
Padre Enzo Fortunato: «La messa di Natale? Non è questione di orari, ma di fede». Il dibattito sulle festività in tempo di Covid. In queste ore si sta consumando un confronto: la messa di Natale tra chi la vuole a mezzanotte e chi propone di anticiparla. Ascolteremo sicuramente e seguiremo le decisioni sagge che la Conferenza episcopale ci donerà. Ci vengono incontro alcune suggestioni per comprendere la quaestio profonda della celebrazione del Natale.
La prima. Il Natale prende spunto dalla festa dei Saturnalia e del Natalis Solis Invicti, che i Romani erano soliti celebrare durante il periodo del solstizio d’inverno in onore del dio Mitra. Quando il cristianesimo fece breccia nel cuore di Roma, la politica decise di far combaciare le due festività, quella pagana con quella della nascita di Gesù, in modo tale che progressivamente il cristianesimo avrebbe sostituito il paganesimo. Gli attributi solari furono anche il simbolo per alludere a Cristo come la corona radiata del Sol Invictus o, in alcuni casi, il carro solare.
L’altra suggestione che può aiutarci è che non è questione di orario, ma di fede. Non possiamo non soffermarci sulla bellissima differenza che viene posta nei Vangeli, tra kronos e kairos. Due sostantivi che di fatto aprono spesso, se non quasi sempre, i racconti evangelici, «in quel tempo». Nelle Sacre scritture il tempo si pone dinanzi a noi con una duplice valenza, appunto kronos e kairos: dal tempo che scorre a tempo di grazia, il momento in cui si incontra il Signore. Quindi la celebrazione, al di là dell’orario, del kronos, è chiamata ad essere soprattutto tempo di grazia, quindi kairos.
L’invito è a un cuore che si lascia abitare da Dio. Un ultimo aspetto. Da più di dieci anni, il Papa celebra la messa di Natale tra le 21.30 e le 22, e in migliaia di parrocchie gli orari variano dalle 21 alle 24. La messa vespertina (dopo il tramonto, richiamandosi al modo degli ebrei di computare il giorno: da un tramonto all’altro, e non da mezzanotte a mezzanotte) vale anche per il giorno di Natale. Fu introdotta da due decreti di Pio XII per dare l’opportunità di avvicinarsi a Dio a tante persone che per i più svariati motivi non potevano, e non possono, partecipare alla Messa celebrata al mattino presto.
Infine, attingendo dalla fede di san Francesco d’Assisi, l’inventore del presepe, possiamo dire che a Greccio, con la sua rappresentazione, Francesco ci fece capire che non era necessario andare fino in Terrasanta per toccare i luoghi di Cristo. Non è tanto questione di luogo geografico ma di luogo esistenziale: Betlemme è ovunque, anche nel cuore dell’uomo, proprio dove il Santo voleva che nascesse Gesù. Come racconta Tommaso da Celano: «E narrasi ancora come vedesse realmente il bambino nella mangiatoia, scuotersi come da un sonno tanto dolce e venirgli ad accarezzare il volto. […] Un cavaliere di grande virtù, il signore “Giovanni da Greccio” asserì di aver visto quella notte un bellissimo bambinello dormire in quel presepio ed il Santo Padre Francesco stringerlo al petto con tutte e due le braccia».
Al di là di tutto, ci vengono incontro i versi poetici del celebre drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che scrisse: «Oggi siamo seduti, alla vigilia di Natale, noi, gente misera, in una gelida stanzetta, il vento corre di fuori, il vento entra. Vieni, buon Signore Gesù, da noi, volgi lo sguardo: perché Tu ci sei davvero necessario».